Dio li fa poi li appaia, l’antico proverbio ai tempi del virus

Cronache dal mio divano, pensieri oziosi di un ozioso forzato al tempo del contagio. Da Montelupo si vede la Capraia, Dio li fa e poi li appaia. un antico proverbio toscano, santa terra dei miei padri, risalente, secondo leggenda, a Dante stesso. Dal borgo È di Montelupo Fiorentino, famoso per le sue ceramiche e per un antico manicomio criminale, si vede la collina sulla riva opposta dell’Arno, la Capraia, appunto. In tempi di coronavirus, la saggezza popolare ci guida dal divano, postazione dalla quale attendiamo che passi la piena.

Dio le fa e poi le appaia, anche al femminile, così guadagniamo in linguaggio inclusivo e allontaniamo le accuse di sessismo della psicopolizia. La signora Ursula Van der Leyen ci ha rassicurato, dal pulpito di presidente della Commissione Europea, in un italiano da cabaret. L’Europa è una grande famiglia, ha affermato con teutonico sprezzo del ridicolo. Famiglia allargata, rovinata, arcobaleno, fatta di costellazioni incomunicabili, in attesa di divorzio, in lite per gli alimenti. Dal canto suo, Christine Lagarde, la sofisticata Madame parigina che concesse un’intervista al settimanale Elle in cui forniva indicazioni per rassodare il lato B, ha detto, in piena emergenza sanitaria accompagnata da furori borsistici e finanziari tutt’altro che eroici, che non è compito della Banca centrale europea, di cui è presidente, accorciare gli spread. Il tonfo successivo, con l’ondata di vendite su tutte le piazze, non le fa battere ciglio. Nessuna gaffe, statene certi. L’avvocato d’affari che ha scalato i grattacieli del denaro ha nervi saldi. Dice ciò che vuole dire. Intanto, qualcuno ha comprato a prezzi stracciati pezzi di economia, di industria e di sistema bancario. Il potere non cambia: l’equazione impazzita di Lotke-Volterra, lo schema matematico “preda- predatore” è in piena azione.

Dio le fa e poi le appaia anche per Frau Merkel e la stessa dolce Ursula. Ci vogliono così bene che bloccano alla frontiera germanica le mascherine di protezione, nel silenzio della paisà Van der Leyen. Gran bella coppia anche quella formata dalla cancelliera e da Emmanuel Macron, riuniti per parlare di coronavirus con la “prezzemolina” Van der Leyen, ma senza Conte, che, poveretto, è quel che è, ma resta il primo ministro della nazione più colpita dal Covid 19. Non si immischi: sanno loro come fare e come risolvere la situazione. Hanno ogni diritto a farsi i fatti nostri, chi si fa pecora, il lupo se la mangia, altro detto popolare tornato di moda.

Intanto, resta ignorato l’appello di ben 157 economisti italiani che chiedono a gran voce alcune bazzecole. Si tratta di proposte straordinarie, ma all’altezza del momento: finanziamento immediato dei sistemi sanitari dell’unione europea con aumento del personale e dei posti letto; sussidio di disoccupazione temporaneo per tutti i lavoratori a tempo indeterminato e a tempo determinato; indennizzo economico alle famiglie messe in quarantena domiciliare; sovvenzioni e apertura di credito alle imprese che devono sospendere l’attività produttiva a causa del Covid 19. Infine, un grande piano d’investimenti centrato su infrastrutture, ambiente e salute volto a rilanciare l’economia europea già fortemente colpita dalla crisi finanziaria e ora messa in ginocchio dall’emergenza sanitaria.

