Amerio e il Padre Nostro da (non) cambiare – di Lèon Bertoletti

Addolorato com’era dalle variazioni della e nella Chiesa, c’è da giurare che Romano Amerio non avrebbe affatto convalidato neppure l’annunciata (e già sbrigativamente adottata in alcune parrocchie) modifica del Padre Nostro, con l’inducas in tentationem addolcito nel non abbandonarci. Eppure lo studioso luganese aveva affrontato la questione, alla fine degli Anni Settanta, in un elzeviro sulla Gazzetta Ticinese (poi riproposto nel volume I giorni e le voci da Il Pardo, Edizioni della Svizzera Italiana, Locarno, 1980) non distanziandosi molto, almeno idealmente, da chi oggi presenta, auspica, accelera, si prepara a varare il cambiamento della preghiera. Certo, da parte sua senza per questo immaginare o ipotizzare alcuna riforma lessicale. Però riflettendo quasi in sintonia con gli odierni novatori, a dimostrazione di un problema sentito pur nella differenza delle soluzioni, di una difficoltà esistente, di una sensibilità comune; a conferma che le grandi menti sono capaci sempre di ragionamenti liberi e che il qualunquismo, il partito preso o la logica di schieramento esulano dal mestiere di osservatore, di pensatore, di critico. Merita dunque di essere letta questa lezione ameriana conosciuta poco e citata niente, merita di essere meditata. Per la «rimozione di uno scandalo», ci ammaestra, è abbastanza «l’esatta cognizione» delle parole. Non poco, evidentemente, in tempi di esteso analfabetismo cattolico.

PATER NOSTER E FILOLOGIA Rimozione di uno scandalo Lo sapevano i medievali e lo sanno anche quelli che da scolari leggevano la Divina Commedia: la teologia è scienza architettonica, che ordina tutte le altre scienze, dalla grammatica alla filosofia, mettendole al proprio servizio per edificare un sapere che è teoretico e pratico insieme: fa conoscere il reale e insieme orienta la vita. Orbene c’è nel Pater noster un intoppo a rimuovere il quale giova più la grammatica che tutte le ragioni e teologiche e filosofiche e psicologiche con cui tentarono rimuoverlo pensatori antichi e moderni. Tra questi ultimi ricordo il giurista Francesco Carnelutti, il filosofo Francesco Orestano e lo storico Piero Chimienti nelle loro operette sulla orazione dominica.

L’intoppo è sentito non meno dalla gente comune che dagli esegeti e dai dotti, giacché il Pater noster è, insieme coll’Ave Maria, la preghiera più comune nelle nazioni cristiane. La si vede entrata nella liturgia, prevale nelle devozioni quotidiane, se ne trovano le tracce in una moltitudine di locuzioni popolari. Perfino il tempo misuravano a paternostri le generazioni dei vecchi!

Non è d’altronde l’unico intoppo in cui urti l’intelligenza di quel testo. Anche la seconda parte della quinta petizione, con cui si chiede il perdono divino, è talmente paradossale che, come sappiamo da San Tommaso, alcuni la omettevano addirittura: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questo come noi, posto nella supplica con cui domandiamo il perdono di Dio, contiene (chi ben pensi) qualche cosa di stupefacente e di terribile. In tutto il resto dell’orazione son le cose del mondo di sotto che prendono a conformarsi a quelle del cielo, qui al contrario si prescrive a Dio di fare come facciamo noi, come se noi fossimo grandi e generosi perdonatori: rimetti… come noi rimettiamo. Il perdono dell’uomo diviene regola del perdono divino e, invertendosi audacemente le posizioni, questo ha da modellarsi su quello. Se non fosse audacia insegnata dall’uomo-Dio, arrivati a questo punto dell’orazione si dovrebbe tremare e saltar via, ma non si può perché l’audacia è insegnata e comandata dall’uomo-Dio. E non solo qui ma in altri luoghi del Vangelo. D’altronde nel sistema cattolico la rimunerazione divina non è forse strettamente determinata dalla quantità del merito? La misura con cui saremo misurati non è forse quella con cui abbiamo misurato? Perché dunque non anche il perdono divino si misurerà sul nostro?

