Ho incontrato il Quinto Stato (prima parte) – di Roberto Pecchioli

 

Ho incontrato il Quinto Stato. È accaduto stamattina, sul presto, nel mio quartiere. In meno di mezz’ora e nel raggio di poche decine di metri, ho verificato l’esistenza del Quinto Stato. È qui, l’ho incontrato e perfino toccato. Conosciamo l’antica divisione della società in tre ordini, risalente al Medioevo. Il primo ordine, o Stato, era costituito dal clero; il secondo dai nobili. Il terzo, teoricamente, da tutti gli altri. La sua rappresentanza, negli Stati Generali francesi, fu affidata ai membri della nascente borghesia, che fece la Rivoluzione e seppellì per sempre il passato. Il suo vate fu l’abate Sieyès, autore di un fortunatissimo libello che incendiò la Francia all’inizio del fatidico 1789. Con il lessico di Gyorgy Lukàcs, potremmo dire che fu l’ecclesiastico di Fréjus a dare al Terzo Stato una coscienza di classe, a partire dalla celeberrima frase “che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa desidera? Diventare qualcosa”. La borghesia tagliò la testa del Re e inaugurò la modernità.

Nel corso dell’Ottocento, la polemica socialista iniziò a parlare di Quarto Stato, ovvero del proletariato contadino e operaio le cui file si ingrossavano all’ombra della rivoluzione industriale, dell’urbanizzazione forzata, della nascita delle grandi fabbriche. La sua rappresentazione artistica è il grande dipinto del 1901 del piemontese Giuseppe Pellizza da Volpedo: una folla compatta e ordinata che incede verso il futuro, fiduciosa nella Storia, con alla testa una giovane madre con il figlioletto al collo e due uomini, i contadini più combattivi. Vi è in questo quadro di grandi dimensioni e gigantesche ambizioni, il senso di una composta dignità, una sobria eleganza pur nella semplicità popolana degli abiti e degli atteggiamenti, un avanzare irrevocabile, inevitabile di uomini e donne che si sentono comunità in marcia decisi a cambiare la loro condizione tutti insieme.

Travolto dalla postmodernità fattasi surmodernità, il Quarto Stato si è dissolto alla fine del secolo XX che aveva inaugurato e poi attraversato con tante speranze. Al suo posto avanza, o meglio retrocede in un nuovo feudalesimo la poltiglia umana che ci sentiamo di definire Quinto Stato. Surmodernità è la parola chiave per spiegare il Quinto Stato. L’espressione coniata da Marc Augé tratteggia gli eccessi sofferti da un’umanità immersa in una tripla accelerazione: eccesso di tempo, per la fatica di dare un senso alla realtà nella sovrabbondanza di eventi ed informazioni; eccesso di spazio per la velocità di spostamenti in un mondo sempre più piccolo. Infine, l’eccesso di ego, l’individuo che si considera un mondo a sé a discapito della dimensione comunitaria.

Nel terra desolata, guasta della surmodernità ribolle un’umanità rizomatica, il Quinto Stato. L’ho incontrata a pochi passi da casa, una mattina qualunque, perché per una volta ci ho fatto caso. Accanto al supermercato in apertura staziona un giovane maschio africano, sbarcato da qualche barcone e portato qui dalla Marina Militare.  Per nulla denutrito, meno male, sorridente, ospitato a spese nostre per non fare nulla, per non essere nulla, mi appare come un gadget vivente e inconsapevole della contemporaneità. Ha uno smartphone con le cuffie, la maglietta di un gruppo rock, il giubbetto con cappuccio e scarpe sportive d’imitazione delle grandi marche che producono in Asia. Vuole un suo piccolo posto nel grande circo del mercato globale, non cerca né si aspetta più un’esistenza “normale”.

Oltre l’elemosina, aiuta le signore con il carrello della spesa, ogni tanto dà una mano a pulire qualche giardino privato. Quando i commerci sono chiusi ciondola con altri come lui – sembrano fabbricati con lo stampino – e poi sale sul bus, dove ovviamente non fa il biglietto e non viene multato, tanto non potrebbe pagare. Stamane gli è passato accanto un ragazzo con tatuaggi tribali e un piercing nel naso, zainetto di marca sulle spalle, lo stesso smartphone, le medesime cuffie, abbigliamento e andatura fotocopia, la differenza è che le griffe di abiti e scarpe sono autentiche. Va a scuola “firmato”, è un po’ in ritardo ma non si affretta, i professori saranno abituati. Dalle movenze e dal suono attutito dalle cuffie, sta ascoltando un rap, probabilmente Young Signorino (Mhh, ma che buona/ questa dolce droga bu, bu / Mhh, ma che buona bu, bu) o Sfera Ebbasta, al secolo Gionata Boschetti, re del Trap, la cui popolarissima Tran Tran parla di uno cui non frega niente di nulla, mentre altrove celebra la sua ragazza interessata unicamente a soldi e droga.

Giusto il tempo di riavermi, e il Quinto Stato, se preferite la Moltitudine desiderante di Negri e Hardt, la vecchia plebe di Hegel, ricompare nelle sembianze di un giovane uomo trafelato, malvestito, forse italiano, forse sudamericano, che, sceso da un ciclomotore da rottamare con una gran borsa a tracolla, si informa su un indirizzo. Consegna posta: se la sua condizione è simile a quella del figlio ultratrentenne di conoscenti, ha la partita IVA (un imprenditore!), lavora almeno nove ore al giorno nel traffico- i rischi sono tutti suoi, è un autonomo, magari rientra nelle statistiche delle start-up – racimolando al massimo tra i 700 e gli 800 euro al mese. Mangia cibo di strada da un cartoccio sporco, porcheria consegnata da un povero cristo come lui, un altro del Quinto Stato.

