Felice Gimondi: razza bergamasca, campione di umiltà

Con quella faccia un po’ così, di razza bergamasca, sarebbe potuto essere un alpinista o il suo sherpa, un ufficiale alpino o l’ultima delle penne nere, un monaco dell’Athos o uno dei suoi penitenti, un capomastro di genio o un bocia addetto alla malta, un proprietario di terre o il contadino dietro l’aratro. Secondo Gianni Brera, che lo chiamava Nuvola Rossa per quel taglio speciale degli occhi e il naso che cadeva a precipizio sul sorriso composto, sarebbe potuto essere anche un capo indiano. Invece il Creatore, che è meno avaro e selettivo del più generoso e clemente degli uomini, per modellare Felice Gimondi ha messo insieme tutto questo e altro ancora e ne ha fatto un ciclista. Un ciclista bergamasco, un uomo cosciente fino in fondo del proprio valore eppure capace di praticare l’umiltà. Il ciclismo è una gran scuola perché ti insegna a perdere, diceva in qualsiasi intervista quando gli si chiedeva che cosa avesse voluto dire per lui correre in bicicletta.

E glielo chiedevi sempre, la seconda, la terza, la ventesima volta che gli stavi davanti con il taccuino in mano perché quella lezione la dobbiamo imparare tutti e fa sempre bene sentire un ripasso dal più bravo. Ora che se ne è andato quasi a tradimento, perché qui a Bergamo nessuno avrebbe mai pensato che ol Gimond potesse morire, bisogna che questo amore per l’umiltà non vada perso. Non sarà facile tenere dietro all’esempio di quest’anima bergamasca che ha mostrato la disposizione a farsi piccoli proprio mentre si cerca di essere grandi.

È duro imparare a perdere quando si è fatti per vincere, come lo era Felice Gimondi, è duro imparare a perdere quando si è vinto tutto. Giro, Tour, Vuelta, grandi classiche, mondiale e chissà quanto altro se non fosse comparso sulla scena Eddy Merckx, il Cannibale. È duro imparare a perdere quando per tutti si è l’uomo da battere.

È duro, ma accadde. È un altro dei ricordi che Gimondi non trascurava mai, forse il più amaro, quello del Giro di Catalogna del 1968, quando a Rosas il giovane Merckx lo mise nel sacco per la prima volta in una cronometro. Ho passato tutta la sera fino alle due di notte a camminare sulla spiaggia con Giancarlo Ferretti per rendermi conto di cosa fosse successo. Alla fine, ho capito: Eddy era più forte di me. Ci ho messo due anni a mandarla giù, però ce l’ho fatta. Non ho mai mollato e diciamo anche che qualche volte sono riuscito ad arrivargli davanti. Ma lui era il più forte.

Questa è umiltà da campioni. Mai un dopogara in cui questo purosangue di razza bergamasca abbia recriminato sceneggiando beceraggini all’italiana tipo “ci fosse stato ancora un chilometro…”. Diceva sempre che la gara finisce sotto il traguardo, chi passa per primo ha meritato di vincere. Sapienza orobica, essenziale e precisa, come quella serba che Vujadin Boškov esprimeva nel suo celebre Rigore è quando arbitro fischia. E tanti saluti al Var.

E tanti saluti anche alla tattica, che nel pensiero di Felice Gimondi serve, sì, ma non quando si devono formare le nuove leve. Non mi piace come si allevano i giovani oggi. Per per me bisogna fare una piccola squadra del campanile, cinque o sei ragazzi che corrono senza risparmio, ciascuno per conto proprio, imparano ad andare in fuga, a prendere l’aria in faccia e a fare fatica. Allora sì che si tirano fuori i campioni.

Campioni come lui, capaci di vincere perché non cedono mai, consapevoli che quella è la loro bellezza e non soffrono se non si vede. Campioni che non sono invidiosi della grazia altrui, anzi la riconoscono, la venerano e ne godono. Quando ho cominciato a vincere dicevano che ero il nuovo Coppi, ma non avevo la sua classe. Lui era un’altra cosa a vederlo pedalare. Come Anquetil, forse il più bello di tutti. Io ero un diesel che non si fermava un momento. Se mi hanno fatto così, non potevo pretendere di essere diverso. Ho sempre dato il massimo e mi sono sempre accontentato di quello che ho avuto in cambio.

Era la scuola di Sedrina, in casa del papà camionista e della mamma postina. Lì, all’imbocco della Valle Brembana, è terra dura che si sfalda a contatto con l’acqua, proprio dove il Brembo si inserpentisce in giravolte che paiono tornanti del passo San Marco e liscia i sassi e i rami di castagno e li tira bianchi e lucidi come la pelle di certi vecchi di cui si è perso il conto degli anni.

Terra cristiana e fino a qualche decennio fa bastava nascerci per avere qualche probabilità in più di venir su con fede buona nei polmoni. La domenica, Messa alle sei di mattina e poi a correre in bicicletta senza grilli da cristiano anonimo per la testa. Pensieri, chiari, puliti e precisi, tutti in dialetto. Dicono che pare ostrogoto, ma a parlarlo con la giusta cadenza il bergamasco si mostra per quello che è, lingua liturgica alla portata di tutti, una giaculatoria un soldo, per dire la fatica lungo la strada, nei campi, in fabbrica. Lingua liturgica buona nei giorni feriali, fin sul sagrato, perché, ai tempi in cui Felice correva sulle salite di Sedrina per aiutare la mamma a portare la posta, in chiesa usava il latino. Il bergamasco introduceva al mistero e il latino lo celebrava. E il senso del sacro entrava fin nelle ossa.

