di Piero Nicola
Per quanti possano fare un vissuto confronto tra il mondo anteriore alla presidenza di Kennedy e quello successivo e, così, tra il prima del Sessantotto e il dopo, tra il prima del divorzio e il dopo, avendo la giusta stima della verità e il riferimento del buon vivere ad essa conforme, i bilanci del prima e del dopo, delle perdite e degli eventuali acquisti, i salti nel peggio risulteranno alti e gravi. Gli altri venuti dopo, caso mai considerassero il mondo sempre più o meno mondo, come Cristo lo rappresentò, e si contentassero del presente, non sfuggiranno tuttavia dalla perdita e alla tendenza che si prospetta verso il basso. Se, per il rimedio, giova osservare gli sbalzi in giù (divorzio, aborto, droga, pornografia, relativismo, nichilismo, ecc. quali nel passato non furono o furono assai minori), giova bensì la chiarezza sulla genesi dei mali. A tal fine avanzo nuovamente l’America denudata, effettiva, che, vincitrice e politicamente egemone, ha esercitato un’influenza universale.
Emilio Cecchi nel 1940 diede alle stampe America Amara, di cui comparve, per i tipi di Sansoni, una ristampa ancora nel 1943-XXI. Il letterato fiorentino era fornito, allora, di un curriculum di portata vasta e sostanziosa.
Giovane amico di Papini, egli frequentò l’ambiente del Leonardo, ove esordì con un articolo. Scrisse sul Regno. Fu critico letterario della Tribuna. Collaborò alla Voce. Compose saggi sulla storia della letteratura inglese e su scrittori Americani. Si occupò di filosofia recensendo opere di Papini e di Croce. Nonostante alcune discordanze col filosofo napoletano, anche riguardo all’arte, nel 1924 il Cecchi sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali italiani antifascisti. Frattanto, mobilitato, era stato corrispondente di guerra; poi al fronte, capitano di fanteria. Nel 1919 era divenuto fondatore de La ronda, con R. Bacchelli, A. Baldini, V. Cardarelli e altri., secondo un “ritorno all’ordine” della classicità. Alla sua seria applicazione di critico, si dovevano già diverse monografie sulle arti figurative di varie epoche. Dal 1920, erano comparsi i suoi elzeviri e racconti arguti, elegantemente ironici, accanto alla collaborazione di giornalista. Fu produttore cinematografico alla Cines, soggettista, sceneggiatore. Viaggiò in Grecia, in Inghilterra e negli Stati Uniti (dove soggiornò negli anni 1930-31 e 1937-38) lavorando per conto del Corriere della sera o di altri giornali e riviste. Nel 1936 ricevette il Premio Mussolini per la letteratura.
Nel 1942 avrebbe ribadito, con la prefazione all’Americana curata da Vittorini, la sua denuncia della letteratura impegnata e della democrazia statunitensi.
Scenderò dalla cima della spiritualità o religiosità: “La libertà di vivere” giudica l’autore, “sembra cresciuta nel continuo rilassarsi del codice puritano”. “Caduto, in massima, il pudore sociale, e non essendo d’altronde subentrata una sincera capacità di godere, si ha una sorta di gelido e sfrenato paganesimo, che si è messo sotto i piedi tutti i divieti, interni ed esterni; un paganesimo di mera violenza, senza respiro di felicità”.
“Gli Americani, e le Americane, sono conformisti. Ma sono conformisti all’Americana. Vale a dire che, sotto al loro conformismo, l’America esplode da tutte le parti”. Vige “l’entusiastico vangelo dell’arrivismo, del successo e del benessere materiale”.
“La strapotenza d’una natura colossale, che è appena scalfita dalla tumultuosa azione degli Americani, ci spiega l’atteggiamento di questi, niente contemplativo, ma pratico, utilitario, brutale. Anche nei temperamenti più colti è difficile che il senso della natura vada oltre una curiosità turistica, da gente in vacanza”.
