ALFREDO PANZINI (prima parte) – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

PRIMA PARTE

panzini

 

Chi desideri avere una viva idea di quella che fu la vita provinciale nello Stato della Chiesa (le stesse maggiori città vi ebbero un’aria di provincia) e della condizione ivi rurale, paesana; colui al quale interessi svelare il trapasso avvenuto con il Regno d’Italia, con la presa di Roma, e con i successivi mutamenti e turbamenti socialisti sino allo scorcio dell’Ottocento, legga le prime opere di Alfredo Panzini (Senigallia 1863 – Roma 1939), innanzi tutto, Il libro dei morti.

Egli partecipò, nel suo piccolo, e assistette alla fase critica della vicenda italiana post-risorgimentale, dalla sua Romagna a Venezia, dove fu collegiale, a Bologna, dove si laureò sotto Carducci, a Milano, dove cominciò la sua carriera di professore, terminata a Roma nel 1929. Egli fu uno dei maggiori artisti della penna, da cui trasse il meglio della formazione classica, ed altresì un verismo sapiente, di lingua parlata, scevro di bozzettismo.

Quando nel 1939 scelse alcune sue opere per il volume Sei romanzi fra due secoli, tralasciò quel primo componimento, forse ritenendolo superato dai tempi e stilisticamente meno valido. Nel 1920, all’epoca d’una ulteriore, postbellica crisi dei costumi, in una nota alla ristampa spiegava: “di quel malessere che confusamente provavo davanti alla civiltà nel 1890, di quell’amore che avevo allora di una vita più sana, più semplice, più umana (cioè più religiosa) non ho a pentirmi nell’anno 1920”.

Cito dal Prologo: “Ai nostri tempi (nel secolo diciannovesimo) vi fu un uomo credente che aveva nome G. Giacomo il quale, non a malincuore, ma lietamente fece la sua scolta in questo breve periodo de la vigilia dei sensi, ed amò la vita e gli piacque di vivere. Egli era cresciuto secondo certe massime semplici, che sono il fondamento dell’Evangelo, perdurando in quelle più di settant’anni; ed inconsciamente le aveva contemperate con le leggi della natura, senza che queste si trovassero in disaccordo con quelle; anzi le une si avvalorarono per virtù de le altre con felice armonia. Ma ciò avvenne perché egli fu un uomo semplice […] e la sua fede era troppo viva per venire a contrasto con la ragione; la quale era molto rimessa e più intenta a le piccole cose de la vita che a speculare di metafisica”.

libroSimile possibilità dovette essere data ampiamente; Giacomo formava un paradigma che resistette ai rivolgimenti epocali. Questi erano sì, cominciati con le bufere napoleoniche, ma dopo di esse era ripreso l’assetto tradizionale, patriarcale, il consorzio del clero, dei nobili, dei padroni, dei fedeli coloni e contadini minuti, con reciproco rispetto, nel pacifico svolgimento dei lavori e dei rapporti. In una confacente aura poetica è descritta tale concretezza quasi statica, sonnolenta, ove, accanto ai salubri umori della terra agricola o silvestre, sotto il vasto cielo provvido di ricchezze, le antichità depositate e consumate dal tempo stavano in una trascuranza non umiliante, ma che spirava il fiore dell’impero romano, e della sovrapposta cristianità castellana.

Giacomo studiò in seminario, vi imparò il latino e la storia antica sui classici romani; la sua istruzione religiosa fu alquanto essenziale. Egli sente la bontà cristiana, più di quanto non condivida il dogma ed i riti. Questa pecca o incongruenza – che, come meglio vedremo, è la stessa dello scrittore – lo lascia, però, convinto osservante. Si ferma a coadiuvare il padre notaio, e questi muore prima che egli abbia terminato gli studi per succedergli. Prenderà una moglie naturalmente votata alla famiglia e si stabilirà sui poderi ereditati.

