Ancora sulla nota teologica delle canonizzazioni – di Paolo Pasqualucci

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Estratto da:  Bernard Bartmann, “Précis de théologie dogmatique” (1926), tr. fr. a cura dell’abbé Marcel Gautier, Ed. Salvator, Mulhouse, 1951, vol. 1, pp. 58-59.  Traduzione italiana di Paolo Pasqualucci, seguita da un “Appunto per un’interpretazione” dello stesso.

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Data l’attualità e l’importanza del tema, mi sembra utile proporre alla riflessione generale ciò che la sana dottrina di un tempo insegnava sulla nota teologica delle canonizzazioni. In tal modo, la discussione su internet potrebbe basarsi su fondamenti dottrinali certi. Il manuale di teologia dogmatica di Bartmann (morto nel 1939) è sempre stato considerato un classico. Si distingueva non solo per la grande erudizione ma anche per la capacità di sintesi dell’autore, oltre che per la precisione nei concetti. Non potendo disporre dell’originale tedesco, ho tradotto dalla versione francese, da me acquistata in antiquariato, e ciò rappresenta un limite del quale il lettore deve tener conto. Esiste anche una vecchia traduzione italiana, da scovare in qualche biblioteca o sul mercato antiquario. Ho dovuto apportare alcuni ritocchi di carattere editoriale. Le frasi o parole tra parentesi quadre sono mie.

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Bernard Bartmann si occupa della questione delle canonizzazioni nel § 7, incluso nel II capitolo del I volume. Il II capitolo si intitola:  “I principi della scienza dogmatica”; il paragrafo citato:  “Il magistero ecclesiastico”.

T e s t o :

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“A partire dall’anno 1000, la Chiesa si sforzò di regolare poco a poco mediante formule fisse il culto dei santi. Vi riuscì definitivamente solo verso l’anno 1600. All’epoca del Concilio di Trento, Thomas Badis, maestro del Sacro Palazzo, sostenne contro Ambrose Catharin che la Chiesa potesse sbagliarsi nel render onore ai santi.  Secondo lui, il dovere della fede era quello di credere alla gloria dei santi in generale, ma non in ciascun caso particolare: bisognava distinguere tra “credere ex pietate” e “credere ex necessitate fidei”.  Nelle canonizzazioni la Chiesa non può appoggiarsi sulla Rivelazione, ma solamente sulle testimonianze umane riguardanti la vita e i miracoli [dei santificandi], testimonianze esaminate con cura (processus informativus super fama sanctitatis, virtutum et miraculorum). Oggigiorno per la quasi unanimità dei teologi questo giudizio è ritenuto infallibile, tuttavia la tesi stessa dell’infallibilità della Chiesa in questo caso comporta una gradazione [dans ce cas comporte des degrés].

Le   d i f f i c o l t à  che qui si presentano sono le seguenti:

