Fate cucinare il risotto alla Intelligenza Artificiale

Così come in casa non si ha più voglia di cucinare perché è sufficiente ficcare a casaccio le pietanze nel nuovissimo trabiccolo roteante, allo stesso modo i manager hanno imparato a usare l’intelligenza artificiale per preparare e per tenere le proprie relazioni di lavoro, devo dire quasi prima di quanto abbiano fatto i ragazzi con gli elaborati scolastici. Perché sforzarsi di pensare, quando si può dare una correzione veloce a un elaborato dell’AI? Perché persino la fatica di scopiazzare, quando è tanto più comodo far scopiazzare all’AI? In fondo, perché no? Perché cucinare un risotto all’onda, quando lo trovi bell’e pronto per la fine dell’ultimo programma demenziale alla tv?

Il verme è nel frutto. Nemmeno il mito della velocità regge più ormai, nella graduatoria delle priorità, la velocità è declassata a epifenomeno quasi scontato del bene maggiore: la comodità. La comodità è stato il vero grande idolo post moderno, come se tutti fossimo irretiti in un meccanismo coatto pseudo-marinettiano per cui siamo costretti a ottenere il massimo risultato con la massima comodità fruibile. Il tutto infarcito generosamente della crema ideologica del momento. Il vuoto del nichilismo non sta in piedi senza adeguato riempimento di stupidaggini più o meno sofisticamente motivate. Per cui, non è narrativa politicamente proponibile una signora che prepari il risotto più di quanto uno schiavo che raccolga il cotone. È simpliciter sessista immaginare una donna cucinare il risotto. È prerogativa di chi la pensa diversamente, però, sapere per certo che una docente affiderà un tema in classe sul sessismo dell’intelligenza artificiale con voce femminile. È, dunque, sessista considerare scema una docente che ragiona così? Provate a credere all’intelligenza artificiale.

Il dramma vero della tecnologia, però, non sta in cucina. Chi non si avvede del pericolo dato dall’intelligenza artificiale è soltanto un ottuso conservatore pronto a lagnarsi della scuola di Pioltello di turno. La quale scuola di Pioltello di turno, per inciso, ha fatto benissimo a chiudere per il ramadan islamico. Prima non procreate perché “una donna non è una mamma” (le femministe vere avrebbero a suo tempo detto con l’eleganza che le contraddistingue “non è una fattrice”), poi imbarcate mezza Africa per pulirvi i gabinetti, perché “una donna non è una serva”, e ora vi stupite che a scuola son tutti maomettani? Festeggiano, fanno il couscous e fanno bene. Ma magari il problema della scuola fosse la trasformazione in madrassa! La scuola sforna ogni anno batterie di giovanotti benpensanti che né pensano né vanno a batterie, ma sono tuttavia conditi come paella di ideologie preconfezionate da altri, ora pure sulle magnifiche sorti dell’intelligenza artificiale. Tutto corredato da certificato del Ministero della Pubblica Istruzione, un po’ come il pazzo che crede di essere il direttore del manicomio. Il lato positivo è che d’ora in poi nessun docente sarà più in grado di stabilire con certezza se il compito che ha sottomano sia un prodotto umano o meno. Non resterà che abolire la valutazione scolastica, percorso sul quale il Ministero stesso si è già da anni ottimamente incamminato, in favore di qualche incomprensibile relazione psicoattitudinale, magari d’ora in poi fatta rosolare all’AI. Così, compiuto grano a grano il salto etico, dal giudizio sul prodotto in classe al giudizio sul produttore, avranno preparato per tempo le generazioni future al concetto di uomo-merce, gestito dall’algoritmo e sorvegliato dall’androide del caso.

Servirebbe un anti-allucinogeno collettivo che disintossichi ora, prima che sia troppo tardi, dall’informazione organizzata, servirebbe un lucidogeno. Una “red pill” di Matrix, prima di Matrix.

