Esistono “parti buone” in una macchina per uccidere come la legge 194? – di Marisa Orecchia

Una vicenda piemontese: l’accesso dei volontari dei CAV nei consultori familiari, pur prevista dalla normativa regionale, viene nei fatti impedito dal muro di gomma di una burocrazia che quando si tratti di difendere la vita riesce ad essere ancora più lenta del solito. La 194 ha creato e messo in funzione  un mostruoso Moloch che tutto sacrifica ad una ideologia  di morte.

di Marisa Orecchia (*)

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cnsltrSe ancora  ce ne fosse bisogno,  ecco l’ennesima riprova  di quanto sia illusorio pensare di   contrastare l’aborto volontario  grazie alle “parti buone” della  legge 194.

A riprova, una  vicenda tutta piemontese, ma emblematica  di una situazione diffusa,  nella quale l’aborto non solo è un diritto della donna, ma  nulla deve  essere messo in atto  per scalfirne l’autodeterminazione, neppure quando appare  con tutta evidenza che  a spingerla all’aborto sono pesanti condizionamenti  della più svariata natura.

I fatti.

Subito dopo le elezioni regionali  del 2010, il governatore Roberto Cota, a seguito del Patto per la vita e la famiglia, siglato in campagna elettorale con Federvita Piemonte, modifica  il protocollo per il “Percorso assistenziale per la donna  che richiede l’interruzione volontaria della gravidanza”, fino ad allora in vigore, a firma della radicale Bresso, che attuava  canali di  facilitazione  per l’aborto in genere e in modo speciale  delle minorenni, per le quali promuoveva  la contraccezione  in un’ottica di banalizzazione della sessualità. Il  percorso assistenziale  della delibera Cota invece, nel tentativo di  contenere l’aborto volontario, recepisce una precisa richiesta di Federvita Piemonte e consente  l’accesso dei volontari dei Centri di Aiuto alla vita (CAV) nei consultori familiari  e la loro partecipazione  al colloquio  previsto dalla 194, della donna che  chiede di abortire, sempre che lei lo consenta.

La delibera  provoca a Torino una sollevazione imponente di  gruppi femministi  e  centri sociali  nonché un ricorso al TAR  da parte di due associazioni femministe  che si dicono discriminate in quanto  l’accesso  ai Consultori  familiari viene consentito ai soli CAV, con esclusione  di altro  associazionismo  rivolto alla donna. A ricorso accolto, la Giunta Cota  modifica il protocollo per l’aborto nel senso richiesto dalle ricorrenti. Non solo i CAV, ma  anche  volontari  di altre associazioni che si occupano di  donne e famiglia potranno  trovare posto  nei Consultori. Un successivo ricorso delle stesse, definitivamente respinto, mette fine alla questione e la delibera può entrare finalmente in vigore. I volontari potranno svolgere la loro opera di sostegno alla maternità problematica nelle strutture pubbliche delle ASL , nei Consultori familiari, come già previsto dall’art.2  della legge 194.

Tutto bene, allora?  Magari.

Ha inizio da allora un lungo, snervante braccio di ferro con le Istituzioni, a livello centrale, dove la stampa per la  modulistica  attraverso cui i CAV possono  presentare le  credenziali e  accreditarsi richiede quasi un anno di tempo e, dopo una serie interminabile di solleciti, viene resa  pubblica e disponibile  a pochi giorni dalla scadenza dei termini per l’accreditamento stesso. I CAV non si  perdono d’animo e arrivano in tempo.  Le richieste  di accreditamento sono accolte: i CAV hanno  prerogative e titolo necessari, sono interlocutori  validi e riconosciuti.

All’accreditamento deve seguire la convenzione, come  da delibera che recita “le ASL procedano alla stipula delle convenzioni di cui alla DGR n. 21-807 del 15.10.2010 previa verifica del possesso dei necessari requisiti…”  e qui tutto si blocca. Nessun CAV ha ottenuto la convenzione che deve, come da delibera, stabilire tempi e modalità di  collaborazione.

