Abbiamo sempre pensato che un atteggiamento sospettoso, se non di aperta ostilità e di contestazione ideologica nei confronti del tipo di governo denominato “democrazia”, pur considerando le varie, differenziate forme da questa assunta nella storia, fosse appannaggio della grande cultura politica della Destra, pur anch’essa diversificata e talvolta contraddittoria. La critica della democrazia, è ben noto, risale a Platone (“In ogni reazionario rivive Platone” ci ricorda Nicolás Gómez Dávila), che contro la democrazia ha scritto pagine tutt’ora attuali, ma anche ad Aristotele, che le preferiva un sistema misto (la democrazia greca aveva comunque ben poco a che vedere con quella attuale), come Polibio, che portava ad esempio il sistema romano.

Da citare ancora San Tommaso, Dante del De Monarchia, i grandi controrivoluzionari come Joseph de Maistre, Luis de Bonald, Donoso Cortes, e poi Charles Maurras (“Esiste un solo mezzo per migliorare la democrazia: distruggerla”), l’elitismo lucido e “scientifico” di Mosca e Pareto, la tradizione politica di buona parte dei cattolici ostili al concetto, e all’oggetto, di “democrazia cristiana” almeno fino al dopoguerra e al concilio. E ovviamente il Mussolini che irrideva i ludi cartacei e tutta l’intellettualità riconducibile alla Rivoluzione Conservatrice e alla Destra (fascista e no) europea tra le due guerre.

Grandi intellettuali hanno scritto aforismi memorabili contro la democrazia: “Curioso abuso della statistica” la definisce Jorge Luis Borges, e ancora Nicolás Gómez Dávila: “La democrazia è il sistema per il quale il giusto e l’ingiusto, il razionale e l’assurdo, l’umano e il bestiale si determinano non per la natura delle cose, ma per un processo elettorale”. Lapidario Emil Cioran: “Ogni democratico è un tiranno da operetta”. E si potrebbe continuare per pagine e pagine. Paradigmatico Julius Evola che, posto sotto processo dalla “neonata democrazia” nel 1950 per ricostituzione del partito fascista e accusato di antidemocrazia, rispose di avere l’onore di avere accanto a sé sul banco degli accusati Aristotele, Platone, Dante, Metternich, Bismarck, de Maistre e Donoso Cortes. Aggiungeva: “I miei principi sono solo quelli che prima della Rivoluzione francese ogni persona ben nata considerava sani e normali”.

Insomma, fino a qualche tempo fa si poteva ben ritenere che l’ostilità alla democrazia fosse tipica solo della “oscura reazione in agguato” e che la democrazia, nelle sue varie accezioni e aggettivazioni (rappresentativa, partecipativa, diretta, indiretta, deliberativa, liberale, popolare, socialista, capitalista eccetera) fosse ovviamente ben difesa da un “fronte democratico” di “buoni” ad amplissimo spettro, dai maoisti ai liberal-conservatori. In altri termini, era scontato, logico, indiscutibile che i democratici difendessero la democrazia.

Tuttavia, nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una recrudescenza di forti sentimenti antidemocratici con, talvolta subdoli, talvolta sfacciati attacchi al voto popolare da parte dell’universo cosiddetto liberal che, come è ben evidente dai fatti, di “liberale classico” non ha nulla (anche se diversi studiosi hanno ben messo in luce il sottofondo “illiberale” del liberalismo: è il caso, ad esempio, di Giuseppe Reguzzoni con il suo testo Il liberalismo illiberale). Non si tratta, in altri termini, dell’obiezione liberale classica e “storica” sui rischi totalitari della democrazia: Alexis de Tocqueville, ad esempio, che paventava “la dittatura della maggioranza”.

Il mondo liberal, definizione certamente imprecisa, almeno per la realtà italiana, nelle sue varie sfaccettature liberal-socialista, post-azionista, radicale, ultra-laicista, mondialista-globalista, anti-sovranista, anti-populista, neo-marxista, di generica sinistra, ha portato allo scoperto, senza più alcuna vergogna, le venature antidemocratiche che, talvolta sottotraccia e con qualche ipocrita mascheratura, l’hanno sempre caratterizzato. È di qualche lustro or sono l’ambigua frase di Norberto Bobbio, uno dei monumenti di quel mondo: “Nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia”. La critica alla democrazia e ai suoi sistemi (tipicamente il ricorso alle urne), da parte delle élite democratiche è esplosa aperta, manifesta, spesso sprezzante e astiosa.

Le cause scatenanti di questo coming out del pensiero antidemocratico dei liberal e della loro rabbiosa reazione è stata soprattutto la vittoria della Brexit in Gran Bretagna e di Trump negli Stati Uniti. In entrambi i casi i sondaggi (sulla cui reale indipendenza è lecito dubitare) davano entrambi ampliamente perdenti.