  1. Innanzitutto non è assolutamente chiaro che la Chiesa voglia definire il fatto che il santo in questione sia pervenuto alla visione beatifica;
  2. Inoltre, potrebbe applicarsi solo al piccolo numero dei santi canonizzati dal magistero ecclesiastico e non al gran numero di quelli che – prima dell’introduzione della pratica della canonizzazione solenne – sono stati dichiarati santi dai singoli vescovi e dagli Ordini religiosi per poi esserlo da tutti, senza che si siano esaminate da vicino le ragioni a favore della loro santità;
  3. Infine – e si tratta della difficoltà principale – è impossibile, senza rivelazione divina, acquisire una certezza che sia di fede [cioè dogmatica] sullo stato di grazia di un uomo (Concilio di Trento, s. 6, c. 12). Bisogna aggiungere  che la Chiesa, dopo la morte degli Apostoli, non ha ricevuto più alcuna rivelazione rivolta alla Chiesa nella sua totalità [ovvero pubblica]. Nella rivelazione che si è chiusa con gli Apostoli, si trova certamente la promessa generale della vita eterna per gli eletti, ma questa vita eterna non è attribuita in maniera definitiva a ciascuna persona concretamente onorata come santa dalla Chiesa [senso: la canonizzazione non dimostra di per sé che il canonizzato sia già in Paradiso]. La predestinazione è un mistero impenetrabile.  ­Nelle sue ricerche sulla vita dei santi, la Chiesa non si basa su una testimonianza divina ma su fonti di origine umana e su fatti naturali che possono essere sempre il frutto di interpretazioni soggettive.  I santi hanno potuto ricevere da Dio numerose testimonianze per mezzo dei miracoli, ma questi miracoli, non più che le stesse canonizzazioni, non si trovano in relazione interna diretta con le verità rivelate. Aggiungiamo che questi stessi miracoli, in quanto fatti soprannaturali, non possono esser riconosciuti che da coloro che vi credono, ma questa fede non è obbligatoria.  L’antica controversia in base alla quale ci si chiedeva se fosse possibile provare un dogma mediante un miracolo notorio nella Chiesa, è stata risolta in maniera negativa. È difficile refutare questi argomenti quando li si esamini in modo serio. Quando Eusebio Amort scrive che “dubietas revelationis tollatur per indubitata miracula [i dubbi nella rivelazione vengano tolti grazie a miracoli accertati]”, non mantiene il suo asserto nell’ambito della stretta nozione di Rivelazione.
    Qui non si potrà perciò invocare la più alta certezza dogmatica.  Questa è anche l’opinione di Scheid in un articolo apparso sulla Rivista di Innsbruck (1890):  L’infallibilità del Papa nella canonizzazione dei santi. “La difficoltà della questione consiste nel trovare una prova veramente soddisfacente dell’infallibilità nella canonizzazione della quale si afferma l’esistenza [une preuve vraiment satisfaisante de l’infallibilité dans la canonisation dont on affirme l’existence]. La canonizzazione si trova effettivamente all’estremo limite nell’ambito delle decisioni infallibili. Non è pertanto facile stabilire, in maniera chiara e probante, che la canonizzazione, in tutta la sua estensione, rientri nelle attribuzioni di infallibilità della Chiesa” (p. 509 – Scheid). In genere, sull’esempio di Melchiorre Cano, si rinuncia agli argomenti particolari e perentori per appoggiarsi sul concetto di “fascio d’argomenti”, supplendo in qualche modo con il numero alla debolezza di ciascun argomento. Lo stesso Scheid si sforza di dimostrare che la Chiesa vuole obbligare tutti i fedeli a credere alla canonizzazione. Di sicuro, una dichiarazione della Chiesa stessa attestante che quella è la sua volontà, sarebbe un argomento assai più valido. Tuttavia, il giudizio della Chiesa sulla santità di un morto merita, senza alcun dubbio, una grande considerazione, sia in ragione della autorità infallibile della Chiesa, sia a causa della maniera severa e minuziosa con la quale essa vaglia i titoli per la canonizzazione. Ma in ogni caso, gli atti di canonizzazione non possono esser accettati che con una fede generale ecclesiastica e non con una fede divina. Il fedele non pone sicuramente in essere un atto di fede speciale nei confronti della canonizzazione ma vi crede con un atto di fede generale, l’atto mediante il quale accetta il culto della Chiesa nel suo insieme. – Se tra i santi appare magari un “falso” santo come Barlaam e Giosafat, il culto relativo di cui gode tende come suo fine sempre a Dio. Un re è [pur sempre] onorato nella persona di un falso ambasciatore, allo stesso modo Dio anche in quella di un falso santo (Cfr. C.J.C. 1999-2141).”

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Appunto per un’interpretazione 

di Paolo Pasqualucci

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Dati i limiti della mia competenza in questo campo, mi concentrerò soprattutto sul punto essenziale, ossia sulla difficoltà dottrinale di concepire come infallibili le canonizzazioni.  Premetto che i riferimenti ad alcuni teologi del passato non sono in grado di illustrarli con notizie sulla loro opera.