Tralasciando i canoni dell’estetica: “come negare che i grattacieli sono belli? Calando sulle strade come trasparenti ombre di ghiacciai, le loro ombre vaghe e gigantesche, insieme a un che di gelido diffondono sul tumulto cittadino quel riverente silenzio che alita intorno alle cattedrali (…) Ma la grande poesia dei grattacieli è poesia notturna; che sembrerebbe confermare una loro natura d’ombra e sortilegio”. Tanto è vero che la loro popolazione abbiente trasferisce la sua residenza nelle villette oltre la città.
“Dalle sue primissime origini, l’America è il più gigantesco, perfezionato ed elastico fin de non recevoir [eccezione d’inammissibilità]. È il caravanserraglio della ‘volontà di credere’; e credere quello che fa comodo, per evitarsi il disturbo di pensare, di mutare, d’accettare il confronto col vero, d’entrare in un processo dialettico con la realtà. Applicate, nei riguardi politici, all’Italia, alla guerra etiopica, alla Spagna”.
“Un filosofo vi parlerà in termini di fisica presocratica; e scuoterà la testa se nel vostro discorso è un accenno alla Critica del giudizio o alla sintesi a priori (…) Ha la sua ‘idea generale’, tutta per sé; è seppellito in quella: niente da fare.
“Finisce che, da un certo angolo visivo, quest’America così guizzante, ginnastica, dinamica, automobilistica, appare immersa in una insormontabile catalessi, in una profonda narcosi. Dice di non badare che ai fatti; forse appunto perché è la più aliena a riceverli, la più impermeabile e invulnerabile”.
“Tutta America è una formazione provvisoria e carovanesca. Ma le comunità negre, un po’ a margine, od anche (come a Washington) nel cuore stesso delle città, rappresentano il più inquieto e formicolante vivaio di quella selvaggeria nella quale la vita Americana ancora attuffa le radici profonde”.
“Veggono la lotta sociale (…) come manovra e competizione di gruppi; su tutto investigano, fuor che sulla portata morale delle idee retrostanti. La passione morale e teologica la sfogano contro i grandi avversari lontani; intorno ai quali, la loro informazione è tanto gratuita e cervellotica quanto perentoria”.
“In occasioni più famigliari, dopo due o tre cocktails [le signore], sedendo al lume ieratico di quattro candele, consumano una razione di pochi piselli e un gelato, e bruciano una dopo l’altra venti sigarette. Tali dovevano essere le refezioni di Morella, Ligeia ed altre eroine di Poe. E vi aspettereste, almeno, che discorressero così liricamente come mangiano. Che le idee e le parole corrispondessero a quelle diete stregate, alla rigida stranezza dei visi, alla teatralità e al melodramma dei paramenti. Neanche per sogno. Salvo immancabili eccezioni, diranno cose comunissime e del più insipido borghesismo. Sembrano Morella, Ligeia, e simili belve metafisiche. Ma invece di aprir bocca e parlare di misteriose predestinazioni e di platonismo astrale, ripetono qualche frase stereotipa sulla democrazia e sul controllo delle nascite, e ridono fino alle lacrime d’una buffonata o un’indiscrezione nel New Yorker o in Life. Non già che dentro a loro non sia altro che stoppa. Chi lo potrebbe credere? Ma fra la vita e le parole degli Americani, fra la loro anima e la pelle, corre una distanza, una separazione geologica. E il distacco, usualmente, si riflette con qualcosa d’isterico e caricaturale”.
“Davanti a un Presepio, non mi capitò che chiedessero, come dicono sia successo ad Harward, se quello nella mangiatoia era un bambino o una bambina. Ma una ragazza un giorno m’interruppe, mentre illustravo un’Annunciazione: ‘Quale dei due è la Vergine e qual è l’Angiolo?’ Eppure l’Angiolo spiegava le sue ali di farfalla (…) Provai un senso estatico. Alla fine ero nel deserto. E su cotesta tabula rasa forse sorgerebbero, inimmaginabili, i miti di domani”.
