Distributismo: una certa idea dell’economia – di Matteo Mazzariol

LA PROPOSTA DISTRIBUTISTA E’ SORTA AGLI INIZI DEL ‘900 DA ALCUNI ILLUSTRI CATTOLICI (GILBERT KEITH CHESTERTON, HILAIRE BELLOC, PADRE VINCENT MCNABB) CHE, DALL’ANALISI DELLA “RERUM NOVARUM” (1891) DI LEONE XIII, HANNO ELABORATO UNA SERIE DI IMPORTANTI CONSIDERAZIONI SULLA “SACRALITA’ DELLA PROPRIETA’ PRIVATA, SULLA CENTRALITA’ DELLA FAMIGLIA, SULLA CORRETTA PARTECIPAZIONE AL BENE COMUNE”. NONOSTANTE CHE MOLTI DEI LORO TEMI SIANO STATI STUDIATI DA FILOSOFI, ECONOMISTI, TEOLOGI, PURTROPPO LA PROPOSTA DISTRIBUTISTA NON E’ ANCORA SUFFICIENTEMENTE CONOSCIUTA. CI PROPONIAMO QUINDI, CON UNA SERIE DI ARTICOLI, DI FAR PRESENTE QUANTO CONSIDERIAMO ANCORA UNA VISIONE CATTOLICA DA RISCOPRIRE, VALUTARE E ATTUALIZZARE.

 

Ci sono delle parole che , nei vari periodi storici, acquisiscono un’importanza centrale, paradigmatica: oggi, senza dubbio, è la parola “economia” ad assumere un ruolo fondamentale, tanto che chi se ne occupa è percepito in qualche modo come appartenente ad una casta sacerdotale investita di un ruolo sacro, quello appunto di ponte, di comunicazione tra i segreti dell’arte rivelata e la gente comune.

E’ quindi di primaria importanza capire bene che cosa si intenda con il termine “economia”.

La parola deriva dal greco antico “oikos”=casa e “nomos=legge”. Letteralmente quindi si tratta della scienza che studia la “legge della casa” e, per estensione, la legge che consente di gestire al meglio le risorse limitate in funzione del benessere della casa o famiglia, l’unità fondamentale e primigenia di ogni società naturale.

Fu Aristotele, nel IV sec. a.C., a precisare il concetto, distinguendolo nettamente da una sua deviazione, la cremastica o arte dell’accumulare denaro (dal greco antico “Kremata”=ricchezze).

Il distributismo, basato sul senso comune e la ragionevolezza, riprende appieno queste definizioni e ripropone con forza il significato originario del vocabolo “economia”.

Le implicazioni di tale scelta sono enormi e fondamentali, in quanto appunto costituiscono il fondamento in grado di orientare tutta la successiva riflessione economica.

L’”economia” intesa in senso distributista si basa infatti su alcuni punti essenziali:

1) Esiste un rapporto gerarchico, chiaro ed incontrovertibile, tra famiglia ed attività economica: prima viene la famiglia e poi, in funzione di questa, l’attività economica.  Tutto ciò è andato completamente perso nella definizione corrente di “economia”, che si avvicina invece in maniera consistente e preoccupante al significato di “cremastica”. Si dà infatti per scontato oggi, secondo gli assunti dogmatici e materialistici del capitalismo e del social-comunismo, che il fine primario dell’economia sia il profitto e la conseguenza marginale e secondaria di esso, attraverso la famosa “mano invisibile del mercato” o la mano pesante e visibilissima dello Stato. In questo i distributisti degli inizi del XX secolo – G.K.Chesterton, H.Belloc e Padre McNabb – furono davvero lungimiranti: avevano infatti intuito che capitalismo e social-comunismo, lungi dall’essere due entità incompatibili, sono in realtà due facce della stessa medaglia, ossia una visione materialistica che non distingue tra persona ed oggetto, tra famiglia e beni inanimati, e tende a trasformare l’uomo da essere libero in essere condizionato dai meccanismi numerici e meramente quantitativi delle cose. Non solo: la caratteristica comune forse più importante di capitalismo e materialismo sta – sostengono i distributisti – nel fatto che entrambi sono per la separazione di capitale e lavoro, di denaro e capacità lavorativa.  Tale separazione non può altro che essere foriera di gravissimi mali economico-sociali: infatti, se capitale e lavoro sono separati, la cupidigia umana non avrà più alcun freno perché collegata non ad una realtà limitata ed autolimitantesi – il lavoro ed i suoi prodotti – ma ad una realtà virtuale e contabile – il denaro – che potenzialmente non ha limiti di espansione e può tendere all’infinito. Se osserviamo la storia degli ultimi anni, questo è proprio quello che è successo. Non appena, verso la metà del XIV secolo, con il cedimento della diga che la Chiesa aveva imposto all’usura o prestito ad interesse, il capitale si è potuto separare dal lavoro, ha iniziato una perversa parabola ascendente, di natura esponenziale, realizzando prima il capitalismo mercantilista, poi quello industriale ed infine quello finanziario, in un progressivo processo di distacco dal reale, realizzatosi attraverso lo sfruttamento della fatica, delle risorse e delle capacità di milioni di persone. Invece che portare ad una sana ed equa distribuzione delle risorse in base ai meriti ed alle capacità di ciascuno, si è assistito ad una progressiva ed inesorabile concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi.