In via introduttiva, chiariamo il significato della terminologia adottata. Che vuol dire “fede generale ecclesiastica” contrapposta a “fede divina”?Ce lo spiega Bartmann stesso, poche pagine prima.  La “fede divina” è quella che si deve ai dogmi veri e propri, la “fede ecclesiastica” alle “verità cattoliche”, collegate sempre ai dogmi, ma non dogmi esse stesse. La “fede divina”, detta anche “fede divina ed ecclesiastica” ha per oggetto “le cose rivelate da Dio”; la “fede ecclesiastica” ciò che è “connesso alle cose rivelate”.  La prima si appoggia direttamente “sull’autorità di Dio che parla nella rivelazione”; la seconda “sull’autorità della Chiesa” (Bartmann, op. cit., p. 52). Le due fedi sono ovviamente collegate ma non sono la stessa cosa. Dire che gli atti di canonizzazione sono accettati con un atto di “fede generale ecclesiastica”, cioè (interpreto) con un atto di fede con il quale si accetta il culto della Chiesa “nel suo insieme”, significa evidentemente negare che le canonizzazioni siano come tali infallibili e quindi da credersi con atto di “fede divina”, come se venissero direttamente da Dio.

Veniamo ora allo scoglio dottrinale.  Che cosa “non è assolutamente chiaro” al punto n. 1, sopra riportato? Così interpreto: non è affatto chiaro che, secondo la stessa Chiesa, il canonizzato sia già in Paradiso.  La “visione beatifica” è appunto quella dei Beati, nella Gerusalemme celeste, in Paradiso, ammessi a contemplare in eterno la S.ma Trinità. Dalla canonizzazione si deve forse dedurre, come ritengono oggi i più, che l’uomo o la donna proclamati santi, per la Chiesa si trovino già in Paradiso, già ivi pervenuti, poiché proprio questo dimostrerebbe la loro canonizzazione? Non lo si deve, secondo Bartmann. Il che significa, ne deduco, che il canonizzato potrebbe allora trovarsi ancora in Purgatorio (o all’Inferno, se è stato in vita sino alla fine un vero e proprio Ser Ciappelletto, l’impostore della famosa novella di Boccaccio). E perché Bartmann può dire che la canonizzazione non dà la dimostrazione del raggiunto Paradiso? Perché (suppongo) nelle formule utilizzate al tempo dalla Chiesa per la canonizzazione solenne non si facevano affermazioni che permettessero di arrivare ad una conclusione del genere. E ciò era perfettamente logico, aggiungo: dopo la >>morte va l’anima nostra immediatamente al giudizio individuale di Nostro Signore, che decide il suo destino per l’eternità e in modo inappellabile (questo è dogma di fede e chi non ci crede è eretico). Affermare che il morto canonizzato è già in Paradiso vorrebbe dire sostituirsi a Nostro Signore nel Giudizio: atto temerario e offensivo per la Divinità del Verbo.

Ma oggi, non si è forse diffusa la credenza che si vada praticamente  t u t t i  in Paradiso perché l’Inferno sarebbe in contraddizione con la Misericordia di Dio, ragion per cui, se c’è, è vuoto?  Si tratta di un errore mostruoso e addirittura blasfemo, a ben vedere.  Ma tant’è.  Quando è morto Giovanni Paolo II, mi ricordo di aver sentito dire dall’ecclesiastico che ne dava l’annuncio alla folla, raccolta in attesa in Piazza S. Pietro, che il Santo Padre “era andato nella Casa del Padre”.  Antico modo di esprimersi, di origine biblica, per dire che uno era già in Paradiso?  Se questo era il caso, quell’ecclesiastico come faceva a saperlo?  Quando uno moriva, un tempo non si diceva che “era andato o passato al Giudizio”?  E quante volte si è letto sui giornali, anche a proposito della morte di personaggi celebri non propriamente famosi per santità di vita, che “ora essi ci guardano dal Cielo”, senza che nessun membro del clero ci trovasse niente da ridire? Se nel proclamare la santità dei due celebri candidati Papa Bergoglio ha espresso il concetto che essi erano già “nella casa del Padre”, bisogna dire che tale formulazione si allineava al cattivo uso dominante.  (Mi sembra che Bergoglio abbia espresso il concetto dell’avvenuto arrivo “alla Casa del Padre” in modo indiretto, quando ha detto, ad esempio di Giovanni XXIII, che ora “ egli ci guida dal cielo etc.”. ).

