Cinquant’anni di radical chic. E non è finita

Nel giugno 1970, giusto mezzo secolo fa, Tom Wolfe, scrittore americano, elegante dandy metropolitano, virginiano di nascita ma newyorchese sino al midollo, scrisse sulla rivista New York Magazine un articolo che fece epoca, in cui utilizzò un’espressione che si propagò immediatamente in tutto il mondo: radical chic. Non era ancora famoso, il quarantenne giornalista che avrebbe poi scritto fortunati romanzi come Il falò delle vanità (1987) e il fondamentale saggio sull’arte Maledetti architetti (1981). Nonostante decenni di lavoro inesausto, il brillante poligrafo sarà ricordato soprattutto per quell’articolo e quella fulminante definizione.

Aveva partecipato, rimanendo senza fiato, a un ricevimento dell’alta società colta di New York nel sontuoso appartamento, un attico della centralissima Park Avenue, del direttore d’orchestra di origine ebraica Leonard Bernstein, Lenny nell’insopportabile gergo riduzionista americano. La moglie Felicia, una protagonista dei salotti della Grande Mela, intendeva raccogliere fondi a favore delle Pantere Nere, movimento politico rivoluzionario marxista formato da giovani negri, oops, afroamericani. Era il tempo in cui lo spirito del 68, nato nelle università della costa occidentale americana, tracimato nel resto d’America e in Europa, diventava senso comune delle nuove generazioni.

I partecipanti, tutti ricchi, tutti appartenenti all’alta borghesia, gente di potere con conti in banca milionari, erano deliziati dalla presenza di qualche rivoluzionario irsuto, si lasciavano insultare, anzi sembravano felici di condividere l’odio delle Pantere Nere. Quell’odio era rivolto a se stessi, un anticipo dello spirito distruttivo della nostra civiltà che Roger Scruton all’inizio del secolo XXI avrebbe chiamato oicofobia. Amici del proprio nemico, disprezzatori di se stessi e del ceto i cui privilegi si guardavano bene dall’abbandonare, quei membri dell’upper class ebbero, da allora, una scintillante definizione collettiva: radical chic. Radicali sì, persino estremisti – naturalmente solo a parole- ma pur sempre chic, snob (che significa sine nobilitate, senza nobiltà…) raffinati, diversi dalla massa, dal populace che uno scrittore italiano, Gianrico Carofiglio, ha recentemente bollato come “sudata”, se partecipa a dimostrazioni sgradite alla sinistra.

Il radical chic non era che un gruppo alla moda, anzi à la page, che ostentava modi, vezzi, linguaggi di estrema sinistra, ma restava assai attento a mantenere i vantaggi della condizione di agio, di ricchezza economica, per niente disposta a condividerla con l’oggetto della sua ammirazione presbite, il popolo, i diseredati, i dannati della terra del libro di di Frantz Fanon, che inaugurò (1961) i fatidici anni Sessanta. Dalla parte del popolo, per la rivoluzione, ma sempre a debita distanza, lontani dalla vita vera, vestiti alla moda, serviti da camerieri in livrea, meglio se del Terzo Mondo e non in regola con la previdenza sociale. Pittoreschi, astuti imbroglioni, ma hanno vinto loro.

Tom Wolfe li smascherò, mostrò la loro ipocrisia, e, in qualche modo, indicò alla destra politica e culturale un sentiero d’attacco che, ahimè, rimase lettera morta. In Italia fu Indro Montanelli a riprendere i temi di Wolfe in un altro celebre articolo del 1972, sul Corriere della Sera, espressione della borghesia lombarda, da cui dovette andarsene per il repentino balzo a sinistra della linea editoriale, in sintonia con gli altri grandi quotidiani nazionali.

L’attacco era rivolto a Camilla Cederna, giornalista sinistrissima e borghesissima, animatrice dei salotti milanesi, ma probabilmente il vero obiettivo di Montanelli era Giulia Maria Crespi, la “zarina “milanese, espressione di una delle grandi famiglie della borghesia imprenditoriale, editrice del Corriere neo schierato a sinistra, apparentemente contro i suoi stessi interessi. Solo apparentemente, poiché in realtà in quegli anni si saldava, nell’intero Occidente, un’alleanza velenosa tra il dominante marxismo culturale- già ampiamente depurato dalla lotta contro la grande proprietà privata a seguito della lunga stagione egemonizzata dalla Scuola di Francoforte – e le classi alte, i grandi proprietari capitalisti diventati antiborghesi per mantenere meglio la presa sulla società e conservare, anzi aumentare, ricchezza e potere.

