Cronache di ordinari martìri  –  di Clemente Sparaco

La cronaca di questi giorni agitati ci consegna le storie di martiri che muoiono per la loro fede. Tutti hanno Dio come punto di riferimento: gli testimoniano un’obbedienza incondizionata, per Lui vivono e per Lui muoiono, contrastano quanto possa da Lui distogliere. Ma i martiri sono diversi e diverse sono le fedi.

 di Clemente Sparaco

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Martiri della Legge

I fratelli Said e Chérif Kouachi, gli autori dell’attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo, provenivano dalla banlieue di Gennevilliers, periferia nord di Parigi, dove emarginazione e degrado si mescolano a disoccupazione e criminalità.

Rimasti presto orfani, erano stati dati in affidamento. In un reportage sul terrorismo, mandato in onda nel 2005 su France 3, il più giovane, Chérif, appariva un ragazzo normale, con desideri simili ai coetanei del quartiere, amante del rap e interessato alle ragazze. Eppure già allora raccontava che il predicatore gli aveva parlato degli attentati suicidi. “È scritto che è un bene morire da martire” – diceva. Poi nel 2008 era stato condannato a 3 anni di prigione per coinvolgimento in una rete di reclutamento di jihadisti da inviare in Iraq.

Il 7 gennaio i due fratelli, vestiti di nero e con il volto coperto, sono entrati nella sede del settimanale e hanno fatto fuoco con i Kalashnikov uccidendo 12 fra giornalisti e collaboratori. Da ultimo hanno freddato un gendarme, già ferito e a terra, che con la mano implorava di essere risparmiato. Quindi, hanno iniziato una fuga che si è conclusa 54 ore dopo, quando sono stati uccisi dalle teste di cuoio nella piccola tipografia di Dammartin-en-Goële, dove si erano barricati.

Sparando hanno urlato: Allah akbar, che non significa semplicemente Dio è grande, ma: Dio è il più grande, Dio è l’unico. Questo perché, pur se cresciuti in Occidente, provavano ostilità verso quel mondo che percepivano come ingiusto, nonché privo di ideali, materialista ed egoista.

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Martiri della Grazia

zzmrtcptAnche i 21 lavoratori cristiani copti trucidati dai jihadisti dello Stato Islamico in Libia sono martiri. Provenivano dal governatorato di Minya, nell’Egitto centrale, ed erano stati rapiti a capodanno nella città di Sirte.

Nel video, diffuso il 15 febbraio con evidente finalità propagandista, li si vedono in tuta arancione camminare in spiaggia accompagnati dai boia, che poi li costringono a inginocchiarsi per sgozzarli. In una sequenza successiva l’acqua del bagnasciuga appare colorata di rosso. I rumori di sfondo sono silenziati e non si odono le voci dei condannati, ma, osservando attentamente il labiale, si capisce che sono morti invocando Gesù.

 “Il video che ritrae la loro esecuzione – ha dichiarato Antonios Aziz Mina, vescovo copto di Giza – è stato costruito come un’agghiacciante messinscena cinematografica, con l’intento di spargere terrore. Eppure, in quel prodotto diabolico della finzione e dell’orrore sanguinario, si vede che alcuni dei martiri, nel momento della loro barbara esecuzione, ripetono “Signore Gesù Cristo”. “Il nome di Gesù è stata l’ultima parola affiorata sulle loro labbra. Come nella passione dei primi martiri, si sono affidati a Colui che poco dopo li avrebbe accolti. E così hanno celebrato la loro vittoria, la vittoria che nessun carnefice potrà loro togliere. Quel nome sussurrato nell’ultimo istante è stato come il sigillo del loro martirio”.

Anche il Papa ha espresso il suo cordoglio. Il Signore “come martiri li accolga”, ha detto emozionato il 17 febbraio giusto all’inizio della Messa del mattino a Casa Santa Marta.

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La Legge

I martiri dell’Islam vogliono testimoniare il primato assoluto di Dio e la sua esigenza di giustizia. Sono convinti, morendo, di partecipare ad una beatitudine senza fine, perché saranno purificati dalle loro colpe ed entreranno subito in paradiso senza attendere la risurrezione nel giorno del giudizio.

Essi combattono l’Occidente che, con il suo laicismo, il suo ateismo pratico, il suo sviluppo umano senza Dio, inquina la fede e umilia i credenti in Allah. “Non vogliono vivere in un mondo sempre più disumano come il nostro, ricco e arido, ma vuoto dentro, di cui ci lamentiamo anche noi. Questo il ritornello che si sente nelle moschee e si legge sulla stampa islamica: i credenti nel Corano hanno la missione di riportare a Dio l’Occidente ateo e svirilizzato” – ha scritto Piero Gheddo (Tempi 12 febbraio) investigando le motivazioni che spingono un giovane musulmano alla jihad. Sono martiri della Legge (la Sharia), non della Grazia, volendo parafrasare quanto Paolo scriveva nella Lettera ai Romani.