Effetto analogo si è avuto in Italia con i risultati delle ultime elezioni europee, con l’avanzata dei sovranisti. Ed ecco la reazione liberal scatenarsi scomposta contro gli elettori e l’istituto elettorale. Paradigmatica quella del giornalista “cosmopolita-mondialista” Beppe Severgnini, già anglofilo – o più precisamente “Londonofilo” – e ora viscerale fan dell’Unione Europea, cantore del famigerato, rovina-studi, godereccio e ludico “Programma Erasmus”, della relativa, esaltata “Generazione Erasmus”, dei falsificanti “settant’anni di pace garantiti dall’Unione Europea” e di tutta la melassa retorica progressista e mondialista.

Subito dopo i risultati della Brexit la prosa di Severgnini, persa l’aplomb british, è eruttata in una astiosa sequela di epiteti contro gli elettori britannici, anche basandosi su primi risultati, successivamente parzialmente corretti, che davano la Brexit vincente soprattutto nella “Inghilterra profonda” e minoritaria a Londra e tra i giovani. Si è trattato, secondo Severgnini, dello “sgambetto dei nonni alle nuove generazioni”, di una vittoria di una “Decrepita Alleanza” composta da “little Englander”, “campagnoli”, “cittadini meno istruiti”, “nostalgici”, vecchi ignoranti, insomma, contro giovani aperti, istruiti, cittadini, curiosi e, naturalmente, progressisti.

Severgnini sembra godere nel citare i commenti tragici, sfidanti ogni senso del ridicolo, di questi giovani maledicenti la democrazia referendaria: “Brexit è un lutto, per me”, “La mia generazione, soprattutto a Londra, dava per scontato di vivere in un paese cosmopolita”. Già, una Londra così multikulti e cosmopolita da far diventare gli inglesi una minoranza (solo il 44% dei londinesi si definisce “britannico bianco”), così cosmopolita da eleggere un sindaco, Sadiq Kahn, pakistano, islamico e di estrema sinistra. Certamente la proposta di Grillo di togliere il voto agli ultrasessantenni (ma l’idea non è originale del comico, è di un filosofo neomarxista: Philippe Van Parijs, sostenitore, tra l’altro del reddito di cittadinanza), avrà goduto dell’approvazione di Severgnini.

Questi non è stato certo il solo membro dell’establishment europoide a scatenarsi in questa orgia di insulti e di odio nei confronti di un popolo di elettori vecchi, brutti, ignoranti, “che votano con la pancia” (tutti gli elettori di destra votano “con la pancia”, quelli di sinistra con finissimo, cartesiano intelletto). Particolarmente distinti, per livello di rabbia e di turpiloquio politico, gli intellò francesi. Bernard-Henry Lévy ha definito la Brexit la “vittoria del sovranismo più rancido e del nazionalismo più stupido”, Jaques Attali, che il giornalista Renato Farina descrive come “uno di padri della estirpazione delle radici cristiane dalle carte fondative dell’Europa e che ha creato Macron”, ha parlato di “dittatura del populismo”, per Alain Minc, come per il biancocrinito giornalista italiano, si è trattato della vittoria “delle persone poco formate su quelle istruite” e l’ex sessantottardo Daniel Cohn-Bendit si è svelato sbraitando: “Ora basta con il popolo!”.

D’altronde, uno dei guru, dei santoni, degli oracoli delle santificate “istituzioni repubblicane”, Sabino Cassese, dall’impressionante curriculum di gran commis, giurista eccelso, docente nelle università di mezzo mondo, ministro, giudice costituzionale, consigliere in innumerevoli enti, presidente di banche, possibile candidato per il PD alla presidenza della repubblica, ha scritto un libro il cui titolo è una mezza confessione: La democrazia e i suoi limiti. È la traduzione, apparentemente pacata, in buon italiano, ben argomentata, degli insulti sopra citati. In particolare, con prosa mielata ma argomenti velenosi, insinua dubbi sull’istituto dei referendum: “possono svolgersi solo su un numero limitato di materie. E si prestano a manipolazioni”. E cita l’Economist, il settimanale delle lobby finanziario-mondialiste, secondo cui la democrazia diretta è diventata rivale della democrazia rappresentativa, con la conseguenza di mettere in pericolo la democrazia stessa.

Ascoltiamo un altro Grande della Repubblica, ben noto agli italiani e ai loro portafogli, Mario Monti, che un quotidiano non sospetto, considerato il suo sinistrismo, Il Fatto Quotidiano, ha definito “perfetto prodotto d’allevamento di quelle congreghe quali Bilderberg, Trilateral, Aspen e compagnia cantante in cui la democrazia è un impiccio dei tempi moderni”. Parlando del referendum sulla Brexit, Monti ha dichiarato: “David Cameron ha abusato della democrazia”, compiacendosi poi dei lacci costituzionali italiani: “Sono contento che la nostra Costituzione […] non prevede la consultazione popolare per la ratifica dei trattati internazionali”. Ed è di qualche tempo or sono questa sua dichiarazione: “La democrazia è una forma di governo sbagliata perché è assurdo che siano le pecore a guidare il pastore”.