Certo che sono cattolico, diceva Nuvola Rossa Gimondi a ogni intervistatore che chiedeva lumi sulla sua fede con superficiale curiosità per il pittoresco. La sostanza ce la metteva lui, tutta coagulata in quel Certo, che pesava più di una Summa. Noi bergamaschi siamo così, un po’ asciutti, con le parole a giri contati, perché pensiamo in dialetto anche se parliamo italiano. Tutta roba breve, come il trattato gimondiano sulla fedeltà coniugale. Se provavi a chiedergli delle tentazioni in cui può cadere un uomo di successo che gira il mondo lasciando la moglie a casa, lui scuoteva la testa e poi ti diceva Certe cose fan parte del Dna. Perciò… per me andava bene lei e basta.

Lei, che di nome fa Tiziana, veniva da Diano Marina, dove i genitori avevano un albergo, ed era abituata alla vita di un luogo di villeggiatura. Come usava un tempo, quando decisero di fare sul serio, i genitori di lui andarono in Liguria a conoscere la famiglia della fidanzata. Poi vennero i genitori di lei a Sedrina. Qui era veramente un altro mondo e gli occhi della ragazza di sedici anni lo fotografarono in una panchina di pietra su cui stavano sedute le donne con gli abiti neri e lunghi. Però ci rimase a vivere volentieri, per la famosa questione del Dna.

La faccia bergamasca di Gimondi veniva da lì, anche se Brera era andato a cercarla tra gli indiani d’America senza sapere che la Valle Brembana è popolata da occhi con quel taglio speciale e nasi che cadono a precipizio su sorrisi composti. L’ultima volta che me la sono trovata davanti è stato tre mesi fa in ospedale a Bergamo, stesso medico, stessa fila. Io uscivo dalla visita, lui stava aspettando la conferma di un appuntamento e ringraziava come se gli avessero fatto un regalo: Grazie, dottore. Grazie davvero. Era veramente sempre lo stesso. Ciao Felice. Ciao.

Non so se parlare di razza bergamasca sia già punibile per legge, in ogni caso lo sarà tra poco. Non fa niente. Devo mettere nero su bianco che Gimondi è il campione di una razza il cui carattere, secondo un celebre distico di Giacinto Gambirasio, ol Gambiràs, è “Fiama de rar, sóta la sènder brasca”, fiamma di rado e sotto la cenere brace. Io sono solo un cascame, ma sempre della stessa razza si tratta e non è poco. Adesso se qualcuno deve applicare una legge la applichi. Se la legge non c’è ancora lo faccia pure a suo tempo con effetto retroattivo. Quello che dovevo dire l’ho detto.

10 commenti su “Felice Gimondi: razza bergamasca, campione di umiltà”

  1. Grandioso Alessandro Gnocchi! Di tutto ciò che su Gimondi circola in questi giorni, questa nitidissima fotografia scattata al ciclista e soprattutto all’uomo con cui il nostro autore condivide la razza (grande apprezzamento per questi bergamaschi tutti d’un pezzo!), è sicuramente l’ omaggio più sincero e più appassionato.
    I grandi uomini fra di loro non fanno fatica a riconoscersi.

  2. Concordo con la signora Tonietta. Mio marito era un appassionato di ciclismo e su Gimondi diceva proprio quello che il dottor Gnocchi a scritto come solo lui sa fare. Grazie davvero per averci mostrato l’anima di un uomo vero.
    Elena De Palma

  3. Questi sì che sono articoli. Grazie specialmente per non aver cominciato con la solita tiritera del corridore cattolico e averne detto solo lo stretto necessario. Altrimenti qui finisce che si scambia la fede per una maschera da mettersi per nascondersi davanti a un mondo che fa paura. Mi è molto piaciuta la faccenda del Dna e la considerazione sulla faccia di Gimondi.

  4. Franco Locatelli

    Davvero bello questo articolo. Grande, grandissimo il soggetto, ma bravo anche chi lo ha scritto. Sono un bergamasco capitato per caso sul vostro sito perché cercavo notizie su Gimondi. Ci tornerò
    Franco Locatelli

  5. Grazie Alessandro Gnocchi: leggendo il suo articolo mi sono emozionato come cinquanta anni fa, quando seguivo le imprese di Felice Gimondi con mio babbo.Come avrà capito non sono bergamasco, ma, con tutta la mia famiglia, sento di appartenere alla comunità sua e di Felice. Con stima Massimo

  6. Oggi sono stato al funerale di Gimondi. Ci mancherà, ma quello che è più triste è che se ne accorgeranno in pochi perché le persone serie non piacciono più.
    Romeo

  7. Non Metuens Verbum

    Stamane pensavo al funerale di Gimondi, ai tenti affetti che lascia, la famiglia, i colleghi, tutti noi sconosciuti amatori del ciclismo, del suo ciclismo in particolare. E mi viene in mente San Pietro che dice: “Ecco, Signore, noi abbiamo lasciato TUTTO per seguirTi, e che cosa avremo ?”. E pensavo che arriva il momento in cui ciascuno di noi lascerà davvero TUTTO, e starà davanti al Signore senza più niente di niente, tranne la decisione di seguire Lui oppure no. E allora si vedrà che cosa avremo in cambio.

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