Ma l’intoppo sul quale vorrei fermarmi in queste brevi righe è quello della penultima petizione: «non indurci in tentazione». Eccolo. Come può Dio buono indurre la sua creatura in tentazioni in cui forse soccomberà? Io resto confuso e mi rivolto. La Bibbia stessa esclude una tal cosa: «non andar dicendo che Dio ti ha posta la tagliuola» (Eccli. XV,12). I Padri hanno tentato di rimuovere l’intoppo con argomenti acuti o profondi o sofistici. Tutta la vita (dicono) è una tentazione, cioè una prova, e la tentazione è buona perché fa che l’uomo, alla prova, metta fuori la sua virtù. Ma se è buona (dico io) perché si prega di non essere tentati? Si prega (dicono) non di non essere tentati, ma di non essere messi dentro la tentazione, non essere gettati nel mezzo della tentazione così da esserne accerchiati da ogni parte senza scampo e quindi soccombere. Bisogna affrontare la tentazione restandone fuori e vincerla, perché se ci interniamo in essa siamo perduti. Nessuno infatti è certo che la sua forza morale farà equilibrio a qualunque grado di seduzione del male.

Si danno tante altre spiegazioni del versicolo. Ma forse la soluzione dell’intoppo si trova più semplicemente in una riflessione del genere filologico, anzi addirittura del genere grammaticale. L’italiano non indurci traduce il latino ne nos inducas che a sua volta traduce l’originale greco me eisenénkes. Orbene tanto il verbo latino quanto quello greco sono di quelli (e non son pochi) che si adoperano in un senso forte e in un senso attenuato: non significano più l’azione che il soggetto fa ma quella che lascia fareApobàllein, per esempio, se si bada all’etimologia, significherebbe gettar via, ma un tal significato l’ha quasi del tutto perduto; vale puramente lasciar andar via, perdere. Luciano nel dialogo di Menippo e Mercurio scrive: Ta anthe apoballei ten bafén. Però nessuno lo tradurrebbe: i fiori gettano via i colori, ma tutti: i fiori perdono i colori. Similmente il verbo greco diìemi e il suo corrispondente latino transmitto non significano, come porterebbe la loro forza originaria, faccio passare, trasporto, ma soltanto lascio passare, ammetto. Quando Senofonte nell’Anabasi narra che i barbari u diésoien i mercenari greci attraverso i propri territori, nessuno dei miei scolari intendeva che i barbari non avrebbero trasportato i greci attraverso i propri territori, bensì che non avrebbero lasciati passare. Anche il verbo latino tradere significa propriamente consegnare, ma ha spesso significato attenuato venendo a dire semplicemente lasciar andare o cadere. C’era nella liturgia preconciliare, tra le cose bellissime che furon cancellate, un oremus nella Messa da morto che supplicava: ne tradas animam eius in manus inimici. Non voleva dire non consegnarlo, bensì solamente non lasciarlo caderenelle mani del Nemico. Così qui ne nos inducas vale non lasciarci cadere.

(Romano Amerio)

CONCLUSIONE Non occorrono dunque sottigliezze teologiche per sciogliere l’intoppo, cioè lo scandalo, di quel versicolo dell’orazione dominica. Basta l’esatta cognizione dei vocaboli. La teologia prende come ancella anche la filologia e questa ha soltanto da prestare il suo servizio. Tutto entra nell’edificio dello scibile e, anche, tutto armonizza con tutto.

 

 

12 commenti su “Amerio e il Padre Nostro da (non) cambiare – di Lèon Bertoletti”

  1. Carla D'Agostino Ungaretti

    Grazie, Prof. Bertoletti, per questa spiegazione che avevo quasi dimenticata dopo averla studiata e compresa ai tempi del mio antico liceo classico! E’ vero l’analfabetismo di ritorno finisce per contagiare la Chiesa cattolica, se essa sente il bisogno di modificare ciò che è andato bene per 2000 anni!

    1. …analfabetismo di ritorno proprio in quella Chiesa che per tanti secoli fu l’unico faro di civiltà e cultura in un modo imbarbarito!

  2. Luigi Bruno Torre

    Grazie! Anticipiamo l’intrusiva “variazione” e decidiamo di pregarlo e recitarlo sempre, anche nelle celebrazioni Novus Ordo, in latino…!