Nel 1859, il nuovo medico condotto, che ha un figlio adolescente, è un ex cospiratore ateo, ma sincero patriota. Fu esule in Inghilterra, rimpatriò con richiesta di perdono, sfuggendo alla miseria londinese, a una Londra tetra e vanamente libera. Durante il viaggio ha perduto la moglie stremata dagli stenti e dalla malattia  Anch’egli si pasce dei miti delle antiche glorie italiche, e li ricopre di nuova filosofia, a differenza di Giacomo, che legge Tito Livio, rivede le legioni andare al Nord sulla vicina via Flaminia, non disgiunte dal corso iniziato da Cristo e da lui indicato. Tra il medico, il proprietario e il dotto e austero curato del villaggio, si instaurano rapporti di amicizia e scambi di opinioni.

Il romanzo potrebbe dirsi a tesi, per la scelta dei personaggi e le situazioni proposte. Non se ne riceve affatto la sensazione. La verosimiglianza è retta da una struttura proporzionata, è nutrita di convincente scorrevolezza.

Giacomo provvede perché il figlio del dottore possa studiare. Suo padre lo manda in un collegio di Torino dove i ragazzi sono sottoposti a corsi di studi esagerati, come richiesti dal rapido progresso della scienza, che sta cambiando la faccia della terra. “La realtà non è sempre la verità” controbatte il sacerdote. Ecco contrapposte le ragioni dello scientismo, del sorgente positivismo, alle ragioni del buon proprietario di fattoria, che mette il figlio sulle proprie orme, facendolo studiare in seminario. La rivoluzione liberale non gli sembra una continuazione della romanità, ma piuttosto di idee d’Oltralpe e d’Oltre Manica. Il vecchio repubblicano crede che i chiari esempi secolari possano introdursi nell’anima del progresso, e gli sta a cuore che il suo ragazzo sia ben avviato a un successo completo; mentre il prete non ne vede la necessità. Per lui, la democrazia reca un’imposizione di programmi scolastici intollerabile, aumenta le comuni capacità a scapito dei migliori, non distingue le vere virtù, non educa alla nobiltà d’animo, scompensa il naturale equilibrio sociale. Si produce una guida dei cattivi eletti da un ceto mediocre, inetto a ben giudicare.

Sopravviene l’unità d’Italia, poi Roma sua capitale. Giacomo confida in Dio che tutto può. Ma per lui cominciano i dolori. Le imposte aumentano spropositatamente. Basterebbe una grandinata a rovinare il proprietario. La burocrazia imperversa. La tranquillità va scomparendo Avanzano i profittatori che comprano i fondi degli indebitati, e i nuovi proprietari che li accorpano. Aumentano i braccianti, i proletari. Troppi abbandonano la terra per inurbarsi, e sono arruolati negli opifici.

Dovendo recarsi nella novella metropoli per riscuotere un’eredità, Giacomo viene a contatto con la frenesia cittadina, con la freddezza umana, col lusso e la povertà che aspira al benessere dei ricchi, alle loro stesse vanità, ai loro artifici, e poveramente li scimmiotta anche nella moda. Vede estinta la beata frugalità, cui basta un minimo per avere quiete e pacatamente godere le gioie dell’esistenza. Il notaio, con cui pure discute, lo conduce a visitare una fabbrica delle tante, che somigliano a bagni penali. Il notaio spiega che l’agitazione generale si deve a una vera guerra per l’esistenza, per farsi strada, per il comune progresso: un combattimento dovunque, nelle produzioni in concorrenza, nei commerci, nella finanza, nella politica. Qualcosa di cui Giacomo, anni prima non aveva risentito. Ora comincia a pensare di aver sbagliato a non preparare suo figlio a questa lotta, che, a sentire il suo interlocutore, è addirittura il fine della vita. Speculatori e pescecani, avendo mano libera, diffondono l’immoralità dei loro sistemi.

Qui, l’autore conia la “moderna bancocrazia”, protetta dalle leggi. Ne consegue il socialismo, la lotta di classe, scioperi, sollevamenti, violenze. Ormai lavoratori e diseredati concepiscono la libertà e la felicità come i loro nemici i padroni, li invidiano, tendono a un’uguaglianza ignobile. La miseria maggiore è vivere contro natura e benvolere, replica il proprietario di fondo agricolo al notaio, che proclama la sua fiducia nel progresso. Però la fatalità del superfluo, delle perenni e laceranti dispute di idee, del proletariato contro borghesia e capitalisti,  è un fatto compiuto da cui non v’è ritorno.