La Sharia risponde al proposito di informare tutta la vita ai principi religiosi del Corano. Essa è lo strumento normativo vincolante dell’intera vita personale, familiare e sociale. Regola tutti gli atti umani, sia nell’ambito morale-religioso che in quello sociale-politico. Il rapporto con Dio si esprime, quindi, come osservanza di comportamenti religiosi e sociali collettivamente accettati, ed è questo che fonda e crea l’appartenenza alla comunità dei credenti, la Umma.

Sono convinti che la fede è il dono più grande di Dio, che occorre custodirla con la preghiera e l’osservanza dei Comandamenti, ma, se è necessario, difendere e diffondere con la spada. Perché l’Islam è un monismo radicale, ispirato al modello dell’Uno, che non ammette pluralità o difformità. Esso come mediatore fra Dio e gli uomini non ha una persona, ma un libro, il Corano, che è totalmente divino, in tutte le sue sure, finanche nell’espressione linguistica che lo veicola (l’arabo). Il Corano non rivela il volto di un Dio che è relazione e, quindi, realtà comunionale, quanto richiede il riconoscimento che Dio è l’unica causa del mondo e, quindi, una soggezione-abbandono totale.

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…e la Grazia

I martiri cristiani sono dei cristificati, che “completano nella carne quanto manca alla passione di Cristo” (Colossesi 1,24). Il volto cristiano di Dio è, infatti, il volto del Crocifisso, in cui la potenza si mescola alla debolezza, perché “quando sono debole, è allora che sono forte (2 Cor 12). “Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!” – ha scritto il teologo Dietrich Bonhoeffer, prima di morire da martire lui stesso nel campo di sterminio nazista di Flossemburg.

Il baricentro della fede cristiana non è in un culto religioso e nemmeno in un libro, ma in una persona. Il cristiano realizza la propria fede “in un rapporto personale(…) con la personalità della vita e della parola di Gesù” (Ferdinand Ebner, Frammenti pneumatologici). Ciò importa il primato della coscienza, come tempio interiore in cui l’uomo può rivolgersi a Dio e appellarlo direttamente come Padre. Ciò importa il primato della Grazia sulla Legge.

La Legge sintetizza in sé, per Paolo, tutti gli sforzi umani di raggiungere Dio. Ma la Legge è insufficiente, perché nessuno sforzo umano può portare a Dio, se non è Dio stesso a soccorrere. Anzi, la Legge è conseguenza della chiusura dell’uomo in se stesso e, essa stessa, può divenire un giogo che intimorisce ed opprime.

Nella dimensione della Grazia ciò che domina invece non è il timore, ma l’amore. Chi adempie la Legge è ancora incapace di fare comunione con Dio e non è libero. Chi ama, invece, ha non solo adempiuto la Legge, ma si trova nella condizione della libertà dei figli di Dio, per cui non è più chiamato servo, ma amico (Giovanni 15,15). Perché non c’è legge che tenga, perché tutti i propositi umani si rovesciano in superbia, violenza, intolleranza, perché il male profondo si annida non solo nella morte fisica, ma anche, e soprattutto, nella morte nell’anima e dell’anima. L’amore umano senza l’amore di Dio non si sostiene!

Ora la rivelazione dell’amore di Dio è, per i martiri cristiani, in Gesù, quello stesso che i 21 copti giustiziati hanno invocato come ultimo atto della loro esistenza.

Questa dimensione dell’amore, che spinge fino al sacrificio di sé, è quella che il Vangelo designa come il cuore della Legge: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,37-40).

2 commenti su “Cronache di ordinari martìri  –  di Clemente Sparaco”

  1. giorgio rapanelli

    Ottimo articolo, nella teoria. Nella pratica occorre vincere. Il terrorismo, come quello dell’Isis, si combatte e si può vincere solo con le armi. Magari chiedendo l’aiuto dello Spirito. Purtroppo, nelle vicende degli ultimi due secoli si è dovuta usare violenza. Il pacifismo e il buonismo spesso nascondono la incapacità di decidere cosa fare per risolvere un problema. All’occorrenza, si può reagire in modo diverso dalla violenza che è stata esercitata. Come nel caso del terrorista assassino Nelson Mandela, che fu imprigionato, invece di venire impiccato, per poi farlo diventare santo dai soliti farisei politici. Certamente, ai poveri cristiani copti non rimaneva che morire col nome di Gesù sulle labbra. Ma, potendo, avrebbero dovuto usare le armi e spedire quelli dell’Isis tra le fiamme dell’inferno, a bere acqua bollente e a mangiare i frutti avvelenati dell’albero zaqqum. E’ possibile che non ci sia un imam che ricordi queste cose e che Dio impone di respingere il male facendo il bene?

  2. …”Ma i martiri sono diversi e diverse sono le fedi.”
    Sì, ma sono uguali nel loro vissuto: chi crede veramente non è mai “tiepido”, altrimenti cade
    nel nulla.
    Quindi…GRAZIE RISCOSSA CRISTIANA!!!

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