La mancata menzione (in passato) della già avvenuta partecipazione alla visione beatifica non era provocata anche dal dettato del Concilio di Trento, richiamato a ragione da Bartmann, e quindi dall’esistenza di un preciso assunto dogmatico?  Andiamo allora a vedere cosa dice sul punto il Concilio di Trento.  Si tratta della sessione VI del 13 gennaio 1547, dedicata al problema della giustificazione, da ribadire nei suoi giusti termini contro le eresie dei luterani.  Il brevissimo cap. 12 si occupa di questo argomento:  Bisogna evitare la presunzione temeraria della predestinazione.  Testo :

“Nessuno, inoltre, fino che vivrà in questa condizione mortale, deve presumere talmente del mistero segreto della divina predestinazione, da ritenere per certo di essere senz’altro nel numero dei predestinati, quasi fosse vero che chi è stato giustificato o non possa davvero più peccare, o se anche peccasse, debba ripromettersi un sicuro ravvedimento.  Infatti non si possono conoscere quelli che Dio si è scelti se non per speciale rivelazione” (G. Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, tr. it. di R. Galligani, UTET, Torino, 1978, p. 547; DS 805/1540).

Consideriamo attentamente.  Sappiamo che esiste la predestinazione alla gloria non alla dannazione, ci si danna con le proprie mani perché si rifiuta liberamente l’aiuto della Grazia (Rm 9-11). Ora, nella nostra condizione mortale, come sapere se siamo nel numero dei predestinati? Pensiero angoscioso e tremendo, che va fermamente respinto come tentazione del demonio, una delle tante e non la meno grave: dobbiamo solo vivere osservando i dieci comandamenti e richiedendo in tutto l’aiuto di Dio e non pensare a risolvere noi i divini misteri, che saranno svelati solo il Giorno del Giudizio o dopo di esso ai Beati. Ma se, nel canonizzare un morto, la Chiesa dicesse o facesse capire ufficialmente che lo ritiene già in cielo, già “nella Casa del Padre”, non sarebbe come se si arrogasse la conoscenza di “quelli che Dio si è scelti”? È evidente che la Chiesa non può pretendere ad una simile conoscenza. Qual è allora il significato esatto della canonizzazione, se essa deve ritenersi infallibile? L’infallibilità autorizza la proclamazione come verità rivelata di un determinato insegnamento, religioso o morale. Ma tale verità, nel caso di specie, non può essere quella della già acquisita visione beatifica da parte del santificato se, come si è visto, tale proclamazione viene a contraddire quanto stabilito dal Concilio di Trento e cioè che è impossibile conoscere chi sono i predestinati, “se non per speciale rivelazione”.  Come deve intendersi questa “speciale rivelazione”? Se la canonizzazione è infallibile, allora l’autorità che la effettua ha avuto “per speciale rivelazione” la certezza che il santo è già in Paradiso?   Proprio questo si deve pensare quando oggi si eleva qualcuno alla gloria degli altari?  Ci vien detto o fatto capire che ci troviamo in presenza di una “speciale rivelazione”, fatta però non a persone private ma pubblicamente alla Chiesa?  Ma, a ben vedere, nemmeno la speciale rivelazione (non più privata ma pubblica) si può tuttavia ammettere, fa egregiamente intendere Bartmann, perché si è sempre creduto (ed è in sostanza dogma di fede – DS 2021/3421) che la Rivelazione sia terminata con la morte dell’ultimo Apostolo.

Costretti allora a tralasciare la sfera ultraterrena, si può dire che la canonizzazione  stabilisca come dogma di fede l’esistenza delle virtù eroiche del defunto? Ma è possibile attribuire un tale contenuto alle verità di fede? Le verità di fede concernono “la fede ed i costumi”, cioè la religione e la morale come stabilite sulla base della Scrittura e della Tradizione della Chiesa, mantenute nei secoli dal suo insegnamento.  Come potrebbero concernere mere realtà di fatto, quali il comportamento, la vita effettivamente vissuta dal canonizzato? È verità di fede che i fatti ed i detti nei Vangeli sono  v e r i cioè che sono effettivamente accaduti e che è assolutamente vera la loro pretesa di esser parola o azione del Verbo incarnato, di essere cioè di origine divina e di manifestare i poteri divini del Verbo; ma non può esser verità di fede che Roncalli o Woityla abbiano vissuto in modo “eroico” nei confronti della morale cristiana. Si tratterà di una realtà di fatto vera o falsa, il modo come hanno vissuto, a seconda della veridicità delle testimonianze in proposito, ma in nessun caso di una verità di fede. Quello che sto cercando di dire è che, se la proclamazione della canonizzazione non può avere ad oggetto la destinazione ultraterrena attuale del defunto, e non può perché altrimenti scivolerebbe addirittura nell’errore dottrinale, non si capisce allora quale possa essere il suo contenuto, in quanto appunto proclamazione che impegni l’infallibilità.