Ciononostante, dal terremoto qualcosa si salverà, ci saranno sistemazioni e alcune ricostruzioni su altre basi. Ne fa fede il medesimo Panzini nel magnifico I giorni del sole e del grano (1929): racconto del suo acquisto d’una proprietà agricola, delle migliorie, dei lavori campestri, della vicinanza con i contadini, delle giornate trascorse in villa. Anche il figlio di Giacomo resterà nella casa di famiglia, attendendo per il meglio ai suoi averi.

Finalmente a casa, Giacomo incontra il figlio del medico, ben introdotto nella modernità. Disquisisce da libero pensatore col suo vecchio benefattore, tentando di persuaderlo dell’imperativa legge della selezione naturale per la civiltà progredita: lo scopo della prosperità, dell’affrancamento dal bisogno, giustificherebbe i mezzi, pure miranti alla successiva giustizia. Bontà e sacrificio devono cedere il passo al bene comune. Il positivismo esclude Dio legislatore, anzi lo considera morto. Il vecchio scuote il capo. Persino la fede del Risorgimento è crollata sotto i colpi del naturalismo, del materialismo, delle filosofie in libertà. Si apre una nuova età di turbamento e contraddizione, per emendar gli errori del passato, per l’utopia d’una felicità sociale futura senza Dio.

Favoleggiando, l’autore immagina che, nell’intatto cimiterino di campagna, guardato da una fila di casti cipressi, la morte conceda a Giacomo trapassato una proroga del suo annullamento, giacché Dio non esiste ed egli non è salito in paradiso. Lo spirito del fedele alla pietà dei padri, può recarsi al focolare domestico e rivelare al figlio la verità. Intende svellere dall’anima di lui gli intralci di fede, onestà e sentimenti caritatevoli, affinché compia la sua conquista nel mondo, mettendo da parte le cose celestiali. Ma, giunto a visitare la famigliola sopravvivente, si persuade che il bene di cui godono i suoi componenti sia il maggiore possibile, ed evita di  scombinarlo.

Nel 1895 Panzini dà alle stampe un racconto lungo, La cagna nera, anche questo ripreso nel 1920. Quanta abilità, quanta arguzia e cuore rivestono il nuovo rinforzo di pessimismo! Un figlio di nobili nella patrizia dimora aprica dal grande roseto, caro alla madre, signora riservata, vive oziosamente in città frequentando il bel mondo. Il genitore gioviale, dedito ai conviti, dissipa le sostanze e resta ucciso facendo da paciere in una rissa di terrazzani. Al giovane, vana speranza della vedova, non resta che ripiegare sull’ufficio di professore in una cittadina del Napoletano. Il mite insegnante è indotto ad adempiere il suo compito, e arriva a considerarlo una missione; applica a se stesso l’integrità esemplare. Ma, un giorno, raccoglie una povera cagna raminga, che gli si attacca pateticamente. Da quel momento diventerà lo zimbello del paese. Egli si scopre debole e vile. I piccoli allievi, cui aveva inculcato gli alti modelli della mitologia e delle lettere, danno fuoco all’animale per sadico gioco. I grandi spiriti greco-romani sbiadiscono ai suoi occhi. In uno sfogo al caffè, accusa l’odio e il deplorevole disprezzo verso i deboli e i disgraziati: un cattivo istinto assecondato, che annichilisce la dignità umana. La cattiveria umana è incorreggibile e fa la storia.

Essendosi un po’ ripreso, resta un fantasioso, si rammarica della sua condotta trascorsa, dei godimenti perduti. Dovrebbe lasciare gli scrupoli, per rimettersi in sesto. È scettico sulla ricompensa divina e dell’aldilà. Donde, posiamo saltare alla fine, quando a tu per tu con la cagna malridotta, che sembra scrutare la sua coscienza, sebbene entrambi si vogliano bene, la scaraventa in mare perché muoia, e prova una sorta di sollievo.

Siamo al punto debole. La mancanza della fede, che purtroppo incombe sul narratore. Anche La cagna nera non figura nei Sei romanzi fra due secoli. Probabilmente egli rinnegò quella sfiducia sull’uomo e religiosa, d’altronde superata altrove.

