La tempesta perfetta. Chi l’ha scatenata e come una vera scuola potrebbe salvare i nostri figli

Stiamo assistendo a una operazione, tanto patente quanto capillare, di rimozione e mistificazione pilotata della realtà con tutti i suoi esiti distruttivi. Va di conserva alla edificazione di un immaginario collettivo capace di riassorbire in una visione (in apparenza) coerente le rovine causate. Un grande lavacro mediatico, insomma, che consente di depistare le responsabilità e mandare assolti i colpevoli, di cancellare tante vergogne contando sulla memoria corta dello spettatore passivo: quello stesso che canta in coro il ritornello dell’aggressore e dell’aggredito perché si beve sereno la storia che la storia del mondo inizia precisamente da lì, non un istante prima.

Ecco allora fioccare articoli e servizi su scala più o meno vasta i quali, strumentalizzando fatti e atti del vivere quotidiano, li distorcono per costruirci sopra casi esemplari e nuovi paradigmi: dal cilindro spuntano i nuovi totem da adorare, le nuove streghe da bruciare a favore di masse rimbambite chiamate a raccolta intorno a una metafisica prêt-à-porter fatta di pseudovalori da strapazzo, perché c’è pur bisogno di credere in qualcosa se questo qualcosa non è più un dio. Che l’operazione comporti l’effetto collaterale di stritolare persone per bene, o sacrificarne altre al monolite ideologico, pazienza. L’importante è non intralciare il flusso inebriante del progresso, tenere fede al copione e, in omaggio alla sua trama, lanciare progetti, costruire culti e altarini, inventare molte “educazioni” in grado di fabbricare ominidi di serie bravi a pappagallare a vita slogan di ordinanza.

Come sempre accade, i primi destinatari della fiction sono le nuove generazioni: del resto, i grandi laboratori a cielo aperto, come quello della pandemia, sono apparecchiati sopratutto per loro.

LA SCHIAVITÙ LOGORA CHI CE L’HA E come per magia si scopre d’improvviso che oggi i ragazzini sono quasi tutti stressati, sofferenti, fragilissimi. Vegetano, stanno male sia nel fisico sia nell’anima. Giornaloni, giornaletti e rotocalchi emanano i bollettini di guerra dell’ultimo terribile contagio: parlano di impennata di suicidi e di atti di autolesionismo, di reparti di neuropsichiatria intasati, di sindromi post traumatiche dalle mille manifestazioni, di disturbi alimentari fuori controllo, di manie ossessivo-compulsive, di dipendenze, di distacco dalla realtà, di ansia e depressione, di difficoltà di socializzare, di frustrazione e incertezza verso il futuro, di disturbi del sonno, di aggressività, di solitudine siderale senza vie d’uscita, di psicofarmaci come se piovesse. Dolori proteiformi e senza confini, e incapacità di esprimerli per incapacità di comunicare e quindi di compatire, ovvero di sciogliere il male interiore in un bacino un po’ più ampio del proprio cuore ferito.

In parallelo, si registra un crollo delle facoltà cognitive, espressive, logiche, speculative; della capacità di concentrazione, di memorizzazione, elaborazione, calcolo; l’inabilità diffusa a scrivere in modo intelligibile persino a se stessi, e in generale a interagire con i propri simili attraverso un linguaggio appena articolato; l’inettitudine a comprendere la propria lingua madre, coi suoi lemmi, la sua grammatica, la sua sintassi, e di analizzare un testo, e di afferrarne il senso. Di fatto, mutismo e sordità sono diventate piaghe endemiche e ingravescenti: circostanza di cui la scuola che non è più scuola prende atto, compiacente.

Ora, una persona normale che abbia abitato questo disgraziato pianeta negli ultimi anni penserebbe subito che non poteva andare a finire diversamente per le cavie di una sperimentazione che ha voluto vedere l’effetto che fa isolare dei cuccioli d’uomo per un tempo infinito in proporzione alla loro età, terrorizzarli senza tregua, costringerli a obbedire a ordini demenziali cui i grandi obbedivano senza fiatare come soldatini sotto ipnosi (tipo sensi unici pedonali nei corridoi degli edifici, così come nelle vie della città; fogli di carta messi in quarantena, stanze di segregazione per uno sternuto; facce e voci deformate dagli schermi; palombari vaganti, distanze di sicurezza; occultamento dei volti, sterilizzazione di oggetti, di cibarie, di giardini e di spiagge; non hai diritto a un bicchier d’acqua, puoi bere solo in piedi e dopo le diciotto e quindici; fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù; e molto altro).