  3. Il Padre Nostro che recitiamo è in Matteo 6,9 e dice:…..rimetti a noi i nostri debiti così come anche noi li “abbiamo rimessi” ( os cai emeis afekamen, che tempo piuccheperfetto)ai nostri debitori coerentemente a quanto si legge in Mt 5,24: …. prima riconciliati con tuo fratello e poi tornato (elthon) offri i ltuo dono.

    ….e non metterci (eisenenkes = porre dentro, mettere) alla prova ( eis ùeirasmon) ma liberaci dal malvagio ( apò tou poneroù). In latino la parola tentatio non vuol dire tentazione ma tentativo, prova; la parola induco significa condurre detro , mettere dentro e quindi sempre si deve tradurre ” non metterci nelle prova o alla prova”.

    Sarebbe bene che il santo Padre prima di modificare le parole del Pater Noster si consigliasse con chi sa di grco antico e di latino.

  4. ma quel ” come noi li rimettiamo ai nostri debitori” non fa riferimento alla pratica ebraica, prescritta nell’anno giubilare (cfr Deut.), della remissione dei debiti ( unitamente a quella della liberazione degli schiavi)? Per chiedere, per analogia, un uguale completa remissione dei peccati da parte di Dio? Pronti noi ovviamente a perdonare il nostro fratello ogni volta – settanta volte sette – che ci chiede il suo perdono, come noi siamo stati perdonati – prima – da Dio ( vedi Matteo 18, dove gl stessi termini di remissione e di debito ritornano).
    E quindi è da Dio che noi impariamo a perdonare, non Dio chiediamo che ‘impari’ da Noi, che stia alla nostra misura….Staremmo freschi….

  5. Oswald Penguin Cobblepot

    Amici RC, posso sbagliarmi, ma in questa nuova traduzione sento puzza di bruciato, già nella motivazione. “Scandalo”, “mutata sensibilità”? Sono le stesse in ragione delle quali ci hanno rifilato aborto, divorzio, fecondazioni varie, unioni (in)civili, testamenti biologici, etc. Ma c’è un’altra ragione di sospetto; il Pater noster, durante la S.Messa, precede immediatamente la Preghiera dell’Embolismus, in cui il celebrante dice “ope misericordiae tuae adiuti, et a peccato simus semper liberi”. In italiano attuale “non ci indurre… e con l’aiuto della tua misericordia saremo sempre liberi…”. Se invece dell’INDURRE dovesse essere adottato l’ABBANDONARE, il senso di tutta l’orazione (Pater+Embolismus) ne esce completamente stravolto. A che scopo? Finora (“non indurre…e con”) si capisce come sia l’anima dell’orante che supplica Dio di non sottoporla alla prova della tentazione, a causa della fragilità umana. Qual è allora il senso di una simile rivoluzione nel lessico liturgico? E poi perché proprio adesso? Tutto questo non mi piace. Da Gotham, il Pinguino.

    1. Caro Catholicus, che bel raccontino ci ha consigliato!
      Realtà nuda e cruda. Pensi un po’ che un venerdì di quaresima, durante una via crucis,, vidi coi miei occhi un prete indossare una stola con su raffigurati decine e decine di gatti.
      Boh………

  6. Luciano Pranzetti

    Ottimo, Roberto! basterebbe indagare l’etimologìa di INDURRE e di ABBANDONARE, per verificare la vacua supponenza dei novatori che fanno la pesa alla parola di Dio, parola che è, nel NT riferita in greco.

  7. Padre nostro che sei nei cieli

    sia santificato il Tuo nome

    venga il Tuo Regno

    sia fatta la Tua volontà

    come in cielo così in terra.

    Dacci oggi il nostro pane quotidiano

    rimetti a noi i nostri debiti

    come noi li rimettiamo ai nostri debitori

    e non ci indurre in tentazione

    ma liberaci dal male
    o padre eterno unico ed unversale
    liberaci da ogni male possibile ed immaginabile ,
    tutto sara fatto secondo le tue volontà ,
    perchè solo tu sai solo puoi solo tu vuoi
    ma sappiamo per certo una cosa ,
    se ti ameremo con la giusta intensità
    da qui al 2041 andremo piano piano ringiovanendo ,guarendo e dinventando belli
    e per ottenere ciò dobbiamo fare solo tre cose
    amarti amarti ed amarti ancora grazie papa
    tuo figlio henri ( i.n.r.i. ) il Dio é uno solo a presto

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