Elogio dell’appartenenza al tempo del mondialismo apolide. Intervista a Roberto Pecchioli sul suo nuovo libro

Ha per titolo Elogio dell’appartenenza e per sottotitolo Identità comunità e amor di Patria al tempo del mondialismo apolide. Roberto Pecchioli non poteva trovare un tema più scorretto per il suo nuovo libro (Passaggio al Bosco, 310 pagine, 16 euro). Si tratta di una appassionata controlettura dei nostri tempi e delle cause che ci hanno portato al definitivo imbarbarimento. Ne abbiamo parlato con lui in questa chiacchierata.

Il libro si presenta nella forma di una lettera a un italiano nato nel 2020 e, fin dal principio, dici di ispirarti alla Lettera a un soldato della classe ’60 di Robert Brasillach. Nulla mi toglie dalla testa che questi tempi siano ben peggiori di quelli pur tremendi in cui scriveva il poeta francese, sul finire della seconda guerra mondiale. Che cosa vuoi dire a un italiano nato oggi?
In effetti, il titolo che avrei voluto per questo lavoro è Lettera a un italiano della classe 2020. Sulle orme di Brasillach, fucilato per collaborazionismo, il libro si propone di offrire a un italiano che nasce e cresce in questo tempo un orizzonte diverso da quello in cui vive: un mondo in cui esiste una comunità che condivide principi comuni, che ha ricevuto un ‘eredità da trasmettere a sua volta. Quali principi? Dio, patria, famiglia, libertà, lavoro ben fatto, storia.

Insomma, prospetti di pensare a un altro mondo che qualcuno potrebbe definire “vecchio”, ma che si potrebbe anche dire “nuovissimo” visto che non ha nulla a che fare con quello contemporaneo o, se si preferisce postmoderno. Oltre ai giovani che avranno vent’anni nel 2040, e tremo al solo pensiero di cosa saranno, parli anche agli italiani di oggi, e tremo al pensiero di cosa sono. Cosa ti ha spinto a farlo?
Il libro nasce da un moto di ribellione davanti a un panorama tremendo: una Chiesa senza Dio, una patria senza bandiera, una lingua ferita a morte da ridicoli anglicismi (bail in, recovery fund, persino open school per descrivere l’apertura delle scuole alle famiglie), il fatto di non riconoscere più la nostra gente per strada, i panorami sfregiati, la bellezza lordata, la verità capovolta. Mi fa male il mio paese, dico all’inizio, citando Brasillach. Ma fa male a qualcun altro? La domanda mi ha trapassato l’anima e si è trasformata in libro. Appartenere è essere. Per Simone Weil l’identità è una delle più potenti esigenze dell’anima.

È dentro questo aspetto inestirpabile del vivere umano che collochi l’analisi del comunitarismo. Quale strada hai seguito?
Ho cercato di descrivere una comunità con capitoli specifici sulla forma politica del comunitarismo, nelle sue varie declinazioni, parlando di autori assai diversi, da Sandel a Mc Intyre sino a Costanzo Preve e Adriano Olivetti. I titoli dei 23 capitoli sono altrettanti segnavia. C’è un mondo ridotto a “codici a barre”, che non riconosce e non sa neppure che esiste Itaca.

Ho descritto un abbecedario dell’appartenenza e pronunciato, seguendo Régis Debray, intellettuale francese con un passato di ultrasinistra, un elogio dei confini. Ho ricordato il ruolo di un grande poeta cristiano, Eliot, in un capitolo che rimanda alla sua “Terra desolata”: Guasto è il mondo. Un mondo guasto senza Dio, di uomini impagliati, uguali, in cui anche la chiesa parla solo di abbattere muri e gettare ponti. Menzogne ripetute all’infinito che diventano verità per generazioni lobotomizzate. Ma per costruire ponti, occorre che ci sia vita su entrambe le sponde. Nella nostra, c’è vita, oltre il baccano?

Ma parli anche di economia.
Sì, un po’, poiché se ci sono valori comuni, ci devono essere anche beni comuni, un patrimonio concreto che è di un popolo intero, non di pochi iperpadroni. Affermo che il multiculturalismo non è la chiave universale che apre le porte di un mondo nuovo, ma la tomba della comunità e anche della società, poiché rinchiude in bolle identitarie irritate, offese, nemiche, prive di un centro.

Nel’ultima parte ripasso brevemente la storia d’Italia, una grande nazione culturale nata da almeno 800 anni, nel Duecento di San Francesco, Dante, San Tommaso d’Aquino. Penso poi a Guido Monaco che inventa la scrittura musicale, alla città di Siena che ritrae negli affreschi di Lorenzetti l’allegoria e gli effetti del Buon Governo e nel 1309 scrive il “Costituto”, uno statuto civico dove si parla anche di bellezza e di cultura. È anche l’epoca che ha forgiato il nostro carattere negativo: guelfi e ghibellini, nemici interni pronti all’alleanza con lo straniero pur di combattere l’avversario “domestico”. L’Italia del “particulare”, della maschere di Arlecchino e Pulcinella, servitori di due padroni, gabbamondo gabbati.