E ancora, vedere l’effetto che fa impedire loro di giocare, di fare sport, di salire sull’autobus, di trovarsi (di assembrarsi), di sorridersi e di litigare, di correre e cascare e sporcarsi, di muoversi liberamente al chiuso e all’aperto, stando relegati in apnea nel loro fazzolettino di pavimento recintato e compulsivamente disinfettato, simpatica gabbietta per topolini domestici. Vedere l’effetto che fa mostrare loro morti, imbustati dentro sacchetti neri, sparire nel nulla senza un addio, senza la pietà che ci ha insegnato Antigone agli albori di una civiltà dimenticata.

Infine, vedere l’effetto che fa ricattarli – loro, che manco si ammalavano di un raffreddore – per svuotare i magazzini di un farmaco sperimentale che si sapeva (quantomeno) inefficace: ti concedo un brandello di libertà vigilata, in cambio dell’ipoteca sul tuo corpo e sulla tua salute, corri a ritirarlo gratis allo hub più vicino, panino in omaggio. Insieme al distintivo di bravo cittadino da appuntarti al petto e sfoggiare in società, quella stessa che aveva elevato la delazione a valore civico supremo.

E sopra tutto questo inferno, una costante, frutto dell’addestramento coatto durato un paio d’anni di esercizio intensivo: fornire la carica perenne a una calamita invincibile che impone di restare appiccicati fissi a una scatoletta elettronica, unico tramite con l’altro da te nella “società senza contatto”, unica valvola della pentola a pressione in cui ti hanno trasformato. Senza più giorno né notte, senza ritmi cicardiani, senza tocchi o aliti di vita. La vita infatti era tossica; il primo comandamento, quello di scansarla. Vade retro, vita.

TRATTAMENTO SINTOMATICO DELLO STRESS. E LE CAUSE? Qualcuno sano di mente poteva davvero pensare che i cuccioli d’uomo uscissero indenni dall’esperimento? Che a comando tornassero in forma, come un qualsiasi materiale elastico e comprimibile che riprende il suo spazio non appena liberato dalla morsa? Qualcuno può non vedere un nesso causale grande così tra l’esperimento condotto con tanta ferocia, e gli eventi dannosi che abbiamo oggi sotto gli occhi, per cui torme di espertoni si strappano i capelli?

A quanto pare, sì. Anche questo disastro – troppo imponente per essere taciuto – sono riusciti ad appenderlo al vuoto pneumatico dell’hic et nunc, recidendo ogni collegamento con il passato. A beneficio di tutti quanti, a ogni livello della piramide sociale, devono guadagnarsi prima l’oblio e poi l’impunità, e sono parecchi: aguzzini, carcerieri, delatori, sceriffi e sbirri improvvisati, psicopoliziotti, impegnati tutti a infierire sul proprio simile, specie se indifeso, persino sui bambini. Persino sui bambini. I volontari si arruolano a frotte.

Si capisce bene, allora, come sia altrettanto facile far evaporare il passato, anche recente, dalla mente collettiva, distratta su altri fronti di intrattenimento. Così, dopo aver scaricato per anni su spalle non ancora formate un peso emotivo ed esistenziale insostenibile, dopo aver organizzato la transumanza di massa nella dimensione straniante dell’artificio, giornali e tv ci raccontano adesso che a stressare i ragazzi è la scuola. La scuola li rattrista, sì, ci dicono, perché è troppo esigente, vecchia e ingessata, poco amichevole, incapace di rendere gli scolari protagonisti della propria formazione. E quindi, è urgente che la scuola si aggiorni, si metta al passo con il progresso, si digitalizzi completamente; si faccia più inclusiva e ricca di attrazioni, assecondando l’indole dei suoi frequentatori che vanno divertiti e distratti perché così raggiungono il loro personale “successo formativo” e allora, finalmente, si autostimeranno. Del resto, a cosa servono gli insegnanti, se non ad animare scolaresche annoiate e a gratificarle con tanti complimenti, ricchi premi e cotillons?

