Cibo e salute nell’illiberale società delle libertà

Tutto si tiene, ci è capitato di scriverlo in diverse occasioni. I fenomeni sociali che osserviamo, i movimenti delle idee, gli autentici terremoti come quello innescato dalla morte di George Floyd e dalle manifestazioni il cui esito è distruggere monumenti e cancellare la memoria, hanno tutti un comune denominatore che pochi osano ammettere e soprattutto denunciare. È in atto un attacco decisivo alle libertà da parte dei piani alti della cosiddetta “società aperta”, con la complicità di parte rilevante del mondo accademico e della comunicazione, il progressismo ricompreso sotto il nome di marxismo (o post marxismo) culturale. Dietro ogni parola d’ordine apparentemente umanitaria, celata sotto il velo degli innumerevoli “anti” di cui si nutre la sottocultura dominante, si nasconde la negazione più completa della pratica della libertà.

La crisi sanitaria dell’epidemia di Covid 19 ha obbligato molti Stati – sulla scia delle indicazioni di organizzazioni internazionali come ONU e OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità controllata da Bill Gates – ad adottare misure severe di restrizione delle libertà individuali, a partire da quelle di movimento, con l’obiettivo dichiarato di proteggere la nostra salute. Non è qui il caso di fare valutazioni sull’esito o il fallimento di quelle azioni, ma va preso atto che le popolazioni si sono adeguate con docilità, dimostrando una mansuetudine da gregge impaurito. Il successo delle nuove regole trascina con sé una normalità del tutto inedita, fatta di distanziamento sociale, telelavoro, mascherine e sospetto reciproco per il terrore – in buona parte irrazionale – del contagio.

Nell’ultimo ventennio – ecco perché tutto si tiene – si è fatta sempre più forte una sorprendente cultura del divieto: in nome di valori come la tolleranza, l’uguaglianza e il rispetto per le scelte soggettive, sono via via diventati reati penali un gran numero di idee, parole, convincimenti e giudizi. Si è iniziato con la proibizione di discutere in sede storica l’Olocausto, una grande tragedia imprigionata in una verità ufficiale eccepire la quale spalanca le porte del carcere. Si è proseguito con il divieto di esprimere preferenza per se stessi, considerando discriminatorio ogni giudizio non lusinghiero su differenze, comunità etniche, territoriali e religiose. Successivamente l’asticella si è alzata ulteriormente per colpire le cosiddette discriminazioni di genere (l’orribile maschilismo e il suo fratello di latte sessismo) e quelle relative all’orientamento sessuale. Sono diventati malattie dell’anima – fobie – sentimenti, sensazioni, preferenze.

La terapia non è affidata solo agli psichiatri, ma innanzitutto ai poliziotti del pensiero, giacché le prigioni avranno presto bracci specifici dedicati alla custodia di criminali incalliti convinti che i genitori si chiamano mamma e papà, che la normale relazione è quella tra uomo e donna e che il matrimonio è cosa diversa dall’unione tra persone dello stesso sesso. Si va avanti, giorno dopo giorno, per creare la futura, illiberale nuova umanità mascherata da emancipazione e liberazione. Nessun ambito della vita personale, comunitaria e di relazione è risparmiato per creare la taglia unica, l’Eden dell’Identico in cui la schiavitù cambia definitivamente nome e si proclama libertà.

Questa è la nuova normalità a cui ci stanno addestrando ed abituando, purtroppo con successo crescente e con l’incapacità degli oppositori – che sono molti, probabilmente la trascurabile maggioranza (Ennio Flaiano), sono privi di potere, incapaci di organizzare una contro narrazione di verità. L’uomo a taglia unica deve fare, pensare, dire esattamente allo stesso modo di ogni altro. E se, come sosteneva il materialista Ludwig Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia, anche le tradizioni e le abitudini gastronomiche, elemento importante della civiltà materiale di ogni popolo, devono essere attaccate e mutate. Non è più solo questione di “Mac Mondo” o di cibo spazzatura, da consumare in fretta per non danneggiare il ciclo produttivo delle merci e dei servizi. No, dobbiamo proprio mutare pelle e cervello: per il nostro bene, la nostra salute.