E, invece che vivere di questa eredità, ci troviamo a vivere in questa società liquida che non è in grado di dire nulla. Anzi dice il Nulla. Mi chiedo, ancora una volta, a chi si rivolge uno che scrive un libro come Elogio dell’appartenenza?
La post modernità non ha voce: è maniera, rimasuglio. È fondamentalmente autistica. Lo è anche perché manca l’identità, il riconoscimento in qualcosa. Per questo motivo, il libro è stato anche un’impresa molto faticosa. In effetti, il vero dramma per chi accende il computer e scrive è porsi la domanda: qualcuno mi capirà, avrà interesse per i temi. E ancora: quale linguaggio, quale codice comune devo utilizzare (ma esiste?) quali corde devo sollecitare per essere almeno compreso? Appartenere vuol dire condividere codici comuni con molti altri, guardare e vedere le stesse cose, chiamarle con lo stesso nome, giudicarle con i medesimi criteri. Il timore che ho sperimentato scrivendo e rileggendo è l’assenza di questo sostrato comune. C’è urgenza di ricrearlo, di tornare al “noi”.

Ho cercato anche di sostenermi su citazioni, scritti, idee, frasi di personaggi celebri. Un saggio ha anche il compito di provocare nel lettore il desiderio di nuovi approfondimenti, ambisce a “far pensare”. Altra cosa è che ci riesca, naturalmente. Ho anche tentato, immagino con modesti risultati, di scrivere “bene”. Ovvero, non di inondare il lettore di paroloni difficili (qualcuno c’è, spero spiegato nell’ampio apparato di note), ma di offrirgli un testo gradevole, scorrevole pur nell’asperità dei temi, utilizzando al meglio delle mie capacità uno strumento bellissimo e difficile: la nostra lingua, anch’essa minacciata di estinzione.

In un punto, citi una frase di Ivo Andric, l’autore del “Ponte sulla Drina”: “per chiudere una pagina di storia, bisogna prima averla letta”. Non lo si fa più oggi?
Il dramma è che chiudiamo non le pagine, ma i libri e i secoli con indifferenza, senza leggerli e tanto meno capirli. Spaventa l’indifferenza, lo sbadiglio che accoglie ogni accenno alla storia, al passato comune, alla tradizione; in nome di che? Del Nulla, o di un progresso mitizzato il cui unico merito è di venire “dopo”. Il progresso è confuso con il consumo – anche di se stessi – con l’odiernità, ossia con il regno del presente “puntinista”, senza padri e senza figli.

Mi pare che oggi, oltre a negare i padri, si voglia anche negare di essere figli. Che futuro può avere una società così combinata?
Nel libro cerco di riaffermare che tutti siamo figli di qualcosa e di qualcuno: dunque siamo anche eredi. Lo scrisse San Paolo a proposito della comune condizione di figli di Dio, ma la sua lezione sembra dissolta.

Eppure tu vuoi lasciare qualcosa di tuo…
Alla fine, il libro è anche un testamento. Ho 65 anni, e sono giunto alla conclusione che i giovani sono molto più sfortunati di me: vivono in un mondo senza bussola, in cui è imperativo non credere in nulla e insieme è obbligatorio prestar fede alle panzane più incredibili diffuse dal potere. Di più: è proibito “essere”, basta consumare, avere, soprattutto non pensare. La mia generazione ha avuto una fortuna enorme: ha potuto vedere, all’alba della vita, il “mondo di ieri”, annusarlo, sentirlo. Poi tutto ha cominciato a crollare. I cocci sono quelli che vediamo nella vita di tutti i giorni: egoismo, competitività, disprezzo per la vita, indifferenza per gli altri – usa e getta – violenza, nessuna “buona vita”, ma abbiamo la “buona morte “. Vogliamo essere liberi, ma liberi “per” che cosa e persino “da” che cosa?

Che cosa significa, dunque, appartenere?
Appartenere significa portare un fardello all’interno del quale ci sono cose buone e cattive. Ma senza, che vita è? Nudi, non più viaggiatori (homo viator), ma turisti casuali della vita. Amo alcuni quadri, che mi sarebbe piaciuto inserire tra le pagine per spiegare il senso del libro con l’immediatezza universale dell’arte. “La torre di Babele” di Pieter Bruegel il Vecchio, la babilonia infernale in cui hanno trasformato il mondo, in cui ciascuno parla una lingua incomprensibile a tutti gli altri. Poi il quadro di Caspar David Friedrich “Il viandante sul mare di nebbia”: oltre la nebbia, dentro il grigio, c’è ancora un mondo da riscoprire e da ri-suscitare. Mi viene in mente un terzo dipinto (ho una profonda passione per l’arte figurativa, che si ferma tuttavia alle soglie della modernità che ha proibito la forma): “Crono che divora i suoi figli” di Goya. Mi sembra il ritratto della modernità insieme al “Sonno della ragione genera mostri”, un altro dei Capricci del grande aragonese. Sonno della ragione mi pare la cifra negativa della post modernità a cui, nel mio piccolo, mi sono ribellato con “Elogio dell’appartenenza”. Che cosa c’è di più ragionevole, di più razionale, che “appartenere”, ovvero sentirsi parte di qualcosa?

