L’eutanasia è l’eufemismo dietro cui si nasconde la soppressione legalizzata, a spese del contribuente e col patrocinio dello Stato, degli individui considerati inutili, o improduttivi, o semplicemente troppo costosi – e poi magari anche (visto che ci siamo) di quelli ritenuti scomodi o pericolosi per la stabilità sociale.
Per convincere l’opinione pubblica della bontà della pratica occisiva è bastato spacciare l’oppio della pietà fasulla – il presunto bene della vittima, il “miglior interesse” del soggetto da eliminare – così che, addormentata insieme alla coscienza anche la ragione, uno non sia più in grado di distinguere un atto di misericordia da un delitto; e di capire come, così, si imbocchi la via maestra per consegnare all’arbitrio del potere non solo la vita di chi sia stato indotto in qualche modo a rinunciarvi, ma anche quella di chi la sua la vorrebbe vivere fino in fondo. Il nuovo concetto da assimilare è che la dignità dell’uomo si identifica con il suo benessere, e questo vada inteso come autonomia psicofisica ed economica, come vita “di qualità”.
Lo Stato cavalca da decenni il programma della eutanasia per gli italiani. Lo fa attraverso le trombe della propaganda mediatica e, giuridicamente, attraverso l’attacco concentrico – mosso insieme dalla politica e dalla magistratura, dalle alte cariche istituzionali tanto quanto dalla chiesa – alle norme di garanzia poste dal fu legislatore a presidio del bene sommo della vita, come quella che punisce l’aiuto al suicidio o l’omicidio del consenziente.
Ma lo Stato ha in agenda anche l’eutanasia dell’Italia, cioè del corpo e dell’anima di una nazione. Non è una frase a effetto. Basta leggere il recente documento governativo intitolato “Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027” per rendersi conto che vengono utilizzati la stessa retorica e lo stesso gergo con i quali si promuove l’amorevole accompagnamento a morire di un essere umano.
“Aree interne” è un’espressione vaga e asettica con cui si definiscono 4.000 comuni che, situati in tutte le Regioni italiane, condividono la caratteristica di trovarsi a una certa distanza dai grandi agglomerati urbani, dove nel frattempo sono stati radunati tutti i servizi essenziali quali scuole, ospedali, centri commerciali, mezzi pubblici (e perché sennò starebbero implacabilmente chiudendo tante piccole strutture territoriali floride e funzionanti?). Non ci vive poca gente, nelle “aree interne”: nel complesso, circa 13 milioni di italiani, cioè ben il 23% della popolazione, un cittadino della Repubblica su quattro.
Su questi luoghi per anni è aleggiata la fumosa retorica del “rilancio”, con qualche parvenza di investimento capace, sulla carta, di infondere loro rinnovata vitalità. Ora non più. La vera volontà dello Stato si è slatentizzata con la pronuncia di una sentenza di condanna a morte. “Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile”. “Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza». «Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”. Sta tutto scritto nel documento PNSAI.
Impossibile non notare qui l’assonanza totale, testuale, letterale, con il linguaggio dell’eutanasia. È proprio così: lo Stato moderno non persegue soltanto la dolce morte dei suoi cittadini, ma perfino quella di ampie porzioni del Paese reale. Un’eutanasia collettiva, un’eutanasia geografica, un’eutanasia civile. Lo Stato spopolatore – un concetto che avrebbe dovuto essere chiaro da sempre ai sedicenti pro-life se fossero intelligenti, o anche solo onesti – ora non ha più il pudore di nascondersi: in nome del popolo italiano, esso stabilisce che almeno un quarto della propria terra vada deumanizzata, devitalizzata, cancellata. Per il suo bene e per il bene della collettività.
E che quel che resta della popolazione, secondo il grande imperativo dell’era kalergica, vada fatta migrare. Migranti interni: cioè, secondo definizione, «sfollati». Da mettere dove? Da mettere nelle megalopoli.