2) Così come la famiglia rappresenta una realtà naturale che deve essere tutelata dalle leggi e dalle norme ed intorno a cui si orienta l’economia, allo stesso modo esistono nella società dei corpi sociali naturali, pre-esistenti allo Stato e ad ogni astratta ideologia: sono i vari comparti che raggruppano tutte le persone che, a vario titolo e grado, svolgono una medesima funzione socio-lavorativa. Una economia sana ed ispirata al senso comune non può far altro che riconoscere a tale entità sociali una funzione centrale nello sviluppare un sistema economico-sociale stabile, armonico e prospero. Il distributismo sostiene quindi con forza che un’economia o è una economia corporativa, in cui le varie gilde e corporazioni di arti  e mestieri sono nella condizione di svolgere un ruolo importante e centrale, o rischia di essere esposta alle forze distruttive e speculative del capitale da una parte o al centralismo e alla burocrazia asfissiante ed inefficiente della macchina statale dall’altra. Il principio del sano corporativismo va quindi ripreso come motivo ispiratore e fondante di un’economia vicino alla gente, basata sull’ampia partecipazione, sulla responsabilità condivisa e diffusa e sulla centralità del merito e delle competenze che solo in questo modo possono essere garantite.

3) Su questa strada Aristotele, che si muoveva sulla stessa via del senso comune e della ragionevolezza abbracciata secoli dopo da San Tommaso e dai distributisti, trae una serie di conseguenze logiche ed inoppugnabili legate al denaro: se il fine dell’economia è la produzione di beni e servizi reali per il benessere integrale della famiglia e dei corpi intermedi, il denaro, che di per sé non è fruibile e la cui funzione essenziale è di facilitare gli scambi, fungendo anche da unità di misura per la determinazione dei prezzi, non potrà in alcun modo essere considerato come una merce, e quindi aver un suo prezzo od interesse, pena scardinare l’intero armonico sistema degli scambi e causare sperequazione, squilibrio, artificiale concentrazione del denaro nelle mani di pochi. Da cui la condanna piena e totale di qualsiasi interesse sul prestito – o usura – che, sulla base delle stesse considerazioni sensate, verrà ripresa con determinazione dalla Chiesa Cattolica. Durante tutto il medioevo la cattolicità considerò infatti il prestito ad interesse od usura un peccato mortale grave, in quanto vi era piena consapevolezza che essa rappresentava una ferita ed un cancro del corpo sociale in grado di provocarne la dissoluzione: la pratica del prestito ad interesse era percepita giustamente come incompatibile con il bene comune. I distributisti aggiunsero inoltre altre importanti considerazioni monetarie, legate agli sviluppi che la convenzione denaro ebbe nei secoli. Fu infatti a loro chiarissimo che il sistema monetario allora vigente, di cui l’attuale è solo uno sviluppo, rappresentava un’offesa ai principi fondamentali del senso comune e della ragionevolezza: parlo cioè del denaro-debito, quel meccanismo perverso per cui, dopo secoli di aspre lotte, il sistema bancario privato, a partire dal 1694, anno di fondazione della Banca d’Inghilterra, riuscì ad ottenere il monopolio assoluto dell’emissione monetaria, imponendo di fatto la propria moneta privata   allo Stato, con conseguenze disastrose per le finanze pubbliche, il debito pubblico e privato, il livello di tassazione. I distributisti quindi ribadiscono con energia oggi che non è possibile comprendere e tanto meno risolvere problemi enormi quali quelli del debito endemico, della tassazione esosa, della perenne instabilità economica senza affrontare di petto la realtà del denaro-debito bancario.