Un saggio del professor Federico Caffè, economista scomparso misteriosamente nel 1987, si intitolava significativamente “Ripudiare la borsa e socializzare la gestione del risparmio per tutelarlo e finanziare gli investimenti”. Altri tempi, adesso Dio fa e poi appaia i mercati e la finanza, i dioscuri che hanno gettato nel dimenticatoio una riflessione di Caffè, il maggior keynesiano d’Italia. “Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento distorsivo e vessatorio”. Caffè incrociava i ferri con il “recente riflusso neoliberista”, di cui diceva che “è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore”. Sbagliava, purtroppo: chi avrebbe pensato a costituzioni nazionali che contengono l’obbligo di pareggio di bilancio, prescrizione grottesca al tempo del virus, alla vittoria della scarsità- il monetarismo dell’austerità assassina- e alla creazione monetaria privata. Ha ragione Mère –la-Vertu Christine Lagarde, Madre Virtù. Non è a Francoforte che si combatte lo spread. Infatti è insensato un sistema monetario in cui un gruppo di Stati ha un’unica valuta, ma continua a emettere titoli del Tesoro nazionali. Tremonti fu trattato da fastidioso rompiscatole per aver richiesto gli Eurobond, ma oggi, per il miracolo dell’emergenza, l’idea viene rilanciata timidamente da Conte e con maggior forza da alcuni ambienti europei. “Oh, gran bontà dei cavalieri antiqui”, che hanno rimesso in circolo il buon senso. Si attendono risposte da Berlino, l’unica a guadagnare dal cambio fisso detto euro, abilissima a nascondere le sue marachelle di bilancio sotto il tappeto delle “bad bank”.

Eh, sì, Dio li fa e poi li appaia, Francia e Germania, il direttorio che esclude noi, uccide la Grecia, se ne stropiccia di quei terroni dell’Europa meridionale. Da un lato, la potenza manifatturiera vassalla degli Usa in cerca di valvassini nel suo lebensraum (lo spazio vitale della geopolitica tedesca) e di servi della gleba a sud delle Alpi. Dall’altro, una potenza decaduta, che mantiene la superbia di sempre per due motivi serissimi. Tiene sotto il tallone finanziario parte dell’Africa con il franco ex CFA – il cui controllo e i cui profitti di centinaia di miliardi annui si è ben guardata dal condividere con l’Unione Europea- e ha ancora un esercito proprio e, per merito di De Gaulle, una capacità di dissuasione nucleare, la force de frappe.

Noi non abbiamo nulla, neppure le mascherine negate da Frau Merkel dopo che la sua ventriloqua Van Der Leyen – più piacente e suadente della figlia di un pastore luterano cresciuta nella Germania comunista – ci ha riempito di frasi zuccherose. L’Europa ci ha lasciato soli nelle crisi migratorie, ci ha costretto a impoverirci; sarebbe strano che avesse manifestato solidarietà concreta all’Italia nella pandemia, la preda perfetta, mansueta, rassegnata come il coniglio in gabbia. La Germania ci ha sfilato un quarto del sistema produttivo, il suo rigorismo ci affossa, l’euro conviene solo a lei, addossa agli italianuzzi un po’ puzzolenti il cappio dello spread e si frega le mani dinanzi all’arma letale del Meccanismo Europeo di Solidarietà, mentre la Commissione, molto crucca e un po’ infranciosata, mette all’ordine del giorno tutto fuorché l’emergenza sanitaria.

Los von Rom, via da Roma, gridavano gli irredentisti altoatesini prima della scorpacciata di denaro italiano e di competenze concesse alla loro autonomia. Los von Berlin, los von Frankfurt (BCE), los von Brussel, dovremmo gridare noi, in tedesco così capiscono meglio. Sul divano, penso a Giuseppe Giusti, altro maledetto toscano: vostra eccellenza che mi sta in cagnesco, e mi gabella per anti tedesco perché metto le birbe alla berlina. E che birbe!

Dio li fa e poi li appaia vale per l’inclita signora Bonino, quella che usava le pompe per bicicletta per praticare aborti. La gran difenditrice della vita umana è preoccupata, nella presente contingenza, per i diritti dei “migranti”. Batte subito un colpo il portavoce dell’UE Adalbert Jahnz, polacco dal nome tedesco, il quale puntualizza piccato: la chiusura delle frontiere dell’Unione non vale per i “richiedenti asilo”, eufemismo politicamente corretto per definire i clandestini. Un collega, cacciatore appassionato, che ha pensato di emigrare in Turchia (“gente seria, là non si scherza con la legge!”) ripeteva spesso: la caccia è chiusa, ma non a chiave. Se vedo un amico peloso – così chiamava i cinghiali- io sparo lo stesso. La frontiera è chiusa, ma non a chiave. Europei brava gente.