Perché la città metropolitana (nome che per chissà quale ragione è stato affibbiato ad alcune province) è ben più di un insieme di palazzi e di persone, di vie e di piazze e di chiese: è forse il più grande progetto di ingegneria sociale del XXI secolo. La città è diventata il luogo deputato a concentrare – sì, proprio come nei campi – la popolazione, al fine di controllarla. Quando parlano di smart city, o città di 15 minuti, intendono precisamente questo: un luogo di biosorveglianza elettronica totale sull’essere umano, nella prospettiva del credito sociale. E pazienza per quelli, che non sono nemmeno pochi, che avrebbero voluto scappare in mezzo ai monti o alla campagna per sfuggire al logorio della morsa urbana. Se la mettessero via.
C’è da capire che non si tratta di una improvvisa levata di ingegno di un governo in cerca di sopravvivere. Si tratta dell’ossequioso tributo a un piano globale risalente che, nel periodo in cui ancora i disegni egemonici di una élite predatrice e assassina erano al di fuori dei radar dei più, si chiamava Agenda 21: il «piano d’azione per lo sviluppo sostenibile» uscito dalla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro nel 1992.
In quegli anni, una immobiliarista californiana di nome Rosa Koire notò come il suo stesso lavoro (che prevedeva la vendita di abitazioni nelle zone extraurbane dove la tipica famiglia piccolo-medio borghese americana ambisce a farsi la casetta) fosse profondamente intaccato dalla trasformazione in atto, con tanto di veri e propri agenti sguinzagliati nelle istituzioni locali e nel tessuto sociale per assicurare ad essa buon fine. Il suo libro Behind the Green Mask: U.N. Agenda 21 («Dietro la maschera verde: l’Agenda 21 dell’ONU») dettaglia l’orrore di questo immenso progetto concepito a tavolino per deportare la popolazione rurale e schiacciarla nelle città.
L’abbandono programmato di ciò che si trova al di fuori dallo spazio cittadino produce risultati visibili ad occhio nudo: borghi fantasma, case diroccate, rovine edilizie, strade che spariscono conquistate dalla natura. Laddove c’era l’uomo arrivano le bestie feroci. Ricchi oligarchi comprano distese di terreno per popolarle di grandi predatori, deterrente notevole per le famiglie appassionate di pic-nic. Se ci pensiamo, non è uno scenario molto lontano da quanto stiamo vedendo in Italia con il grande ritorno dell’orso o del lupo: la bestia selvatica può essere a suo modo uno strumento di eutanasia geografica, di cancellazione dell’umanità dalle «aree interne».
In qualche maniera, quindi, era tutto già scritto. Eppure, si rimane sconvolti dalla brutalità con cui il governo espone il piano di spopolamento di aree enormi, che hanno – tutte! – alle proprie spalle una storia millenaria fatta di terra e di uomini, di racconti e di spirito. Del resto, la Finestra di Overton sullo Stato, e il Superstato, che ci considera superflui è aperta da tempo: da tempo il malthusianesimo, più o meno camuffato, fa da colonna sonora ai programmi delle scuole di ogni ordine e grado dove si inculca un senso terminale dell’esistenza e si pratica subdolamente (ma neanche troppo) il culto della morte. Ora si è spalancata anche un’altra finestra, sulla necessità di vivere sotto una rete capillare di controllo biotecnologico, alla quale la tessera verde ci ha abituato e che l’euro digitale renderà impossibile da scansare.
Col favore dell’estate e del silenzio sono proclamati terminali, a cuore ancora battente, quattromila organismi sociali giudicati per decreto senza speranza.
Vogliono l’eutanasia dell’essere umano e l’eutanasia delle comunità nelle quali si esprime. L’eutanasia della geografia e della memoria di un paese intero. Soprattutto, vogliono l’eutanasia della sua libertà. L’Occidente, punto cardinale del tramonto, interpreta alla lettera il suo nome e il destino che vi sta scritto dentro.