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fonte: Chiesa e postconcilio

7 commenti su “Ancora sulla nota teologica delle canonizzazioni – di Paolo Pasqualucci”

  1. Dante Pastorelli

    Per mera informazione: la traduzione di Pasqualucci non si discosta dalla traduzione italiana che ho alle mie spalle: B. Bartmann, Manuale di Teologia Dogmatica, Edizioni Paoline, III ed. riveduta, 1952, vol. I, p.59 e ss., in particolare pp.63-65.

  2. Una osservazione: se un Santo ha fatto dei miracoli (e ce ne sono di Santi così), inequivocabilmente inspiegabili dalla scienza, e quindi riconducibili solo e senza ombra alcuna di dubbio all’intervento della Grazia Divina che ha così disposto (nel senso di concedere che il miracolo sia stato reso possibile), resta ragionevolmente difficile credere che questa persona (il Santo) sia all’inferno. O mi sbaglio? Detta in altri termini: neanche su San Pietro sappiamo nulla riguardo il suo destino eterno, ma è oggettivamente difficile ritenere che sia all’inferno.

  3. Giuseppe Licciardo

    Alcune considerazioni: Questo dibattito sull’infallibilità delle canonizzazioni non pensate che generi solo una gran confusione tra i fedeli? Non pensate che se davvero le canonizzazioni non sono infallibili si dovrebbe mettere in discussione non solo la santità di Giovanni XXIII ma anche di san Francesco o san Paolo e di conseguenza la santità di tutti i coloro che la Chiesa afferma essere santi?
    Credo che sia ingiusto insinuare il dubbio in tal senso, anche perché prima che la Chiesa affermi che una persona sia certamente in paradiso, non lo fa in maniera superficiale ma con ricerche e studi che durano anni. Penso dunque che tale dibattito sia inutile e dannoso.

    1. Ariel S. Levi di Gualdo

      L’articolo è impeccabile sul piano teologico e storico.
      Mi soffermo su questa frase:

      “Affermare che il morto canonizzato è già in Paradiso vorrebbe dire sostituirsi a Nostro Signore nel Giudizio: atto temerario e offensivo per la Divinità del Verbo”.

      Quando anni fa partecipai al corso per la formazione dei postulatori presso la Congregazione delle Cause dei Santi, il relatore di una causa di canonizzazione di un celebre beato, oggi santo, preso da impeto, mentre ci faceva una conferenza disse: “… e adesso, il nostro […] che dal Paradiso ci guarda penserà anche a noi che ci accingiamo a lavorare sulle cause dei futuri santi”.
      Quando fu aperto il dibattito, anziché domandare affermai:
      “Il beato è indubbiamente beato, perché è un fatto, anzi un atto pubblico solenne della Chiesa, ma nessuno di noi può dire che sia in Paradiso, perché questo non ci è dato saperlo e quindi non ci è dato di dirlo”.

      Ovvio che tutti presumiamo che la totalità dei beati e dei santi, di ieri e di oggi, siano in Paradiso, ma lo presumiamo.

      Per quanto riguarda i processi di beatificazione dei Romani Pontefici, da sempre ho una mia teoria, che non penso sia poi tanto peregrina: non aprire i loro processi prima che siano decorsi trent’anni dalla loro morte e con un esame particolarmente rigoroso – molto più delle altre cause – per quanto concerne non ultimo tutta la fase storica del processo, ed un esame particolarmente meticoloso sulla eroicità delle virtù.
      Esiste infatti, circa la eroicità delle virtù richieste, un ovvio senso delle proporzioni, appunto proporzionato all’ufficio così straordinario e gravoso ricoperto da un pontefice, che non è certo equiparabile a quello di un sacerdote missionario morto martire sotto le mordenti fauci dei cannibali dell’Amazzonia.