“E quando noi facciamo qualche cosaccia, non pretendiamo si costituisca una speciale autorità che la convalidi. Facciamo, a dispetto dei santi. Ma la mentalità puritana, anche nel torbido e guasto, esige il consenso superiore; sia pure da un padre Riker [fondatore d’una setta cristiana] in librettini da 25 cents, che si tirano per ogni verso come trippa da gatti. Noi potremo, magari, trasgredire la legge. Ma questi, a sfrenare l’istinto, corrompono e infettano la legge; si confezionano leggi da burla. L’infantilità e la cafoneria coprono, così, un fondo sociale e psicologico tanto più caotico e desolato”.
“A fior di terra, in America, si raccolgono miti, intatti, allo stato naturale. Si trova gente, in America, che vive in un mito, assumendolo letteralmente, senza facoltà di dissociarlo; anzi avendone addirittura celato tutto il proprio orizzonte morale (…) L’Americano sta dentro il suo mito senza saperselo. E dunque, più perdutamente. Ciò (…) proviene, anzitutto, da una certa primitività e rozzezza psicologica e culturale della razza; ch’è nata dal miscuglio di vecchie stirpi, ma s’è rinverginata e incrudita nell’azione pioniera e colonizzatrice, nell’urto con la natura colossale. E, in molta parte proviene dal puritanismo, che isola gli spiriti, e lascia che ciascuno si sfreni nel proprio rovello, nel proprio delirio; purché sien preservate certe esteriori conformità a fine collettivo. Le sette, spesso inqualificabili, i gabinetti di ‘scienza spiritualista’, forniscono varie maniere di sfogo all’inquietudine puritana (…) Si tratta, in termini poveri, d’una sorta di prostituzione sacra; attraverso la quale la gente cerca un particolare eros teologico, un particolare connubio con l’infinito. Gente di dozzina, s’intende. E faranno dell’antipapismo e dell’anticattolicesimo, (…) eppoi affideranno la propria mediazione mistica a qualche Pizia da sottoscala, o a un ex-dentista. Ma temperamenti fantastici e impetuosi si creano altrimenti i propri miti, i propri riti, la propria religione. Temperamenti siffatti, in America, si trovano più facilmente fra le donne; e l’America, s’è gia detto, è in molti riguardi un matriarcato”.
“Ho detto che quei miti Americani vivono in una sostanza immediata, non trasposta. Che non esclude molta varietà di gradi (…) Talvolta, sono appena stati d’entusiasmo, d’euforia naturale; fra l’eugenismo e l’eccitazione sportiva. In Wilderness di Rockwell Kent (…) il richiamo della natura, la fede nel suo potere purificante, son sentiti con qualche cosa d’allucinato (…) La violenza del mito non significa, d’altra parte, che nel mito stesso l’animo sia appagato. La coscienza Americana è un fermento d’energie barbare, paniche; dentro la vecchia educazione cristiana. Alle radici del mito è l’insoddisfazione morale, sociale, religiosa: dolore, insomma; bisogno d’evasione”.
La sottostante etica civile, laggiù, si trova conseguente. Nemmeno noi eravamo molto praticanti e osservanti, ma la norma cattolica restava netta, la stessa etica irreligiosa ne era impregnata, connessa a costumi vagliati e maturati dai secoli, e non si osava infrangerla né tanto né poco.
“Le dinastie dei Vanderbilt, dei Gould, dei Rockefeller, dei Carnegie, dei Morgan, si formarono e conquistarono il potere (…) Furono esse che misero in valore le sterminate risorse naturali Americane, che costruirono le grandi ferrovie (…) Avendo reso al paese tutti questi benefici apprezzabili, sarebbe troppo pretendere che poi non l’avessero anche derubato (…) A che meravigliarsi, uno si chiede, delle contraddizioni, dei primitivismi, dei larvati o visibili abusi che infestano pur oggi il sistema politico Americano? È un sistema creato da uomini siffatti, per i quali la potenza politica non fu che strumento e corollario della personale potenza finanziaria”.