La mia meta è il negozio di un grande gestore telefonico che ha appena “mangiato” qualche decina di euro per servizi e applicazioni che non ho chiesto, ma solo incautamente digitato credendo di rifiutarle (un giochetto molto comune, sembra) mi metto in fila, ma il Quinto Stato è in agguato. Ha la fisionomia di un corpulento giovanotto sulla trentina accompagnato dalla moglie – più probabilmente la compagna – con bimbo al collo. Indossa una camicia trasandata mai stirata, con pantaloni corti jeans a vita così bassa che mostrano ampie porzioni di un imbarazzante lato B, gambe e braccia rivelano tatuaggi multicolori. Ha un linguaggio pressoché incomprensibile, grugnisce pochi vocaboli anglo dialettali inframmezzati dall’immancabile “cazzo”, manifestamente capisce poco di quanto gli dice il commesso, e si rivolge per soccorso verso la ragazza che scuote la testa, mostrando con una certa fierezza due ciliegie tatuate dietro un orecchio. Il Calibano del Quinto Stato conosce perfettamente tutti i piani tariffari dei gestori telefonici e possiede l’abbonamento a Netflix.

Rassegnato al nuovo che avanza, esco dal tempio dei telefoni cellulari e delle tariffe “all inclusive” per imbattermi in un ulteriore, insidioso esponente del Quinto Stato. Ha le sembianze civilizzate di un compito giovin signore in giacchetta, cravattino e valigetta 24 ore. Figlio di famiglia, spiega di essere socio di un’agenzia immobiliare, cerca appartamenti vuoti da vendere o affittare, dà del tu a tutti e fa capire che pagherà qualcosa per ogni segnalazione positiva ricevuta; nel frattempo cerca di vendere contratti per grossisti di energia elettrica. Un imbroglioncello laccato già pronto ad assumere il ruolo di impiegato d’ordine della globalizzazione.

In mezz’ora ho visto e toccato con mano un universo che vent’anni fa era inimmaginabile. Avanza al passo del gambero una nuova imponente classe sociale del tutto ignara di esserlo. Non possiede alcuna coscienza collettiva, né sembra interessata all’impegno: politico, sociale, civile, etico. Vive e tanto basta. E’, in mille forme diverse, il Precario Globale Desiderante. La nuova classe dei perdenti dominati ignari: il Quinto Stato.

(1 – continua)

9 commenti su “Ho incontrato il Quinto Stato (prima parte) – di Roberto Pecchioli”

  1. Aggiungo altre due nuove figure del QUINTO STATO. I ragazzi/e precari ( come quelli dei call center)che per la strada , ma anche a casa tua cercano di affibbiarti una adozione o sostegno per una Associazione Umanitaria (Save the Children-Fao-Emergency ecc). Nel mio caso tra le 17:00 e le 18:00 è passato una prima volta nel mio palazzo a Milano, un ragazzo con pettorina azzurra UNICEF per cercare sostenitori o adottanti. Una seconda volta alle 19:45………..per contattare gli inquilini assenti alla prima visita….chiaramente sono precari con contratti a cottimo e con stipendio di base da fame come documentato dai giornali. La seconda figura invece è quella dei neolaureati assunti con gli stipendi in vigore grazie al JOB ACTS . Sono un ex dipendente ( grazie a Dio ) della più grande azienda italiana di telecomunicazioni ed ho saputo , per conto di un conoscente che purtroppo lavora ancora nella stessa azienda , che i neo assunti in azienda, LAUREATI ( in ingegneria ed informatica) , hanno uno stipendio base di 1.100/1.200 euro, non di più……continua…

    1. continua…….Io penso che i il Quinto Stato sia in, realtà composto da moltissime nuove figure che costituiscono i nuovi poveri. Hanno ottenuto quello che volevano. La stabilizzazione della precarietà. Non per niente Macron si è detto molto interessato a studiare il job acts italiano per poterlo trasferire in Francia. Liberte’- Egalite’-Fraternite’-Precariete’………

  2. Prof Pecchioli la sua penna (tastiera?) come al solito fotografa in modo impeccabile la nostra realtà. La pena che ne traspare non è seconda ad un realistico amore per la misera umanità che raffigura. Non c’è da aggiungere altro. Come sempre le sono grata per le sue parole, io che mi sono definita spesso persona di sinistra quanto sto imparando dai suoi scritti…

  3. Questa capacità di vedere la realtà con gli occhi tersi del vero cristiano, come vorrei averla e trasmetterla a mia figlia che domani riceve la Santa Cresima.

  4. Certi autori a mescolare le carte superano in abilita’ i nostri politici, complimenti. Teniamo separati i due temi, situazione di lavoro e giovani. Il nostro bel paese rifiuta di fare riforme, o al massimo ne fa di finte col risultato che si e’ visto alle passate elezioni. Quanto ai giovani temo che siano il prodotto della soppressione del servizio di leva che in un paese dove da sempre manca amor patrio, ora si chiama senso civico, dava un senso di ordine e coesione tra diverse classi sociali.

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