Quello che si  sono trovati di fronte i volontari  è il classico  muro di gomma dove la fantasia dei singoli  funzionari e impiegati  delle ASL ha dato il meglio di sé per trovare scuse, per procrastinare, per rifiutare, dove il  funzionario con  cui si è trattato fino al giorno prima  sparisce improvvisamente e non si fa più trovare, dove i tempi si allungano  a dismisura  nella speranza che il CAV si stanchi e lasci perdere. Non un rifiuto netto e motivato contro il quale sarebbe  anche possibile fare un ricorso, ma una situazione liquida, fatta di  Tranquilli-vi-chiamiamo-se-abbiamo bisogno, Le-donne-che-non-sembrano-intenzionate-ad-abortire-ve-le-mandiamo-al-CAV, Qui-non- abbiamo-spazio, e via dicendo.

Su  questa situazione ha fatto il punto  il 29 marzo a Torino Federvita Piemonte, nel corso di una riunione dei CAV e dei Movimenti per la Vita, costretti a constatare  ancora una volta che la legge 194 non lascia spazio  alla prevenzione, allorché la donna abbia imboccato  la strada  del Consultorio familiare o di altri presidi sanitari.

E se la situazione piemontese si presenta così  deteriorata nei confronti dell’accoglienza alla vita nascente, non si può dire che il  restante dell’Italia stia meglio. Tolta qualche lodevole eccezione da tempo in atto in Lombardia, si contano  sulle dita  delle mani  gli esempi di convenzione ASL/CAV nel nostro Paese.  Esistono, sì, realtà in cui il volontario pro vita può accedere  al consultorio  o all’ospedale, per circostanze fortuite,  conoscenze occasionali di medici, infermieri, ostetriche, assistenti sociali, situazioni che  danno buoni frutti di prevenzione dell’aborto volontario, ma che durano finché le circostanze che le hanno provocate non mutino.

Con ciò  si dimostra ancora una volta  che l’art. 2 della legge 194, anche quando è ripreso e fatto proprio da normative regionali non  trova  attuazione. Con buona pace  di quanti continuano a sostenere  che la  legge 194 ha  parti buone, umanitarie, che danno una chance ad ogni vita e  che occorre applicare per scongiurare l’aborto.

Sono forse i volontari pro life che devono applicare le parti buone della 194?

O non, invece, strutture organizzate e messe a punto per uccidere?

Chi afferma che basta applicare le parti buone della 194 sa quello che dice?

Sa che parla di una legge che, oltre ad aver provocato quasi  sei milioni di vittime, ha generato  e diffuso  ad ogni livello  una mentalità di morte?  Che ha creato e messo in funzione  un mostruoso  Moloch che tutto sacrifica ad una ideologia  di morte?

Che senso ha allora, ci si chiede, continuare ad affermare che  occorre applicare le parti buone della 194  e rilanciarla come un’idea nuova alla quale occorre affidarsi per sconfiggere l’aborto?

 .

(*) Presidente di Federvita Piemonte

4 commenti su “Esistono “parti buone” in una macchina per uccidere come la legge 194? – di Marisa Orecchia”

  1. La dr. ssa Orecchia ha tristemente ragione.
    Dispiace solo che a rispolverare il concetto di ” abortismo umanitario ” – una evidente contraddizione in termini – siano studiosi di indubbio ed acclarato valore.

  2. Piero Vassallo

    Gentile Dottoressa Orecchia, il cancro italiano ha un nome e un cognome: “sovranità popolare”. Se la maggioranza decide di sopprimere la vita innocente urlando crucifige! la minoranza deve inchinarsi e fare la punta ai chiodi. La stupidità di alcuni cattolici militanti (disgraziatamente) in politica arriva al punto estremo: abbinare l’obbediernza al Vangelo all’obbedienza alla costituzione italiana. Risultati dell’infelice e iniquo abbinamento sono la rinuncia all’opposizione alla corruzione e l’insignificanza (ultimamente disneyana: Topolino a Palazzo Chigi) dei cattolici democratici. Non è per un caso che troviamo la Bindi festante nella schiera degli ammiratori del Forteto…

  3. Fabio Trevisani

    Dispiace soprattutto che i bambini continuano a morire, e colpisce che quasi nessuno provi nemmeno il rimorso nella coscienza per la responsabilità che si assume. Il Signore abbia pietà di noi.

  4. sono per l’abolizione della “194” tramite referendum e collaboro con il comitato “No 194” che organizza il primo corteo nazionale a Milano sabato 12 aprile p.za Cadorna dalle ore 15 alle ore 18. spero di conoscere anche qualcuno di voi!

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