Egli considera i “baroni” dell’economia e finanza statunitense nel loro dispotismo, che reclama le libertà costituzionali, avverso la demagogia di Roosevelt e dei suoi ministri nel voler affermare il New Deal, la tutela dei diritti degli sfruttati, attuata dallo Stato, e la protezione degli azionisti minuti, proprietari illusori ed illusi, detentori di una sorta di moneta aleatoria, alla mercé dei capitalisti. Tuttavia Emilio Cecchi concede a questi ultimi il merito d’aver prodotto una ricchezza di enormi proporzioni. Merito che scompare nella cinica e dubbia logica del profitto, del mercato: fabbrica di disoccupati (14 milioni nel 1937) e di indigenti, e scompare nella menzogna delle contrapposizioni ad alto livello, il cui effetto è quello di una semplice messinscena.
Nello stato maggiore del Presidente gli “israeliti hanno funzione predominante e diretta”. E si sa che, fra di loro, gli ebrei sono solidali. Come avrebbero osteggiato i loro banchieri e industriali?
“Il Berle è pienamente consapevole di quanto al capitalismo anonimo debba l’America negli ultimi cento anni. Ma anche d’un’altra cosa è sicuro: che, in America, nulla ormai corrisponde ad un senso unitario e gerarchico della realtà sociale e politica, come quello che garantì per tanti secoli il funzionamento della civiltà romana e della civiltà feudale. All’atomismo e all’irresponsabilità economica fanno completo riscontro l’atomismo e la irresponsabilità religiosa e morale”.
“Sentirsi sicuri, mentalmente e materialmente: questo il grande quesito, l’unico e vero ideale Americano (…) I programmi del New Deal, continuamente smentiti dalla realtà e continuamente riverniciati (…) L’automobile, che mette alla portata di tutti la fuga fisica, simbolica di quell’altra fuga, morale: (…) correre verso un’interna, nebbiosa frontiera, al di là della quale non si senta più la contraddizione con se stessi e col mondo (…) Tutto, in America, è inteso a fornire una illusione di sicurezza, di solidità, d’indipendenza (…) che a qualunque cosa si raccomandano, qualunque cosa si affidano, fuor che ad un organico principio di vita intellettuale e morale (…) È un paese di simpatici struzzi: tutti a coda ritta, e con la testa ficcata in un macchione. Ciò è vero (…) delle enormi maggioranze, anonime, incolte, irresponsabili, senza pretese; com’è vero delle minoranze responsabili, presuntuose e dottrinarie.
“Per il tramite dell’ambasciatore russo, gli intellettuali Americani chiedono a Stalin di rinviare l’ultimo processo, del ‘blocco trotzkysta di destra’ (marzo 1938); e dar tempo alla loro rappresentanza di assistervi (…) E Stalin, com’è naturale, ride loro in faccia, accelera il dibattito, fa fucilare. Gli intellettuali incassano gentilmente il rifiuto. Non occorre dire che la loro fede in Stalin rimane inconcussa”.
“E gli Americani, e anche più le Americane, si muovono troppo, sono troppo stimolati dai riflessi muscolari, troppo pizzicati dai nervi, per poter avere qualsiasi fiducia che stiano proprio bene. Tali opinioni, lo so, parranno eccessive a chi giudica la vita Americana dal cinematografo, o dalla pubblicità delle riviste. In cilindratessime tricromie, eccovi il giovanotto e la ragazza, in costume da bagno, nella piscina d’un piroscafo per Bermuda. O il giovanotto al volante d’un’automobile ultimo tipo; e la ragazza che accorre giuliva a rinnovarla (…) Sembrano idilli e sono duelli. Gli avversari si salutano (…) in vista alle spiagge di Bermuda pavesata. La dignitosa zitella, protagonista di consimili idilli abortiti, sfogliando tra un piatto e l’altro le pagine, sa che cosa pensare di coteste amorose apoteosi della borghesia Americana. Con il suo lavoro mal retribuito, con la sua malinconica rinuncia (…) è lei che largamente fornisce il becchime a quel pollaio di vanità sterile e presuntuosa ch’è il borghesume degli stati Uniti”. “Non ci si meraviglia che l’America sia il paese che, proporzionalmente, dà il maggior numero di pazzi”.