Un tipo umano, il radical chic, responsabile dello slittamento della sinistra dal versante operaista e dalla lotta anticapitalista a quello dei diritti di ogni minoranza presuntamente offesa, convogliandone le pulsioni verso un finto, generico, anelito al buonismo universale. L’anno successivo all’articolo di Tom Wolfe, John Lennon avrebbe scritto l’inno del relativismo post moderno, Imagine, un testo radical chic come il suo autore, trasferito a New York dalla natia Liverpool, ricco, tossicodipendente, burattino nelle mani della seconda moglie, l’intellettuale Yoko Ono, di cui addirittura assunse il cognome prima di essere ucciso a 40 anni da un ammiratore convinto che l’ex Beatle avesse tradito gli ideali della sua generazione. Immagina che non ci sia alcun paradiso; è facile se ci provi. Niente inferno sotto di noi, solo il cielo sopra di noi. Immagina tutte le persone vivere per oggi. Immagina che non ci siano paesi. Non è difficile da fare, niente per cui uccidere o morire e anche nessuna religione”. Il perfetto programma radical chic di una civilizzazione irresponsabile, estenuata, autoreferenziale, preda dell’odio di sé, nichilista.

Ha agito nel tempo un potente apparato culturale sostenuto da gruppi sociali di vertice, chinato esclusivamente sulle identità marginali. Negli ultimi decenni quelle identità sono diventate un terreno cruciale di scontro metapolitico. I diritti delle donne, degli stranieri, della comunità gay e di qualunque altra minoranza sono in cima ai programmi di tutti i partiti che si dicono di sinistra. Si tratta, sempre, di diritti – e capricci- di ceti abbienti, post borghesi: i radical chic, ammettiamolo senza timore, hanno sbaragliato il campo. Sono loro a dettare l’agenda politica e soprattutto quella dei costumi. Tom Wolfe e Montanelli, Raymond Aron in Francia, hanno suonato l’allarme invano. Nessuno si è levato in piedi per contrastare l’egemonia velenosa del radicalismo post borghese.

Luca Ricolfi, sociologo attento ai movimenti sismici della società, afferma che la sinistra – rimandiamo ad altra occasione il dibattito sull’equivoco significato del termine e del suo deuteragonista minore, destra – resiste e detta il passo per un’unica ragione, la formidabile capacità di travestimento, di assumere come un camaleonte o uno Zelig ogni ruolo e cavalcare qualsiasi cambiamento.

I “radical chic” di Wolfe sono i vincitori di mezzo secolo di kulturkampf, guerra culturale. La vecchia alta borghesia proprietaria comprese in anticipo che l’opinione pubblica post moderna, per essere governata e mantenuta sotto il tallone dei suoi interessi, doveva essere sedotta con parole d’ordine volte al cambiamento continuo, alle novità, al mito del progresso, all’effimero. Spazzare i residui dei principi di ieri – patria, famiglia, religione, lavoro, diritti e giustizia sociale, ordine morale e civile – avrebbe reso più agevoli le immense operazioni di ristrutturazione antropologica necessarie per perpetuare il potere nelle solite mani.

In Italia, maestro fu Giovanni Agnelli. Dopo aver letteralmente deportato in Piemonte migliaia e migliaia di famiglie ex contadine come mano d’opera per la Fiat, alle prime crisi – la “congiuntura” di fine anni 60 – fu bravissimo a scaricare i costi sul bilancio pubblico, realizzando un’intesa di lungo periodo con la sinistra politica, che stava abbandonando il mito comunista, e con i ceti intellettuali di ascendenza marxista, a cui vennero affidate la direzione dei giornali, della televisione, le più importanti cattedre universitarie e la guida delle istituzioni culturali.

All’epoca, la destra – e con essa la DC, occupata a difendere con i denti camere di commercio e casse di risparmio – non capì la portata strategica, storica, dei mutamenti di cui i gruppi “radical chic” erano banditori, limitandosi a deprecare o a criticare gli aspetti più ridicoli. Un’attitudine difensiva, pigra, impaurita, a cui la politica avversa alla sinistra non forniva rimedi né progettava alternative. I radical chic hanno trionfato per assenza dell’avversario, impegnato in ritirate strategiche, battaglie di retroguardia, pesca delle occasioni elettorali, pago, negli anni 80 dell’individualismo liberista di Reagan e della signora Thatcher. La destra ha difeso egregiamente i quattrini (ahimè, quelli altrui!) ma ha perduto per KO tecnico il controllo della cultura di massa.

L’esito è drammatico, e si condensa nel trionfo del politicamente corretto, ovvero il proibizionismo delle parole e dei pensieri, e nel nuovo vangelo, il razzismo antirazzista di cui vediamo il dilagare in questi giorni, con il caso di George Floyd. Mezzo secolo fa, la New York ricca e bianca finanziava comunisti di pelle nera in feste con abiti alla moda, commentando le novità della controcultura underground mentre sorseggiava cocktail serviti da impeccabili camerieri in livrea messicani, neri o asiatici. Oggi impone con successo di inginocchiarsi in memoria di una vittima che era però anche un pregiudicato pluri recidivo, volgarizzando un’idea perfettamente razzista, a parti rovesciate. Il poliziotto assassino, nella semplificazione emotiva, rappresenta tutti i bianchi maschi sfruttatori e violenti di ogni luogo e di tutti le epoche, il male assoluto, uniti contro Floyd, simbolo di tutti i neri di ogni tempo.