Se i più giovani sono stressati, dunque, la colpa è di quegli insegnanti superstiti che ancora cercano di insegnare con rigore e serietà le proprie materie di studio, e con esse la vita. Costoro vanno sputati fuori da questo sistema “educativo” socio-assistenziale e pseudo-sanitario lanciato verso il tracollo di obiettivi e risultati, perché è l’allievo l’unità di misura di se stesso e, per non turbarlo, va coccolato nel suo status quo, dentro un bozzolo autoreferenziale inviolabile da chiunque eccetto che dallo psicoesperto. E giù di psicologi e di psicopedagogisti, di psichiatri e di certificatori, che fanno affari d’oro per spianare a tutti la strada alla conquista di diplomi vuoti e luccicanti.

C’È IL TRUCCO E C’È L’INGANNO A nessuno passa per la testa che a distruggere questa generazione è stata proprio l’eclissi della scuola, che li ha completamente abbandonati, prima incarcerandoli nella loro cameretta, poi riaprendo le porte sottoforma di caserma a nonnismo libero, infine rimettendo in moto la macchina pedoburocratica come nulla fosse accaduto, e omettendo qualsiasi spiegazione dell’incredibile che è accaduto per davvero. Manco delle scuse per il trattamento inflitto, per gli orrori perpetrati. Zero, come fosse solo una parentesi un po’ anomala da chiudere e dimenticare, e chi s’è visto s’è visto.

Così, schiere di ragazzini arrugginiti e inselvaggiti, disorientati e smarriti, contenitori viventi di ordigni inesplosi, sono tornati a condividere gli spazi fisici che per inerzia chiamiamo ancora scuola, ma sarebbe ora di trovare un altro nome. Dalla regia suggeriscono “ecosistema di apprendimento” (e però ci andrebbe spiegato quale apprendimento) o eduverso, che le sta già meglio perché non significa niente.

E siccome stanno tutti male, che si fa? Si elimina dal loro orizzonte ogni spinta al miglioramento e tutta la dimensione dell’impegno e dello sforzo, si personalizza il percorso di studi ritagliandolo sulla misura all’indole (immatura, per definizione) e ai limiti (presunti e provvisori, per definizione) individuati dallo scrutatore esperto; li si psicopedagogizza in serie; si mette loro in mano qualche giochino colorato dei colori dell’arcobaleno, alcune volte ancora sottoforma di vecchio libro, con tante immagini, poche parole e le poche parole ridotte a slogan; li si rieduca ai dogmi inventati a uso e consumo di una società morente: è stupendo che l’ultima trovata si chiami “educazione al consenso” (cioè imparare a dire sì) e serve a martellare nella testa degli scolari che i maschi in quanto maschi devono o castrarsi, o sparire, e comunque pentirsi di essere nati sbagliati.

Ma sono bellissimi anche i millemila corsi contro il bullismo, nella cui definizione entra qualsiasi cosa, dagli atti persecutori a uno scherzo innocente tra amici, di quelli che tante volte aiutano a crescere ma che bisogna imparare a reprimere per sempre. Non si può più scherzare, ragazzi, né prendersi in giro, perché l’occhiuto addetto antibullista vigila e punisce. Magari è quello stesso che pochi anni fa, con l’avallo dell’istituzione, bullizzava i ragazzini non marchiati di verde. Il bullo-antibullismo, sicofante dentro, è un altro capolavoro di questa temperie nata e cresciuta sotto il segno dell’assurdità.

Non dimentichiamoci infatti che era l’istituzione a discriminare gli scolari privi di lasciapassare, legittimando un trattamento differenziato tra chi era vaccinato e chi no. Che era l’istituzione, quindi, a permettere che fossero additati al pubblico ludibrio i pochi che non avevano bruciato il granello di incenso all’imperatore. E che era l’allora ministro dell’istruzione ad affermare con sicumera che l’imposizione del bavaglio permanente a scuola rispondeva, più che a motivi sanitari – e infatti è dimostrato come fosse non solo inutile, ma dannoso, specialmente per i soggetti in crescita (e non ci voleva un genio a capire che tappare naso e bocca per ore con una pezza umida e sporca non è proprio un bagno di salute) – a esigenze “educative”, perché serviva ad abituare i giovani alla “nuova normalità”. Un addestramento su modello zootecnico, insomma.