“Il medio cervello Americano”: “ligio all’autorità, quanto incurioso e incapace ad investigare, non dirò la fondatezza, ma la mera verosimiglianza. Avido di documenti; ma prontissimo ad attribuire a qualsiasi cosa una irrefragabile qualità documentaria. Timido e sfrenato. Passivo e, al tempo stesso, vulcanico… Si può esser sicuri che gli arbitri più nefandi, come le alzate di fantasia più grottesche (…) ebbero sempre origine da un ‘documento’, da una pretesa testimonianza, da un ipse dixit”.
“Il famoso, maledetto imperativo del service Americano: di ciò ch’è giovevole, encomiabile e morale, trasportato in funzione d’assenza, d’inerzia, d’astensione, o addirittura di difesa dell’inutile, del perituro e dimenticabile; mentre nell’igiene e nella salute del mondo ha sì gran parte, forse la parte suprema, il trascurare, il distruggere, semplificare e dimenticare (…) Si immortala l’effimero, dimenticandoci dell’immortale”.
I grandi autori nazionali sono poco letti, fanno scarsa presa sul pubblico. Salvo che sia, come “nel caso di Hemingway”, “influenzato da motivi di bassa polemica politica”. In rapporto al numero degli abitanti, Palazzeschi e Bacchelli vendevano di più.
“Con tutto il suo slancio apparente e l’apparente mania di darsi d’attorno e voler sapere, l’Americano è un miracolo d’astensione. Tentacoli invisibili e sensibilissimi l’avvertono e tengono in guardia, contro ogni cosa che possa lontanamente disturbarlo”.
“Futilità di moltissima critica Americana, presente e passata”.
“Di regola, poi, l’Americano non prova la minima vergogna d’ignorare. Sa ignorare, se occorre, a faccia tosta”.
Faulkner: “tremenda testimonianza sulla vita morale Americana”. Gli altri scrittori del suo livello: “quello che hanno da dire è quasi sempre qualcosa di triste, angoscioso; perché si vede che questo, in America, è il tono dell’epoca, il crisma della generazione”.
Willa Cather, autrice cattolica, in Death comes for the Archbishop (1927): “In quella sorta di nosocomio o penitenziario in rivolta ch’è più o meno l’odierna narrativa Americana, è questo un angelo toccato da una luce, nella sua malinconia, fiduciosa e inalterabile; mutano e si esasperano le mode e le manie letterarie, ma da una parte si vede sempre brillare questa casta fiammella”.
Ma oggi su di lei hanno gettata l’ombra dell’omosessualità.
Nel 1926, “prima di morire, D.H. Lawrence, a proposito di certe confessioni e documenti di vita d’America, scrisse che gli parevano più terribili dell’Edipo e della Medea (…) Cose che egli aveva ripetute e illustrate in cento altre occasioni, e se ne intendeva”.
La buona letteratura viene sacrificata al commercio di libri scadenti, ben lanciati.
Paghe basse di operai, commesse, impiegati. Lustrascarpe, fattorini, strilloni che mascherano il loro effettivo accattonaggio.
“Gli Americani hanno resistenza di temperamento scarsissima, ed un cieco terrore di tutto quanto minacci il loro benessere economico”.
Crisi del cinema hollywoodiano nel 1938, chiusura di molte sale. Nel pubblico è insito un bisogno di cambiamento. Scarso apprezzamento per i bravi artisti e per l’arte apprezzata in Europa. “All’Europa Hollywood sottrasse una quantità di direttori artistici, con l’effetto d’imbastardirli rapidamente”.