Il razzismo attribuito per estensione a ogni bianco, del quale si ha l’obbligo morale di depurarsi ponendosi in ginocchio, vergognandosi di abusi non commessi, diventa attributo dell’intera struttura sociale, qualcosa che oltrepassa la capacità di ciascuno di pensare in una maniera o in un ‘altra. Il razzismo – ur-razzismo, parafrasando l’ur-fascismo di Umberto Eco – sarebbe dunque un attributo relativo alla pelle, una condotta, un’ideologia legata alla razza (bianca).

Tale antirazzismo è sottilmente razzista. Denuncia un’intera comunità umana, quella bianca “caucasica”, alla quale attribuisce pensieri e istinti a cui non può sfuggire, se non negando in radice la sua identità. E’ il vecchio incallito razzismo ribaltato in autorazzismo. Per sopravvivere e trovare l’indispensabile nemico, si veste del suo contrario e riemerge con forza sconosciuta, ma sempre con lo spirito equivoco del ricevimento nell’attico di Lenny a New York City.

Il mondo radical chic, nella sua azione distruttiva, ha compreso che l’uomo è un animale simbolico, un essere che “chiama le cose con un altro nome” e sa condensare le realtà più vertiginose in oggetti e termini semplificati. Può simbolizzare l’amore in un anello o la patria in una bandiera. Ha bisogno di immagini che lo sostengano e proteggano contro l’orrore del vuoto, horror vacui. Ha distrutto simboli venerandi che quasi nessuno ha difeso, sapendo bene che quando si abbattono i simboli che uniscono – da alcuni anni è il turno delle statue e delle opere d’ingegno degli esecrati maschi bianchi eterosessuali – i popoli non tardano a rispondere ruggenti, come mandrie invasate, al richiamo della foresta.

Il materialismo di quei ceti ha sporcato la vita quotidiana di tutti, mettendo a profitto la tossica lezione del marchese de Sade, il più coerente teorico del male del XVIII secolo, per il quale, se si vuole allontanare gli uomini dalle realtà spirituali, la distruzione dei simboli risulta ben più efficace delle stragi. Spogliati dei simboli- ciò che richiama i principi – gli uomini diventano ciechi di fronte alle realtà che questi rammentavano. Alla cecità, alle tenebre, tuttavia, si può arrivare anche attraverso un sovraccarico di luce artificiale.

Cinquant’anni fa, la ricca borghesia capitalista, avviata a diventare “post”, domò la rivoluzione – vera o presunta – delle Pantere Nere, avvolgendola nelle sue spire, cooptandola nei suoi valori di cartapesta, riassunti nel simbolo del dollaro. Così avvenne per la pseudo rivoluzione del Sessantotto. Ucciso il padre, destituita l’autorità, gettati nel fango i simboli, ha mantenuto il mito del Progresso e sostituito l’uguaglianza economica- obiettivo del vecchio marxismo – con l’equivalenza. Delle idee, delle razze, delle civiltà, dei sessi, di tutto, eccetto il portafogli. In mezzo secolo, poco più di due generazioni, ci ha messo letteralmente in ginocchio, persuasi a detestare ciò che siamo. Loro, i radical chic per convenienza di classe, continuano brindare nelle loro terrazze. Hanno cambiato in arcobaleno il colore delle livree dei servitori, regnano su un gregge istupidito, ma hanno – più di prima – il mondo in mano.

Un applauso amaro a loro, vincitori di una civilizzazione finita, maledizione a chi non ha alzato un dito per combatterli. Come sempre, guai ai vinti, noi.

3 commenti su “Cinquant’anni di radical chic. E non è finita”

  1. Illuminante, perfetta sintesi della putrefazione culturale e valoriale alla quale ci costringono
    i Dem del mondo…

    1. Era inevitabile. Da una parte ci sono i miti che legano se stessi alle norme morali, amano la pace e temono lo scontro, dall’altra i violenti che svincolati da qualsiasi regola e senza alcun senso di reciprocità, praticano la lotta e odiano il diverso da sé. A chi possiamo attribuire le responsabilità: a nessuno piace il martirio, perciò siamo tutti responsabili, chi più e chi meno.

  2. Interessante analisi…
    Leggendo, attendevo però di giungere a una disamina di come e perché non bisognerebbe difendere o battersi perché siano ripristinati “i diritti delle donne, degli stranieri, della comunità gay e di ogni altra minoranza” e, aggiungo io, “i diritti dei lavoratori, precarizzati da circa un trentennio”. Può dirmi due parole delle sue? Grazie

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