Dio le fa e poi le appaia anche in Spagna, dove il virus si sta espandendo a velocità inquietante per l’inerzia del governo, che ha non solo permesso, ma promosso imponenti adunate femministe l’8 marzo. In testa al corteo, dietro uno striscione bellicoso, il ministro (ministra non lo scriverò mai) dell’Uguaglianza Irene Montero, con la vice presidente del governo Calvo e donna Begonia Gòmez, moglie del premier Pedro Sànchez. Le tre signore indossavano fiammanti sciarpe viola ed eleganti coppole del medesimo colore. Dichiaravano trionfanti pochi giorni or sono che il virus dell’eteropatriarcato miete più vittime del Covid 19. Adesso sono in cura, colpite dalla malattia. Forse c’è una giustizia per le Erinni di viola vestite, il colore del rancore, del malanimo e della quaresima.

E che dire della coppia formata da David Sassoli, inclito, sinistro presidente dell’europarlamento e dal ministro dell’economia italiano (italiano?) Gualtieri, gran sostenitore del Mes, eurolatra accanito, amico personale di madame Lagarde. I due si complimentano a vicenda per la diffusione di un video in cui si canta Bella Ciao contro il virus. Non sapevamo che l’epidemia fosse un po’ fascista, né che la canzone cara all’Anpi avesse proprietà taumaturgiche. Se così fosse, ci rassegneremmo a cantarla a squarciagola da poggiolo a poggiolo. Dopo la strage del Bataclan, la fiera reazione dei liberi, emancipati europei fu inondare di fiori e bigliettini le piazze. In quell’occasione, segretamente feci il tifo per i cattivi, che almeno non sono ridicoli.

Da Montelupo si vede la Capraia, e dal Cupolone, anzi da Santa Marta, domicilio dell’argentino Francisco, si scorge Largo Fochetti, storica sede di Repubblica. Bergoglio e Scalfari, i due papi, Dio li fa e poi li appaia. È uscita un’altra intervista di Francisco al super laico giornalone, stavolta sul coronavirus: banalità assortite, la stessa spiritualità della colonna vincente del Totocalcio d’antan, che però diffondeva un pizzico di euforica speranza. Diceva Mircea Eliade, il grande storico delle religioni rumeno, che la Chiesa ha i secoli contati. Non è vero, ma unicamente perché la pietra su cui è stata edificata l’ha posta uno che è risorto, per quanto non a favore di telecamera, come avrebbe preferito l’ineffabile superiore dei gesuiti, Sosa Abascal Servus Jesus.

Fatto sta che l’acclamata “chiesa in uscita” dell’argentino è rientrata precipitosamente nei suoi palazzi. Chiese, sacrestie, episcopi, tutti sigillati. Bergoglio e i suoi, tra i quali inseriamo il profeta Barbapapà, hanno pronunciato belle frasi allineate con la filosofia mondialista della sparizione delle frontiere, l’accoglienza indiscriminata degli stranieri, la cancellazione della tradizione, perfino la sparizione delle differenze tra le religioni, e la spiritualità “fai da te”. La Chiesa doveva trasformarsi in un ospedale da campo, i preti-pastori puzzare di pecora: nessuna “freddezza delle porte chiuse”, ma, al tempo del virus, contrordine, confratelli. Le chiese sono sprangate, le preghiere si dicono online, il virus val bene una messa. La fortezza è chiusa, somiglia sempre più alla Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari. Nessuno la assalta più, a nessuno interessa espugnarla, vuota com’è. Resta solo il tenente Drogo, sentinella perplessa o custode senza ordini. Lavatevi le mani, restate a casa, raccomandano anche i preti, gli stessi che esaltavano ieri la profezia a scapito della dottrina. Da profeti a influencer di nicchia per il target residuale dei cattolici.

In queste settimane ci capita di pensare alla letteratura per fanciulli. Defoe e il suo Robinson individualista e proto liberista, il Gulliver di Swift e le complessità del potere. Il nostro amato Pinocchio può essere letto in chiave molto più seria della semplice storia di un burattino di legno. Più che mai, nei tempi difficili, occorre diffidare del gatto e della volpe. “Lui è il gatto, ed io la volpe, siamo in società. Di noi ti puoi fidar. Puoi parlarci dei tuoi problemi, dei tuoi guai. I migliori, in questo campo siamo noi”. All’osteria del Gambero Rosso (ahi, un nome, un presagio), Pinocchio si fidò, loro mangiarono a più non posso e il conto restò all’ingenuo burattino. L’enorme bocca della Balena somiglia tanto al virus che inghiotte vita e salute, e la metafora del potere ricorda l’omino di burro, il cocchiere che raccoglie i bambini e li porta nel paese dei balocchi.