IL METADONE TECONOLOGICO Ora che, davanti a una catastrofe di proporzioni mai viste, non si può non riconoscere la nocività della esposizione perpetua ai dispositivi digitali, e la dipendenza che generano – del resto sono progettati per quello –, ci si dà ai giochini delle tre carte mascherati dietro la logica del fatto compiuto: siccome la tecnologia non si può fermare, allora occorre educare i ragazzini all’”uso consapevole”, sul presupposto che si debba sempre e comunque cavalcare il progresso. Che è poi come dire, insegniamo l’uso consapevole del veleno, o della droga, o dei superalcolici. Avvelènati, drògati, ubriàcati, ma in modo consapevole, così tu sei spacciato, ma le coscienze degli altri profumate di bucato.

Oppure, l’altra novità: squilli di tromba ovunque per il divieto del telefonino in classe, e però via libera al tablet, cioè al telefonone; no allo smartphone, sì al megasmartphone. E che sia una megapresaingiro ce lo dice, oltre al buon senso minimale, anche l’ultimo prodotto commercializzato negli USA (che stanno sempre un passo avanti rispetto alle colonie): la tavoletta inerte con le fattezze dell’Ipad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico», che va a ruba. Non è uno scherzo.

La verità è che, per frenare la corsa di questo treno impazzito a bordo del quale viaggiano i nostri figli a tutta velocità – che è partito ben prima della pandemia, ma che la pandemia ha accelerato in modo furibondo – ci sia una sola cosa e semplice da fare: restituire alla scuola il suo statuto, il suo senso e la sua dignità. E ai docenti la loro professione, che non è quella dell’animatore, dell’inserviente informatico o dell’assistente psicologico: è altro.

Oltre ad essere il primo luogo di aggregazione al di fuori della famiglia dove si sperimenta la socialità, dove si misura il proprio carattere nel confronto quotidiano con i propri pari e con i maestri, che pari non sono, la scuola possiede in esclusiva un compito fondamentale cui ha rovinosamente abdicato: quello di alfabetizzare e di trasmettere le conoscenze nelle materie disciplinari, che vanno studiate, imparate, capite, mettendo in campo le migliori risorse e gli sforzi necessari per farlo.

Albergano lì dentro, dentro quel sapere durevole e forte che ha resistito alla prova del tempo, i semi che producono frutto nel tragitto lungo della vita, perché non scivolano via alla prima pioggia della moda stagionale, delle idee effimere, del simil-pensiero usa e getta. E la fatica fa parte del gioco e pretendere di toglierla di mezzo per raggiungere la pax scolastica e il “successo” a prescindere è una truffa ai danni degli studenti, perché così li si priva del gusto della conquista e si costruisce per loro un destino gramo da invertebrati, incapaci di affrontare ogni difficoltà, deprivati a priori del senso del sacrificio e dell’attitudine al combattimento, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico come tante docili rotelline dell’ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei mantra ipnotici mandati in filodiffusione.

Solo quelli dotati di una struttura spirituale e culturale robusta saranno in grado di resistere al potere fagocitante del meccanismo, e di padroneggiarlo. Saranno attrezzati per ragionare in autonomia senza restare ostaggio di narrazioni mendaci dettate dall’esterno. Sapranno comprendere dove stanno di casa le menzogne, per liberarsene. Avranno il privilegio di conoscere e assaporare la vita.

La scuola è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere (con licenza di cadere e di rialzarsi, di sbagliare e di correggersi senza essere etichettati da uno stupido algoritmo). Uno spazio, oggi abusivamente occupato, che va restituito ai suoi legittimi abitanti, bonificato dall’artificio, protetto dai predatori. Non serve ammassare altri orpelli sopra un edificio già sfigurato e cadente. Serve una energica operazione di sgombero. Di purificazione.

 

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