      Io non dubito che Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II siano stati dei santi uomini e sicuramente anche dei santi modelli di virtù, perchè tali la Chiesa li ha riconosciuti e proclamati tali Rimango perplesso dalla velocità del processo di Giovanni Paolo II morto appena nove anni fa e ancor più di Giovanni XXIII, figura che avrebbe richiesto uno studio molto più approfondito e soprattutto una prudente attesa, visto che in ballo abbiamo: da una parte un concilio da lui voluto e aperto che ad oggi non risulta ancora adeguatamente applicato, ed un postconcilio che si è sostituito al concilio dei Padri della Chiesa sul quale vi sarebbe da discutere di più ancora, qualora traesse il proprio essere ed esistere da certe ambiguità di linguaggio di alcuni testi del concilio.

      E questo senza nulla togliere alla loro santità.

      Visto che siamo in tema: in alcuni blog ho letto giudizi furenti e furibondi su Roberto de Mattei “reo” di avere rilasciato una intervista di caratte storico scientifico, da valente storico tal è, sul problema della canonizzazione.
      Abbia torto o abbia ragione, una cosa è certa: come cattolico de Mattei ha il diritto di esprimersi, specie all’interno di una Chiesa dove si chiamano in cattedra a tenere lezioni nelle università pontificie od ai seminaristi futuri preti, i pastori protestanti e le vescovesse luterane.

      http://www.robertodemattei.it/2014/04/29/le-canonizzazioni-del-27-aprile-sono-infallibili-intervista-al-prof-roberto-de-mattei/

      http://www.conciliovaticanosecondo.it/articoli/giovanni-xxiii-un-papa-imprudente-che-tradi-il-suo-concilio-intervista-al-prof-roberto-de-mattei/#more-2325

      Chi gli ha fatto il complimento più bello lo ha chiamato “integralista”.
      Non capisco: stiamo assistendo da mezzo secolo alla peggiore de-costruizione del dogma ed alla distruzione delle basi fondanti del deposito della fede; e questo pare vada tutto bene. Non si può però, invece, fare una analisi storica sulle dinamiche dei processi di canonizzazione.
      Insomma: Hans Kueng può scrivere un libro per mettere in dubbio il dogma dell’infallibilità del Sommo Pontefice in materia di dottrina e di fede, con tutti i dubbi ben più gravi ancora appresso a seguire, seguitando a essere in tutto e per tutto un presbitero mai sospeso dal ministero sacerdotale, mentre invece, il de Mattei, non può fare lo storico.

      Davvero uno strano mondo … davvero una strana Chiesa …
      E che Dio ci assista!

      1. Stimatissimo Don Ariel, qui non mi sembra che si stia facendo una semplice “analisi storica sulle dinamiche dei processi di canonizzazione”. Qui mi sembra che pur di dar contro l’attuale Magistero, si mettano in dubbio le fondamenta di uno dei pilastri del cattolicesimo qual è il culto dei santi.

        “Affermare che il morto canonizzato è già in Paradiso vorrebbe dire sostituirsi a Nostro Signore nel Giudizio: atto temerario e offensivo per la Divinità del Verbo.”
        Tante volte ho letto affermazioni del genere in siti geovisti e protestanti. E’ invece la primissima volta che leggo un’affermazione del genere in un sito che si dichiara cattolico, anzi, cattolico tradizionalista ed integrale. Davvero, non mi sembra di trovarmi in un sito cattolico, mi sembra piuttosto di trovarmi in un sito geovista/protestante.
        Comunque, ho una domanda molto pratica e concreta, e mi piacerebbe ricevere risposta.
        Se la Chiesa non ha il potere di dire che un santo si trova in Paradiso, allora significa che la Chiesa non ha il potere di affermare che quel santo possa intercedere presso Dio. Rebus sic stantibus, a che serve il culto dei santi? A che mi serve pregare sant’Antonio perché mi faccia la grazia, se è possibile che sant’Antonio si trovi all’inferno e quindi impossibilitato a portare al trono dell’Altissimo le mie preghiere?

  4. luciano pranzetti

    Caro Pasqualucci: possiedo il testo del Bartman, VI edizione, Paoline 1962, usata ai tempi in cui frequentavao, negli ’60, la facoltà di teologia all’Angelicum e che tengo sulla scrivania da consultare. Concordo con Pastorelli circa la tua traduzione. Altri testi, altra tempra di Chiesa

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