Introducendo Santippe (1913) Panzini osserva che “se […] molte cose che comunemente si credono serie, faranno sorridere; e molte cose ritenute ridicole indurranno ad alcuna meditazione, il piccolo libro crederà non del tutto inutile la sua venuta nel mondo. Anzi crederà di essere anche lui venuto al mondo per amare e servire Iddio”. Ma va preso con le molle, quando descrivendo la splendida giovinezza dell’Ellade, vede, con Roma, succedere un cristianesimo oscuro sulla terra, poi mitigato senza ripresa di gioventù; ed ora le genti erano ingolfate in un progresso meccanico e artificiale. Egli omette che la salvezza cattolica trovò anche quaggiù meriti e glorie.

Poi, la Grecia segue Protagora, che nega l’esistenza di una verità: la verità è l’utile. I governanti sono corrotti, e Socrate, moralista, viene ucciso col pretesto di aver offeso le deità e le leggi, entrambe false. Con colore di lepidezze, compaiono i discepoli del maestro e gli accusatori, appaiono le buone ragioni di Santippe, “la moglie più bisbetica e riottosa di quante furono, sono e saranno” secondo il detto di Senofonte. Socrate la sopporta filosoficamente. Ma la sua placida sicurezza intellettuale, troppo astratta dai bisogni e dal dovere di provvedere ai poveri di spirito suoi familiari, lo rende colpevole e, in fondo, duro di cuore.

Siamo allo scoppio della guerra immane, al travaglio della fedeltà all’alleanza con gli Imperi centrali da spezzare o da rispettare, della neutralità da mantenere, dell’entrata nel conflitto a fianco delle democrazie per l’acquisto delle Terre irredente. E i dissidi interni si complicano, mentre gli equilibri sociali mutano ancora.

La Madonna di mamà (1916). Un adolescente orfano di padre, al mare presso una cittadina sull’adriatico vede ragazzine angelicate. È preso a ben volere da un conte in vacanza, a lui incognito, a lui che nutre sentimenti rivoluzionari. Dopo alcune stagioni, il ragazzo, che se la passa male con la mamma lavoratrice e devota, quantunque di idee piuttosto liberali, riesce con sacrifici a prendere un titolo di studio. Allora, il signore lo veste, lo aiuta a diventare precettore d’una nobile famiglia di città, alla quale lo ha raccomandato. Egli istruisce il bambino della padrona marchesa, viziato e precoce, di prepotente e maliziosa intelligenza. Il marchese, misantropo, studioso e pensatore, vive assai appartato in una torre del palazzo. E, nota esotica, una leggiadra inglesina, pignola e fanatica, che pure insegna al piccolo e lo influenza, malgrado tutto ha un attraente rilievo nell’ambiente familiare.

Nel salotto della marchesa, assai esterofilo, dove l’educazione annacqua ogni vino con l’ambiguità e la vana indifferenza, il senatore superbo contesta al pedagogo che le prische gesta dei romani sono invenzioni favolose, smentite dalla scienza storica. Il bambolo educando gongola, ma il giovanotto ribatte che, comunque sia, quelle favole ressero la grandezza di Roma.

L’istitutore è ammesso a salire dal marchese; il quale, da buon nobile, ricerca il vero e celebra la cavalleria. “Quell’uomo era troppo sano; e perciò era un infermo tra gli altri uomini”. Frattanto, la madre del giovane muore, egli ne conserva il ritratto della Vergine e la colloca nella propria stanza. Primi compromessi per ingraziarsi l’esaminatore del suo discepolo, che riuscirà promosso. All’avvento della guerra, la famiglia si trasferisce in villa, grande villa patrizia, fuori del giro mondano, d’altronde scemato, e delle sopraggiunte molestie. L’annoiata marchesa si è invaghita del ragazzo, che infine accetta la seduzione e gusta l’orgoglio della conquista. Il conte suo protettore, sta sul letto di morte. Recatosi a trovarlo, il nobile, abbandonato dalla moglie e dai figli, gli dice l’amarezza e il transito dell’esistenza. La marchesa, da donna e madre, non intende il tragico della vita, che è bella. Al contrario, egli risente la propria colpa. Il marchese torna in città, richiamato dalle responsabilità morali della guerra, che si sospetta per l’Italia e scuote gli animi, agita il popolo. Un colpo apoplettico stronca il galantuomo nella sua incertezza.