L’ultimo capitolo si intitola “Lettera e testamento”. Che cosa può lasciare uno come noi a un italiano che avrà 20 nel 2040?
Un testamento si propone di lasciare in eredità dei beni materiali: anche l’appartenenza, la cultura, la lingua, la fede, la comunità sono beni, per quanto immateriali. Una delle tragedie del nostro tempo è appunto il rifiuto di ricevere eredità, poiché tutto ciò che viene dal passato è ritenuto oscuro, orribile. Siamo nati oggi, moriremo stasera: un dramma tremendo. Il rimedio è credere, appartenere, trasmettere ciò che si è ricevuto con in più quello che si è realizzato. Ma quali sono le realizzazioni di questo tempo bastardo degne di essere consegnate ai nostri (pochi) figli?

6 commenti su “Elogio dell’appartenenza al tempo del mondialismo apolide. Intervista a Roberto Pecchioli sul suo nuovo libro”

  1. Bellissimo.
    Sei un grande intellettuale (hai perfino citato Eliot con “the hollow men”, gli uomini vuoti o cavi, letto dal colonnello Kurtz in Apocalypse Now; fa parte di The waste land o è uno scritto autonomo ?).
    Hai fatto solo un errore, grave per un cristiano, ma che ti perdono se scrivi un libro specifico, che solo tu al momento puoi fare in Italia: la civiltà cristiana ed europea si sviluppa qualche secolo prima del 1200, con San Benedetto, è lui che tiene insieme la Chiesa e la Patria, la Città di Dio e quella dell’Uomo, terrena, obbligando il chierico e l’intellettuale ad occuparsi insieme della biblioteca e degli studi e della cura dei corpi, dal vino alla farmacia, dal grano alla gestione complessiva dei fondi agricoli, con i suoi monasteri “integrali”. La sua Regola rimane al centro di ogni dibattito, seppure nascosta per paura.
    L’Europa e l’Occidente crollano nella Chiesa, nello Stato, nell’economia quando le funzioni si separano e i chierici tradiscono, dopo l’ultimo tentativo di San Bernardo di santificare anche la guerra. Arriveremo, caduta dopo caduta, al capitalismo politico contemporaneo.
    Per favore, scrivilo tu che puoi questo libro. Mauro

    1. Il mio quarto figlio è nato pochi giorni fa’, anche io tremo quando penso cosa sarà il mondo nel 2040,ma la mia speranza è in Dio, faccio quel che posso e per il resto mi affido a Lui.

  2. Quando usiamo una lingua (avvilita, ma ancora unica) apparteniamo già a una cultura nostra tradizionale; quando riconosciamo un’arte italiana e i suoi grandi autori (distinti da uno stile comune); quando parliamo di bellezze di città, borghi, paesaggi, di cucina, di usi italiani, ci distinguiamo e siamo nazione nonostante tutto: è difficile distruggere questa identità. Tutta la falsità estranea e contraria, per quanto seducente e corruttrice, introdotta con scuola, politica, diritto infame, cultura cosmopolita, non ce la fa. Il vecchio diritto abbastanza sano, la vecchia Religione, i vecchi costumi, agiscono nel subcosciente e possono riemergere: non già in virtù di un democratico sistema delle fazioni e del conseguente eccessivo ricorso alla corruzione dei costumi. Dante non fu democratico, e nemmeno lo fu San Tommaso d’Aquino. E non furono personaggi che nei loro giudizi si facessero condizionare dai tempi e dalle mode.

  3. Bella intervista. Concordo su tutto, compreso il fatto che questa società come questa chiesa è morta e non possibile rianimarla e che si debba comunque lasciare in eredità qualcosa di buono.

  4. Analisi perfetta. Penso che tutto nasca dal tradimento dei chierici che qui da noi in occidente non è roba di questi ultimi decenni. Se non ricordo male, Alessandro Gnocchi aveva parlato tempo fa di una crisi che si evidenzia già in epoca comunale e quindi circa mille anni fa. Sarebbe interessante approfondire questo discorso.

  5. Carissimi, non posso che aderire al 1000% all’articolo dell’eccezionale PECCHIOLI, e anche a tutti i commenti!
    Spero e prego che il Signore vi ricompensi adeguatamente.
    GRAZIE GRAZIE GRAZIE GRAZIE…….

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