Lo stratagemma funziona; nel caso del virus gli esperimenti in corpore vili sono andati oltre le più rosee aspettative del potere, perché non proseguire? La crisi da contagio è servita da canovaccio, banco di prova per molte altre iniziative destinate a regolare minutamente ambiti sempre più vasti della nostra esistenza, ovvero cancellare la libertà concreta, sostanziale. Quante iniziative illiberali della società liberale e libertaria si possono camuffare sotto il manto della salute pubblica! L’Unione Europea, dittatura morbida di leggi, regolamenti e burocrazie è in prima linea. Proteggere la salute e la vita del cittadino è il modo più perfetto per ingerirsi nella nostra vita. La medicalizzazione dell’intera esistenza sembra essere un obiettivo primario del potere. A nostra memoria, se ne è occupato solo Ivan Illich, duramente attaccato da destra e sinistra. Il prete di Cuernavaca fu buon profeta; le libertà fondamentali si restringono giorno per giorno dietro l’ipotetico interesse della nostra salute.

È lo Stato, strumento docile dell’oligarchia mondialista dominante, a dettare i parametri in base ai quali possiamo considerarci sani, e a scegliere, anzi imporre lo stile di vita a cui dobbiamo conformarci. Rammentiamo un triste aneddoto del grande attore romano Ettore Petrolini, che morì a soli cinquant’anni. La famiglia, nell’estremo tentativo di salvarlo, chiamò a consulto i più illustri clinici del tempo. Nel tentativo di migliorare l’umore dell’infermo, i parenti mentirono e gli dissero che i professoroni lo avevano trovato in salute. Il grande attore pronunciò l’ultima, fulminante battuta: meno male, almeno muoio sano! Moriremo sanissimi, vaccinati e distanziati, senza fare caso alle libertà perdute. È la “governance” un po’ materna e un po’ kapò di campo di concentramento, ferrea ma benevola, che restringe le nostre libertà civili, poco a poco, secondo il vecchio principio della rana bollita, ovvero a fuoco lento.

L’Unione Europea non si è fatta scappare il momento favorevole e ha lanciato una campagna tesa a “implementare” un sistema di regolazione di tutti i segmenti dell’industria alimentare. In parole povere, dobbiamo mangiare quello che dicono loro, come dicono loro, con la maschera progressista del cambio delle “abitudini alimentari”. Il 20 maggio scorso, un po’ in sordina, è stata lanciata un’iniziativa comunitaria – una minaccia in più – il cui nome accattivante e falso fa rabbrividire gli spiriti liberi: from farm to fork, dalla fattoria alla forchetta, o, in normale italiano, dal produttore al consumatore. Non si tratta di promuovere le produzioni locali, il cosiddetto “chilometro zero”, avvicinare chi produce alimenti e chi li consuma, bensì il perfetto contrario. Bipensiero, neolingua. Lotta a tutto ciò che sa di artigianato, memoria, tradizione; largo alla scienza e all’industria, naturalmente celato dall’appello virtuoso alla salute. Produttori e dettaglianti perderanno libertà e mercato. I consumatori vedranno ridotta la varietà di prodotti disponibili, che saranno valutati in funzione di profili nutrizionali e modalità produttive, di confezionamento e commercializzazione predeterminati per legge.

La stampa tace e tacerà, ma è di tutta evidenza che manipolare la nutrizione, il rapporto con il cibo che ogni popolo intrattiene secondo costumi antichi, che costituiscono parte importante della cultura materiale, è un attacco alla libertà individuale e alla dimensione comunitaria. Mangiare è ben altro che fornire alimenti al metabolismo. Il modo in cui mangia è un elemento essenziale di ogni comunità umana. La Commissione UE, inflessibile nello sforzo di omologare, rendere tutto uguale a profitto dei grandi produttori e del progetto globalista di distruzione di ogni identità, elenca ventisette misure destinate a cambiare la nostra dieta, a iniziare dalle pratiche di coltivazione e di allevamento sino ai dettaglianti di alimenti, per terminare con il finto destinatario delle misure, il consumatore, il cui compito è quello di pagare per tutti dimenticando secoli e millenni di tradizioni alimentari, cibandosi esclusivamente di ciò che ordina l’UE, in attesa di sdoganare la degustazione di insetti.