Legge per prevenire il linciaggio dei negri: “Sta di fatto che, nel discorso di Capodanno [tenuto dal Presidente], mancò il minimo richiamo al progetto contro il linciaggio ed annesse questioni”. “E, mentre alla chiusura del primo semestre 1938 e relativa sessione della 75a legislatura, la gente ostentava di rallegrarsi che, dopo tutto, sei buoni mesi erano passati senza linciaggi: ecco, a tre giorni uno dall’altro (…) due linciaggi completissimi”.
Situazione caotica della marina mercantile, attestata da un rapporto delle Commissioni del Commercio e del Labor. Essa dipendeva anzitutto dalla “sfrenata indisciplina delle ciurme”. “Autorità degli ufficiali ridotta a zero”. “Insubordinazione, scioperi” ecc.
“Noia e mortificazione dell’uniformità provinciale. Una distanza di mille o duemila chilometri, in America, di solito lascia le cose come sono”.
Charleston. “Sia in città, anche per le pigioni altissime, sia nelle circostanti campagne, le condizioni del bracciantato negro sono tristi (…) Denaro, il bracciante agricolo, può dirsi che non ne vede, essendo pagato in natura, con una partecipazione sul raccolto. Ma se, con la pratica ch’essi hanno del mercato, il latifondista e il ricco fittavolo non riescono a collocare vantaggiosamente i propri prodotti, si domanda che vendita potrà fare lo sharecropper: lo scalcagnato bracciante in partecipazione. Nella migliore delle ipotesi, incettatori e bagarini se lo strozzeranno”.
Università di Berkeley (California), dove egli insegnò.
“Curiosi studenti, sempre rosei e rasati; ma con le giacche di cuoio e i famosi pantaloni di velluto impiastricciati di tinte e sbaffati d’inchiostro”. “Rozzi, ispidi, ma docili, e non di rado sgobboncelli. Scarso senso critico e nessuna curiosità indipendente. Nell’appoggiarsi alle cose studiate, l’assolutezza di chi comperi un cavatappi ultimo modello, e farebbe i più inveleniti reclami alla ditta se poi il tappo non esce”. “Tutti [insegnanti e discepoli] sono il prodotto d’un’unica civiltà: essenzialmente fisica e meccanica, e quasi non ancor nata alla speculazione morale e alle cose dell’arte”.
Le studentesse: “eleganza anonima, impersonale”, abbigliamento stereotipato. “E anche i corpi, slanciati, elastici, di giusta misura (…) avevano un che d’astratto e di freddo”. “Pareva che nessuno s’interessasse ai loro studi, e che fossero senza famiglia”. “In molte università Americane le ragazze sono circa due terzi degli iscritti (…) significa che in questo, come in altri aspetti, è un matriarcato”.
“Troppo superbiosi per adorare la divinità [sic] della Madonna, essi [i maschi] corrono continuamente il pericolo di divinizzare (o qualcosa di simile) la donna che hanno per casa (…) Non per nulla in America sono vere e proprie sibille e papesse, che celebrano pubblici culti, frequentati da migliaia di divoti”.
“Oggi come ieri. Otto o dieci anni di crisi seminano un paese di disastri, ma non cambiano la fisionomia etica di cento milioni d’anime. Ci vuol altro”.