La sua descrizione, chissà perché, ricorda tanto Romano Prodi, l’uomo che ci ha condotto nudi alla meta, l’Europa. “Un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella di un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa”. Al contrario, era un personaggio perverso, sadico. Per punire i ciuchini indisciplinati tagliava loro le orecchie a morsi. Era un mercante di schiavi, in realtà, poiché i bambini nel paese dei balocchi finivano per trasformarsi in asinelli, che egli stesso provvedeva a vendere in fiere e mercati. La Fata Turchina assomiglia ben poco a madame Lagarde dalla fascinosa capigliatura grigio azzurra parigina, sedicesimo distretto, quello dell’élite. Quanto a Mangiafoco, del Gran Teatro dei Burattini, sembrerebbe Soros, il burattinaio della finanza, “un omone così brutto che metteva paura soltanto a guardarlo”. In realtà, Mangiafoco non era malvagio, era piuttosto uno spauracchio per gli ingenui, una caricatura per i gonzi, le sardine di oggi, l’immagine di Salvini veicolata dai media.

Gli omini di burro del potere al tempo del virus ci conducono in un paese dei balocchi nel quale, per incanto compaiono centinaia di miliardi, che, assicurano, serviranno per superare l’emergenza. Gli asinelli, come sempre, siamo noi, somari da vendere al mercato, con l’aiuto dei gatto e delle volpi di servizio. Forse saranno i miliardi del Mes, il famigerato meccanismo europeo di solidarietà. Guardiamoci sempre dai nomi pomposi, grondanti melassa, con cui battezzano le peggiori fregature. In quel caso, il Coronavirus sarà servito come il cacio sui maccheroni per darci il colpo di grazia. La Germania dichiara di mettere in campo fondi per 550 miliardi, senza attendere, ovvio, permessi da Bruxelles, il ministro francese Le Maire afferma di partire da 45-50 miliardi, poi si vedrà, persino Sànchez, con la moglie in quarantena, favoleggia di duecento miliardi da gettare in campo per salvare la Spagna. Con sorprendente sincerità, ammette di temere la perdita di un milione di posti di lavoro, una previsione ragionevole.

In Italia, il duo Conte- Gualtieri, Montelupo e la Capraia, pensa di cavarsela con 25. Dicono che la matematica non è un’opinione; se il nostro PIL è di circa 1.700 miliardi, ovvero 4,5 al dì, non è difficile scoprire che si tratta di spiccioli. Mussolini venne accusato con ragione di vantare otto milioni di baionette per combattere le ricche potenze dell’oro. Non potevano bastare e non bastarono, ma Conte e Gualtieri, che Dio ha fatto e per disgrazia appaiato, non sono capaci di procurare qualche milione di mascherine. Arrivano agli ospedali manufatti (ehm…) di carta igienica, mentre le forze dell’ordine sono sguinzagliate a smascherare i furbetti del quartierino che si aggirano nel rione adiacente al proprio, lasciando sostanzialmente liberi e impuniti i carcerati protagonisti delle sanguinose rivolte dei giorni scorsi.

Se l’Europa è il problema e non la soluzione, la classe dirigente politica di serventi (Gualtieri è amico personale di madame Lagarde, oui, bien sur) è nostra nemica. Da un lato, siamo contenti che il sovrano, decisore nello stato d’eccezione, sia di nuovo lo Stato nazionale, dall’altro guardiamo con terrore le facce che lo rappresentano. Ma lasciateci fare, siamo italiani. Con tutti i nostri difetti, nei momenti difficili diamo il meglio: basta non intralciarci troppo, non affliggerci con troppe regole e il potere impotente della burocrazia. Siamo capaci di produrre ben altro che mascherine e disinfettanti. Quando chiusero le frontiere economiche con le sanzioni, inventammo ogni sorta di prodotti, usi, riusi, surrogati. Paradossalmente, lasciate fare all’economia di Forcella, e ce ne fregheremo dell’indifferenza europoide, dell’egoismo antico dei tedeschi “lurchi”, come scrisse il padre Dante, mangioni; rideremo dell’arroganza farsesca dei valvassori francesi, e, vivaddio, anche dei nemici interni, sempre numerosi, dal tempo di guelfi e ghibellini.