L’inglesina è tornata da un soggiorno in patria, va ad occupare un posto all’università. Il professorino, segretamente innamorato, non l’ha mai dimenticata. Intanto i tumulti, gli arruolamenti, le sfilate, i comizi, lo coinvolgono. Complice una sommossa di piazza, i due giovani, portati dall’entusiasmo di lei nel vortice del disordine, sono poi costretti a riparare in un alberghetto, dove si dichiarano amore. Lo spirito della guerra è orami diventato imperativo; egli si arruola consegnando all’innamorata, pur non cattolica, la Madonna di mammà.

Queste trame non esprimono l’arte di Panzini, che solo uno spazio per brani antologici potrebbe regalare.

Stiamo per passare al dopoguerra, con le sue disillusioni, le sue ingrate dimenticanze, le sue canagliate. Mentre la nazione è in armi, un ispettore scolastico in missione nel Mezzogiorno sta al cento de Il mondo è rotondo (1921). Ancora una volta, le pennellate che dipingono le situazioni e animano le scene, sono sapientemente intrise di quell’arguzia, di quella lieve canzonatura che opera il felice distacco, senza il quale si resta invischiati, e addio capolavori.

Concluso il soggiorno nel piccolo centro meridionale, ben tratteggiato nei suoi caratteri, durante il viaggio di ritorno: un’involontaria esplorazione dei vicoli napoletani, che compone pagine documentarie, insieme al treno scalcinato, frequentato da alcuni ufficiali poco dignitosi. E gli vien fatto di pensare che “la libertà è una medicina infallibile ma stravagante: non fa bene se non a chi sta bene di salute”. Seguono alcuni episodi a grado del suo trasferimento: mercato di conigli con bifolchi e villane volgari, ma vivaci, che lo fanno sentire meschino; visita a una chiesa settecentesca sinistrata da un terremoto, adorna come un salone da ballo, dove sono andati scoperti degli affreschi trecenteschi di raro effetto spirituale, un grande volto della Madonna e un Cristo giovane, giudice severo, ambedue vie universali dell’eternità; una marcia di soldati muti e astanti muti, raggiunti dagli improperi del popolino; disciplina silente dei reparti di giovanissimi, compenetrati del comportamento marziale, diretti al fronte e consapevoli.

Entrando in casa in città, un intruso si nasconde, essendoci lo zampino della domestica. Vengono a galla altre sue malefatte, ed egli la licenzia. Tuttavia la donna sosta nell’abitazione. È incinta. Un bel tomo, segretario della sua facoltà universitaria, viene a chiedere una firma che lo solleverà dal servizio militare. Egli oppone un rifiuto. Il bel ragazzo argomenta, sprezzante, che un esemplare della razza umana del suo stampo non deve andare a morire. Ed egli cede alla tesi vitalistica, che nega simile sacrificio.

Una brava donna e la sua bimba adottiva accudiscono il professore. Due bambine come lei, pronte per la prima comunione, “avrebbero voluto morire subito dopo per andare in paradiso a raggiungere il babbo” caduto per la patria. Allora il professore ricorda le parole del prestantissimo giovanotto, che non si poteva permettere il lusso di morire per l’Italia. “Ah, la storia d’Italia è fatta dagli innocenti!”

Il rito delle comunioni, la ricomparsa, nel pensiero, del maestoso Cristo giudicante, non distolgono il protagonista dal suo tornante paganesimo. La brutta serva macilenta ha tentato l’aborto. Egli cerca di rimettere ordine convocando il padre del nascituro, un mezzo idiota; verso di essi non sente fiducia né pietà. I due si rimettono a lui, purché provveda per loro. Egli provvede, ma non resiste a rimanere dove avverrà il parto, si allontana. E, isolato, progetta di tenere il bambino con sé, di educarlo, meditando il declino della vecchiaia, e l’ingratitudine dei figli… Quando rientra, trova il neonato morente. La città crede che lui sia il padre. Il segretario, che ha salvato dal fuoco della trincea, ha sparso quella voce maligna. Se l’era legata al dito per aver ricevuto il rimprovero di condursi da vile.

Cala il sipario sull’ultimo respiro della piccola vita estinta a causa di vuote mammelle e sciagurata denutrizione.

 

fine della prima parte

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