4) Il distributismo ritiene pertanto che non esista qualcosa come un’economia neutra e valorialmente asettica in quanto ogni decisione che ha a che fare con l’utilizzo di risorse limitate è di fatto una decisione morale che tocca il destino degli uomini e che non può quindi prescindere dalle categorie di bene e male. Risulta così evidente che l’economia non possa non avere una base morale.

Il “laissez-faire” capitalista e lo statalismo social-comunista non possono quindi essere considerati costrutti moralmente neutri, in quanto presuppongono l’uno che la società sia costituita da un insieme di atomi privi di legami significativi tra di loro e l’altro che la società sia una massa di individui indifferenziati che possano essere gestiti solo da un  forte potere centrale: entrambi per esempio misconoscono il ruolo centrale della famiglia e dei corpi intermedi e quindi svilupperanno il loro discorso teorico su presupposti fallaci e poco aderenti del reale, con gravi e nefaste conseguenze sul piano pratico.

In sintesi, quindi, le premesse fondamentali della visione economico-sociale distributista sono fondamentalmente quattro:

–              centralità della famiglia come unità indissolubile tra un uomo e una donna;

–              centralità dell’unione tra capitale e lavoro, e cioè della massima possibile diffusione dal basso della

proprietà produttiva;

–              centralità dei corpi intermedi naturali, cioè delle libere aggregazioni per comparto lavorativo;

–              necessità di attuare una riforma monetaria che metta definitivamente al bando l’interesse sul

denaro ed il denaro-debito.

Sottostante a questi quattro paradigmi vi è la convinzione che ogni teoria e prassi economica non possa prescindere da una insopprimibile dimensione morale.

Quanto tale visione complessiva sia lontana dalle ideologie oggi dominanti e quanto costituisca di per sé un paradigma alternativo rispetto ad esse, in grado di indicare, sulla base della ragionevolezza e del senso comune, una direzione di marcia completamente diversa, penso sia chiaro a chiunque.

 

 

8 commenti su “Distributismo: una certa idea dell’economia – di Matteo Mazzariol”

  1. Horacio Teodoro Parenti

    Questi confondono el comunismo con lo stalinismo. Non hanno letto a Marx. Stalin disse. “Non ho mai letto Il Capitale” 🙂

    1. jb Mirabile-caruso

      Veda, signor Baldr da Thule, noi Cattolici dovremmo prendere atto del fatto che l’espressione “uso sociale della proprietà privata” contiene una irresolvibile contraddizione: se noi, infatti, traduciamo il termine ‘sociale’ in ‘bene comune’ ed il termine ‘privato’ in ‘bene privato’, ci accorgiamo subito dell’errore che abbiamo fatto: quello di aver definito ‘bene’ due cose una delle quali, in realtà, è ‘male’, e, quindi, inconciliabili per loro stessa natura.

      Bene e Male non sono compatibili, così come compatibili non sono Cielo e Terra quando quest’ultima decide di scindersi dal Cielo ergendosi a suo stesso dio. La contraddizione di cui stiamo parlando, quindi, può trovare la sua soluzione solo percorrendo a ritroso i nostri stessi passi quando noi Cattolici abbiamo commesso l’errore di concedere la cosiddetta ‘laicità’ dello Stato Civile il quale, in Verità, altro non può oggettivamente essere se non il riflesso della Chiesa di Cristo.

      Siamo nel vivo della crisi presente della Chiesa: stiamo pagando il prezzo altissimo di un commesso errore madornale.

  2. No! E’ proprietà privata! Poi al cristiano è chiesto di donare in libertà (quando e quanto!) per aiutare gli altri. Per una società libera oltre alla possibilità di accedere all’istruzione ci vorrebbe anche libero accesso alla professione. Ma tra farmacisti e notai siamo ancora alle corporazioni medievali.

  3. L’arte dell’accumulo di denaro si dovrebbe dire “crematistica”, mentre nel testo per un refuso è chiamata “cremastica”.

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