Loro sono la maschera, noi il volto. #andràtuttobene, ripete lo slogan che circola, ma solo se ci lasciano fare. Non dobbiamo chiedere il permesso per vivere. Dei nostri soldi dobbiamo fare ciò che è giusto per uscire dal virus, prima, e dalla crisi economica che ci franerà addosso, dopo. Padroni delle nostre vite, della nostra terra, di noi stessi. Abbiamo un milione di limiti e problemi, ma, sovrani nella nostra casa, dove ci ingiungono di restare, Dio ci ha fatto e Dio ci ha “appaiato”. Essere italiani è un privilegio, una grazia da ripagare. Basta guardarli, quegli altri, troppi gatti e troppe volpi in società, per non fidarsi. Con i nostri soldi, con le nostre braccia, con il nostro cervello, ne verremo fuori, e magari troveremo le giuste terapie prima degli altri. Ma, per favore, via da Berlino via da Francoforte, via da Bruxelles. Restiamo tra Montelupo e la Capraia.

5 commenti su “Dio li fa poi li appaia, l’antico proverbio ai tempi del virus”

  1. Chissà, davvero, che i forzati riposi sui nostri divani a guardare ognuno il suo squarcio di cielo e di terra non facciano nascere, insieme a un sussulto d’orgoglio, la certezza di non essere figli di un dio minore, ma anzi i figli privilegiati del Dio Supremo che ci ha donato la terra più bella del mondo, invidiata da tutti e da tutti bramata. Vogliono fare di noi bottino con la complicità dei nostri patri traditori, ma combattiamo perché non l’abbiano vinta: soprattutto con l’unica arma che ora, fiaccati e atterriti ci resta: il Santo Rosario.
    E a Te, o Beato Giuseppe, nel giorno solenne della Tua festa, “…stretti dalla tribolazione ricorriamo… Allontana da noi la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo… assistici propizio dal Cielo in questa lotta contro il potere delle tenebre…
    e difendi la Santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità…”.
    E perdonaci perché nella nostra infinita pusillanimità anche la tua festa abbiamo osato cancellare.

    1. Ho uno struggente ricordo della tradizionale festa cittadina di San Giuseppe di tanti e tanti fa: ben vestiti, come di domenica, andavamo prima a Messa e poi alla fiera, la prima di primavera, con le bancarelle in piazza e il gelataio che in quel giorno col suo carrettino subito circondato da frotte di bimbi, faceva la sua prima uscita stagionale. Allora un bel cono non costava che venti lire, trenta, quando era davvero grosso, ma anche cinque per coloro che scarseggiando di soldi, affidandosi al buon cuore del venditore ne imploravano uno; e, seppur minuscolo, lo ottenevano sempre. Sui numerosi banchi merci di ogni genere facevano mostra di sé: scarpe all’ultimo grido giunte fresche fresche dalle già rinomate fabbriche vicine e stoffe variopinte per confezionare soprabiti e abiti di “mezza stagione” e poi dolcetti tipici e lupini, noccioline e semi di zucca salati e persino carrube che a me piacevano tanto. E le famose “coccette” che la mamma ci comprava sempre, come in un rito. Erano piccoli recipienti
      in ceramica povera, giochi per noi bambine da usare per dar da mangiare alle bambole e simili in tutto alle grandi brocche o tegami in uso ancora a quei tempi soprattutto nelle nostre campagne. Altra vita, modi di un mondo perduto che risuonava di antichi usi e lontane tradizioni, distinte, sì, ma in fondo simili da luogo a luogo della nostra amata Italia. E su tutto un sapore di vita genuina, di rispetto del bene, di valori familiari semplici e naturali, come naturale era dare un’impronta religiosa a tutto il vivere. Non un mondo idilliaco, certo, ma un’esistenza semplice e lineare, normale, insomma.
      Roba di mille anni fa. Inimmaginabili gli osceni e raccapriccianti stravolgimenti di oggi.

  2. In questi grigi giorni di semireclusione, un po’ di pensiero, un po’ d’ironia amara e sana. Un po’ d’aria fresca. Grazie, come sempre, all’Autore.

  3. Signor Pecchioli
    Non la inviteranno mai tv….😂😂

    Articolo da STAMPARE e affissare in tutti i comuni d’Italia

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