Come sempre, le buone intenzioni si sprecano: i burocrati di Bruxelles sono al servizio delle lobby, ma hanno a disposizione legioni di esperti incaricati di indorare la pillola, pardon presentare alla popolazione il nuovo modello di alimentazione come salutare, un esempio per il mondo intero, nuova normalità (un brivido corre lungo la schiena) frutto di progresso, scoperta decisiva per la sanità pubblica e individuale.

Agricoltori e allevatori sono sconcertati: potranno sopravvivere solo i giganti: la consueta volontà oligarchica del globalismo in ogni settore. Solo loro potranno ridurre della metà senza fallire l’uso di antibiotici e prodotti fitosanitari. Non aiuterà tutti gli altri l’espansione delle aree per l’agricoltura cosiddetta organica né l’ingegneria genetica verde. Ancora una volta, le norme europee, oltreché ispirate e forse scritte direttamente da pochi grandi, sono il prodotto di burocrazie estranee alla realtà. Gli agricoltori prevedono severe riduzioni nelle produzioni autoctone e in quelle di nicchia, con la conseguenza che le tavole europee saranno sempre più invase da cibo di paesi extracomunitari. Forse che aumentare la distanza tra il luogo di produzione e quello di consumo favorisce la sostenibilità, con il suoi carico di trasporti intercontinentali, idrocarburi, e tutto ciò che comporta la globalizzazione delle merci?

La strategia “from farm to fork” è stata presentata, significativamente, dai commissari alla salute e all’ambiente, escludendo quelli dell’agricoltura. La reazione dei produttori del Nord Europa è stata dura; chiedono che non si introducano ingiustificate proibizioni, ma si lavori piuttosto a prodotti di ausilio all’agricoltura e all’allevamento. Una volta ancora, nell’UE si parla a vanvera di biodiversità e di sostenibilità, perseguendo nei fatti politiche opposte. I requisiti europei, virtuosi, salutisti e soprattutto globalisti, bloccheranno il futuro dei produttori e dei dettaglianti di alimenti. Oggi i banchi di vendita permettono ancora di scegliere secondo gusti individuali e abitudini consolidate delle varie comunità. Questa libertà deve essere “regolata”, ovvero, di fatto, eliminata. Nella prospettiva di Bruxelles, le pratiche di produzione e marketing devono essere ridefinite secondo criteri di medicalizzazione della vita e di controllo centralizzato dell’alimentazione.

Gli alimenti autorizzati devono essere riformulati secondo prescrizioni e livelli nutrizionali con minimi e massimi prefissati. I protocolli fissati dal Grande Fratello alimentare restringono per legge l’uso di zucchero, sale e grassi. Le etichette apposte sui prodotti somiglieranno sempre più ai prospetti dei farmaci, i “bugiardini” le cui criptiche informazioni provengono esclusivamente dai fabbricanti. Nessun interesse per un’equilibrata educazione alimentare: meglio l’obbligo, la codificazione minuziosa che non risparmia più neppure l’atto più naturale della nostra esistenza, quello di mangiare e bere.

Non c’è possibilità , peraltro, che la regolamentazione segua i principi della scienza basata sull’evidenza: dal punto di vista del grumo di burocrati e di attivisti della sanificazione integrale della vita, non è necessario, in singolare coincidenza di interessi con la grande industria, il cui intento è espellere dal mercato piccoli e medi produttori, confezionatori e venditori, per controllare l’intera filiera secondo economia di scala, cioè omologazione dei gusti e quindi dei prodotti sul mercato. La domanda che rivolgiamo alla politica, per quello che ancora conta, è la seguente: le misure prospettate sono giuste, adeguate, o violano direttamente il diritto di libera scelta dei cittadini, dei produttori, delle comunità, per imporre un regole alimentare standard per l’umanità a taglia unica?