“A voler scrivere della Bowery [quartiere malfamato di Nuova York] sulla scorta dei rapporti polizieschi, e dei libri che ne documentano la storia del periodo più convulsionario, nella seconda metà del secolo scorso, ci sarebbe materia per parecchi capitoli; e potrebbero non mancare d’utilità. Non fosse che ad illustrare, su buona testimonianza Americana, attraverso quali eccessi di miseria, di crimine e d’anarchia sia venuto creandosi l’organismo della metropoli; e quanto anche oggi, in tale organismo, rifletta e continui coteste tradizioni. Le cruente battaglie, durate ciascuna giorni e giorni, tra ‘Conigli morti’, ‘Ragazzi della Bowery’ ed altre associazioni a delinquere (…) che preannunciano, in forma tumultuaria e balisticamente troppo imperfetta, le matematiche e micidiali strategie dei gangsters ai giorni della Proibizione. I tuguri e sotterranei senza mobilio, senza fuoco e senza infissi, stipati di popolazioni fameliche e seminude. La prostituzione infantile (…) Su queste incredibili abiezioni, su queste luride promiscuità, su queste violenze e nefandezze, gli inizi della carriera di Barnum (…) le campagne oratorie dei politici e i trucchi dei grandi agenti elettorali, hanno un risalto pallidamente comico e pittoresco. Ma gli asili notturni, a dieci centesimi esistono ancora”.
“Abolita la Proibizione (1934), era stato in America e fuori, un respiro di sollievo: ‘Questa è la fine dei gangsters. È proprio vero che chi diceva così avrebbe fatto meglio a star zitto. Come se, negli anni della Proibizione, non si rapissero individui a dozzine, e i treni non fossero svaligiati, e assaltate le banche. Il rapporto fra gangsters e Proibizione era stato, in gran parte, accidentale. E venne artificialmente gonfiato, come argomento polemico, appunto dagli antiproibizionisti”.
“Ci s’era messo di mezzo il cinematografo (…) Dal punto di vista morale (importantissimo, in qualità di spettacolo per il gran pubblico), cotesto contrabbando era ancora la cosa più presentabile, fra le svariate attività professionali dei gangsters (…) E il cinematografo ci si buttò; al punto che la gente credette che i gangsters quasi non esistessero prima della Proibizione, e soprattutto, che insieme alla Proibizione sarebbero spariti. Le cose stavano diversamente; come sa chi abbia soltanto un’infarinatura di storia dell’elettoralismo Americano nelle sue connessioni con il racketeering, e insomma: con la delinquenza organizzata”.
Citati alcuni “volumi sull’argomento”: “Pudore e senso di pietà sono inseparabili da una materia così atroce e dolente (…) Una cosa soprattutto colpisce il lettore europeo: la vastità delle proporzioni, e il carattere organico del delitto”.
Un autore, chiedendosi “quali sieno le insormontabili difficoltà della polizia e della giustizia, contro la dannata delinquenza Americana (…) risponde: ‘C’è una quantità di ragioni laterali. La scettica rilassatezza di coloro che credono che il problema non li riguarda. Lo snobismo di un’altra parte del pubblico, che considera il gangster in una sorta di luce eroica. C’è la banda degli avvocati, che (…) combinano gli stratagemmi per ovviare alla cattura’”. “Nelle testuali parole dell’Hoover [“direttore della Division of Investigation”]: ‘C’è la palude d’una quantità di leggi inerti, molte delle quali furono fatte da gente direttamente legata alle fortune dei criminali’. E, sopra qualsiasi altra cosa: ‘C’è il labirinto della politica: dal losco tizio qualsiasi, con la sua influenza elettorale che sovente implica vita o morte; all’uomo politico che controlla i destini di tutta una città sottomessa alla delinquenza’. Terribile, che il direttore della polizia d’uno fra i più forti Stati del mondo abbia dovuto scrivere, e nessuno ha pensato a destituirlo, parole come coteste. La questione è che, dalla rettorica del progresso meccanico, del grattacielo, dell’ice-cream, s’è generata, e comunemente si mantiene, un’opinione che, dell’America, lusinga ed altera profondamente la vera fisionomia morale e politica”.
“In tale civiltà, il potere civile e politico, come da vari scrittori fu osservato, spesso somiglia a quello degli imperatori barbari; i quali, contro la concessione di determinati privilegi, erano eletti e sorretti dai feudatari e baroni, e ne erano perciò continuamente ricattati. Passando d’uno ad un altro, diramando e discendendo per oscuri tramiti, il filo degli interessi e delle influenze va talvolta a finire in mano all’ultimo gangster”.
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