Si potrebbe continuare a lungo con queste citazioni: aggiungiamo quella di Achille Occhetto che, in una recente intervista ha espresso l’elegante giudizio: “il popolo, senza mediazioni, è una brutta bestia. Dobbiamo cominciare a educare la gente”. Strano: pensavamo che già lo stessero facendo da decenni, avendo a disposizione tutto l’apparato mediatico, la scuola, l’università, le case editrici con cui ingannano, mistificano e disinformano. Interessante anche quanto ha dichiarato in diretta tv l’attuale ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, europarlamentare PD gradito alle élite tecnocratiche di Bruxelles, il quale, dopo aver esaltato Bella ciao (“è una canzone stupenda, italiana, europea e mondiale”), ha tagliato corto sul suffragio popolare: “Ci sono cose più importanti delle elezioni […]. I cittadini possono essere ingannati dalla propaganda”.

Queste riserve sulla democrazia si ritrovano, più o meno mascherate, su quel “Grande Quotidiano Unico Omologato” che va dal Manifesto al Corriere della Sera, passando ovviamente per La Stampa, Avvenire e Repubblica. Su La Stampa così gemeva Alberto Mingardi: “non sempre il demos, quando vota, si rivela all’altezza delle aspettative dei democratici. La Brexit è stata la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso”. Notate la raffinatezza di quel demos, per definire il popolaccio incolto e cattivo che delude le brave élite democratiche. E, pur prendendone le distanze, citava la proposta del filosofo liberale John Stuart Mill che sosteneva un suffragio “temperato” dal voto plurimo. “Le persone la cui opinione merita maggiore attenzione devono disporre di un voto più pesante”.

D’altronde questa idea di un “voto ponderato” è stata riproposta recentemente da tale Zambisa Moyo, economista coloured, nata in Zambia, ex Goldman Sachs, collaboratrice, ovviamente, del Wall Street Journal e del Financial Times, in un suo libro, Edge of Caos, in cui propone un voto a cui accedere previo un esame che stabilirebbe il “grado d’informazione” dell’elettore e quindi il “peso” del voto stesso (l’idea di un esame obbligatorio per votare è stata avanzata recentemente anche dallo scrittore progressista Fabio Volo). La stessa Moyo propone poi di votare “molto più di rado” per liberare i politici dalla “prigionia di una campagna elettorale permanente” perché: “Un ciclo economico è di quasi dieci anni, le elezioni sono quattro o cinque”.

Ciò che colpisce, in questo sabba verbale di sinceri democratici (e ovviamente “laici e antifascisti”) non sono le parole di critica alla democrazia. Persino un democratico ha diritto alle sue contraddizioni. Al limite ci si può chiedere se veramente un democratico sia democratico. Ma ammettiamo di non avere tutti i necessari “quarti di democrazia” per poter giudicare. Quello che veramente lascia attoniti è il grado di odio espresso da queste élite contro il popolo, volgare, rozzo, reazionario, difensore di istituti superati come la famiglia, la patria, la religione, il popolo stesso.

Un odio che si manifesta con espressioni di disprezzo inaudite, inviti alla rieducazione o perentorie richieste di limitazioni al diritto di voto. Christopher Larsch, sociologo statunitense, strenuo difensore della famiglia e delle comunità organiche e per questo accusato dai liberal di essere un populista reazionario, scrisse un libro, poco prima di morire nel 1994, destinato a fare scuola: La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, ove ben descriveva l’arroganza, fatta di potere senza responsabilità, delle élite contemporanee e della loro “rivolta contro il popolo”. Ce l’abbiamo sotto gli occhi.

5 commenti su “Democratici che odiano la democrazia”

    1. Penso che ormai quello (di Severgnini, per l’appunto) sia il livello culturale ed intellettuale dei nostri “democratici” di punta.

  1. Talmente democratici costoro che qui da noi imbastiscono persino un’opposizione contro l’opposizione, che percepiscono come maggioranza reale, e come tale una minaccia da bloccare, alla quale vogliono togliere la possibilità di dimostrarsi tale, con democratiche elezioni, in tal modo facendo vedere di avere davvero a cuore [!] la signora democrazia , che secondo quanto si vocifera sui testi loro sacri , è governo della maggioranza ( basta solo che non sia una maggioranza a loro non gradita, che non sia la volontà di “cittadini ingannati dalla propaganda” – altrui…).

  2. Don Pietro Roberto Minali

    Amo questo tipo di articoli in cui qualcuno definisce bene le cose che vedo sotto gli occhi ma che non saprei descrivere. Grazie di farmi sapere che non sono il solo a pensarla così…

  3. Articolo e analisi perfetta!
    Beppe Severgnini, la sua amicona Lilly Gruber e tutta la compagnia mediatica degli “pseudo-democratici” radical chic odiatori della democrazia (vera), che inorano l’umiltà, dovranno farsene una ragione.
    La brexit sarà solo l’inizio.

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