La civiltà del mangiare e del bere è parte inscindibile della visione della vita di ogni comunità. Non è assolutamente neutro decidere la composizione della colazione mattutina, del pranzo e della cena. Gli ideologi di un’alimentazione omologata, presentata come l’unica sana e sostenibile, non riconoscono che la maggior parte dei problemi che denunciano sono il frutto di comportamenti sociali malsani, determinati dal sistema che possiamo sintetizzare nella triade produci, consuma, crepa. Le nostre modalità di vita stressanti, competitive, fisicamente poco attive generano malattie, alterazioni del metabolismo e terribili guasti psicologici. A chi importa, se non a Big Pharma, che sulle malattie si arricchisce e a chi è deciso a obbligarci a un sistema di vita astrattamente salutare, ma concretamente privo di libertà, sino alla determinazione di indici di massa corporale stabiliti dalla legge?

Un mezzo che si è rivelato assai funzionale all’obiettivo è colpevolizzare ciascuno, rendendolo responsabile dei costi economici e sanitari di modi di vita che non sono oggetto di scelta, ma imposizioni dall’alto. L’intenzione è chiara: distruggere uno dei pochi spazi di libertà e di autodecisione – personale e comunitaria – quelli relativi all’alimentazione, obbligandoci al menù disegnato da lorsignori, a misura dell’economia di scala, con il ricatto della salvaguardia della salute e la virtuosa motivazione ecosostenibile.

Il coronavirus, con le sue drammatiche, persistenti conseguenze in termini di libertà quotidiana, avrebbe potuto determinare un maggior senso critico di massa, proprio per il pericolo incombente e i dispareri dei cosiddetti esperti, che tali non potevano essere, alle prese con una malattia nuova. Si è verificato l’esatto contrario, con un comportamento di gregge alimentato dalla paura, dall’enorme pressione mediatica e dalla stessa contraddittorietà dei pareri. Al di là dell’ovvia prudenza dinanzi all’ immediata minaccia alla propria vita, si immaginava che gli uomini – era l’illusione di alcuni mesi fa – avrebbero sviluppato anticorpi di libertà.

Non è accaduto; è diventato così più agevole giustificare nuove derive illiberali e francamente totalitarie. Neppure il cibo, come e che cosa mangiamo, è al riparo dagli attacchi. Paga di un destino salutista, benché zootecnico, l’umanità nova si farà piacere il pastone unico di una dieta controllata, antisettica, distribuita in confezione sigillata, perfettamente equilibrata secondo le prescrizioni dei Superiori, e odierà il casatiello, i tortellini, il ragù e il bicchiere di barbera. Schiavi soddisfatti in regola con colesterolo e glicemia, felici perché ancora in vita: questo stiamo diventando. Oltre Marcuse, ecco l’uomo a una dimensione, la sorvegliata futura umanità.

2 commenti su “Cibo e salute nell’illiberale società delle libertà”

  1. Purtroppo “libertà” è parola ambigua, che necessita di attributi per non essere una bella figliola fatta prostituire; e parola sporca, di per sé, è il termine “liberale”.

  2. Virginio Perra

    Non riusciranno nei loro intenti, sono troppo cerebrali e troppo autoreferenziali, troppo ambiziosi nella superba presunzione di sostituirsi al Creatore, invece che affiancarsi al Suo progetto. Per eterogenei dei fini sarà altro il risultato finale.
    Comunque sono già alcuni secoli che il potere finanziario, anonimo e internazionale, sta erodendo quello che invece trae origine dalla proprietà diffusa, grande o piccola che sia, e dalla produzione di beni materiali.
    E dire che anche ora, anche se meno di prima per maggiore consapevolezza e cognizione di causa, il capitalismo ha esercitato un fascino perverso e ingannatore sui borghesi, sui proprietari, sui piccoli industriali: la maggior parte sono scomparsi oppure sono diventati proletari; avere una proprietà non conta più niente.

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