Ma prima di correre dallo psichiatra o gettarsi dal cavalcavia, occorre mantenere la calma e riflettere su una domanda. Un androide è un simulacro? La Treccani dice: “Simulacro: s. m. [dal lat. simulacrum «figura, statua», der. di simulare «raffigurare in forma simile»], letter. – 1. Statua, immagine, spec. di divinità…”

Ciò perché, come spesso accade, si rischia di espandere il problema per dare importanza alla soluzione. Una dinamica, questa, ben nota ai lavoratori generici: l’importanza del lavoro svolto è direttamente proporzionale al tempo impiegato per terminarlo. Ergo, basta gonfiare il tempo per gonfiarsi le tasche. C’è, però, un’altra proporzionalità di cui tener conto: l’intelligenza sta all’intelligenza artificiale, come una persona sta all’androide. L’androide non è intelligente e non è una persona, non so se ridondante ricordarlo, ma ricombinare 26 lettere o 2 cifre all’infinito non fa di te un essere umano quanto non è possibile scrivere i Fratelli Karamazov pescando all’infinito le lettere da una borsa.

Non così immediato, invece, ricordare l’Apocalisse di Giovanni, che forse parla proprio di questo argomento: «Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia» (Apocalisse 13,15). Non possiamo esserne certi, rimane il fatto che questa smania forsennata di alterazione della realtà porta a una società di alterati, sfasati, spostati. L’adulterazione della realtà, dalla scuola al frigo, per cui dall’intelligenza alla carne tutto è sintetico rischia di divenire il paradigma socio-culturale del nuovo millennio in ragione del quale, paradossalmente, tutto odora di marcio.

Gli innegabili vantaggi dati dall’intelligenza artificiale in vari campi, per esempio in medicina, sono umanamente irrisori se posati sulla bilancia dei rischi: per salvare qualche vita si corre verso l’obsolescenza del lavoratore generico, la perdita definitiva del poco know how, del saper come fare le cose, un tempo patrimonio di ogni casalinga e uomo di casa, che ancora rimane alle giovani generazioni, perse nella confusione dei sessi, dei cartelli stradali, delle ricette della cucina fusion.

E siccome ogni tipo di società fa il suo tipo di guerra, come ha insegnato anche Luraghi, sia concessa pur con la fugacità di uno sguardo la causalità diretta secondo la quale chi vuole la diffusione globale delle reti neurali artificiali si debba preparere ad accogliere il futuro distopico dei Terminator e dei Blade Runner.

Forse la distopia è già diffusa nelle menti di chi governa la nave dei pazzi, o, per meglio dire, il treno dei pazzi sui binari d’acciaio del dogmatismo progressista, più di quanto non si voglia ammettere comunemente. Il sorridente dottor Asimov ha avuto un bel sottoporre i robot a un codice di condotta morale negli anni ’50. Negli anni ’50 i robot erano i tostapane.

Il problema però è umano, troppo umano, per incolpare gli androidi: nell’immaginario di uno scienziato non credente, ovvero una scientista, Dio non è altro che un immenso dottor Frankenstein trasparente. Forse aveva ragione Philip Dick, l’inventore del prossimo millennio, per cui lo scientista è solo una schizoide paludato di sapere. Alla fine, lo scientista è un poveraccio convinto, per il fatto che il proprio corpo è composto per il 70% di banale acqua, sia solo il modulo di sopravvivenza dei propri geni. Pertanto, è scientificamente persuaso del fatto che il pensare umano, tecnicamente il filosofare, non sia che un accidente casuale e non previsto nella natura della chimica neuronale.

Una visione metallica e patetica della vita, fortunatamente sconfitta dal fatto che c’è un Dio d’amore al di sopra di questo demiurgo sadico immaginato dalla scienza, per cui tutto accade come se una forza maligna si prendesse gioco di noi per poi farci scappar via come topi scervellati. E una forza inarrestabile, un principio vitale dentro di noi che ci fa cucinare un risotto all’onda il cui gusto proviene dalla passione umana quanto dalla tecnica culinaria. Perché, anche se si può andare avanti tirando a campare, per avere una vita buona non basta semplicemente ingoiare carburante, bisogna proprio che sia buono.

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