“FUORI MODA” – un viaggio con Alessandro Gnocchi nel Mondo piccolo di Guareschi/VI

Cari amici,

prendiamoci un po’ di tempo per ristorare la nostra anima, il nostro cuore e il nostro cervello. Non permettiamo all’orrore e allo squallore che ci assillano ogni giorno di avere la meglio su di noi. Per questo, nel corso dell’estate vi invito a un viaggio nel Mondo piccolo di Guareschi. Nei secoli scorsi, aristocratici, grandi borghesi e intellettuali compivano un Grand Tour di formazione in Europa che li conduceva inevitabilmente ai piedi della modernità, caduca e miserabile. Noi, in fondo al nostro Petit Tour, avremo gli occhi colmi di ciò che non muore. Fuori moda.

Buon viaggio

Alessandro Gnocchi

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Viaggio a Mondo piccolo – sesto giorno

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Terminato il racconto della prova, Guareschi non si attarda a descrivere il ritorno a casa del patriarca. La “Prima storia” è fatta di gesti, non di percorsi, di clamori o di acclamazioni. E’ puro rito.

Ma, se si vuole immaginare lo sguardo di quell’uomo, si può andare sulla riva del grande fiume. Passato l’argine maestro, tra Zibello e Ragazzola, lungo una strada di terra battuta, si incontra quel che resta di una maestà, una di quelle cappellette con pitturate sopra le immagini dei santi, quasi tutte dedicate alla Madonna. Di questa è rimasto poco più che niente. Un po’ di mattoni e un po’ di calce che hanno terminato di officiare le lodi all’eterno non hanno più bisogno di attenzione e di pietà. E poi due occhi messi di lato, sulla destra, che dovevano essere di un personaggio in adorazione: uno esaltato dalla luce, l’altro balenante nell’ombra, appartengono a un altro mondo e non vedono altro. E quando si posano sulle cose materiali ne dicono solo la bellezza. Occhi come questi non possono essere sfuggiti a Guareschi nel suo peregrinare per la Bassa in cerca di destini da raccontare e di facce che li incarnassero.

La figura del padre di Chico sembra costruita attorno a quello sguardo, che ricorda con forza inquietante quello del San Francesco di Francisco de Zubaràn. L’immagine dell’uomo in piedi, con la testa coperta dal cappuccio, le mani nascoste nelle maniche dell’abito e lo sguardo al cielo dipinta dal pittore spagnolo non rappresenta il santo da vivo, ma il suo corpo incorrotto dopo la morte, come fu trovato nella cripta di Assisi.

Abitualmente, il ritrovamento di Francesco viene dipinto come un episodio narrativo. Zubaràn, preferisce mostrare il santo isolato, eretto come una scultura modellata dalla luce mentre emerge misteriosamente da una tenebra densa. Solo il viso, la cui metà è divorata dall’ombra, appare di carne. L’occhio, folle d’amore, è rivolto verso il cielo. Tutto concorre a testimoniare la manifestazione corporea di qualcuno che torna dal mondo dei morti. Epifania priva di note terrifiche poiché l’anima è colma di serenità soprannaturale e beatitudine: carne mummificata e, insieme, segno di gloria.

Tale deve essere l’apparizione del patriarca di ritorno al Boscaccio. Quell’uomo, forse senza saperlo, guarda il mondo con occhi già offerti al Signore su un muro di calcinacci poco di là dall’argine. Si è resa necessaria la sapienza letteraria di Guareschi per celebrare in una storia ciò che non potrà mai interessare un critico d’arte. Del resto, Mondo piccolo è una cappella di campagna dove trovano rifugio le creature scartate dal corso della grande storia.

Fra le più struggenti, quella di Giaròn, il carrettiere folle e bestemmiatore ridotto a parlare soltanto con il suo cavallo, Menelik, che presta la sua anima e il suo nome al racconto. A Fontanelle, poco lontano da quella in cui è nato Guareschi, c’è ancora la casa del carrettiere. E lì attorno serpenteggia la Strada Quarta su cui l’uomo navigava con il barroccio dalle ruote immense e vertiginose come le sue bestemmie e il suo dolore.

Come il padre di Chico, Giaròn ha rinunciato a tutto. Ha perso i figli, la moglie. Ha perso il mondo ed è tentato dalla disperazione di ritrovarlo. Ha compiuto il movimento dell’infinità, ma non si decide a quello della finitezza. Fino a quando Menelik lo riconduce in terra per ritrovare ciò che gli spetta, la riconciliazione con il creato e con il Creatore. A Mondo piccolo, anche un cavallo può farsi carico del manifestarsi dell’assurdo. Evento indecifrabile persino dall’angoscia di don Camillo, che può solo raccogliere la richiesta di perdono del carrettiere e offrirla a Dio. E poi chiedere conto al Crocifisso:

“’Gesù’, gemette. ‘Illuminate la mia mente perché ho la testa piena di nebbia, tanto è vero che adesso io sto parlando con un cavallo!’

“’Don Camillo’, rispose la voce del Cristo, ‘un uomo è venuto qui per morire nella grazia di Dio. Perché di questo fatto vuoi essere grato a un cavallo mentre tu devi semplicemente esserne grato a Dio?’

“Don Camillo trasse un sospiro:

“’Gesù, perdonatemi: ma non so come sia successo. M’è venuta in mente la poesia della cavallina storna, quella che risponde col nitrito…’

“’Don Camillo, non confondere la fede con la poesia’.

“Menelik era nero come la notte e immobile come fosse di pietra.

“Ad un tratto nitrì e, più che un nitrito, pareva un singhiozzo.

“Ma era poesia, solo poesia e don Camillo scoppiò a piangere come s’era messo a piangere quando, ragazzo, aveva letto l’ultimo verso della Cavallina storna. Poesia, solo poesia”.

Fede e poesia: Guareschi è disposto a confonderle, ma solo nell’ultima riga del racconto, quando si fanno un gesto solo. Con l’atto dell’estremo affidamento, lo scrittore conduce Giaròn a tracciare nel cielo della Bassa un verso luminoso, da poeta immenso: “Che Dio mi perdoni”. Rende eterne poche parole mendicanti senso. Un verso salutato dal nitrito folle di Menelik, che lo comprende molto prima di don Camillo, senza la mediazione troppo umana della “Cavallina storna”.

Aveva ragione Giaròn, il suo cavallo non lo avrebbe mai lasciato solo. Soltanto lui, il carrettiere bestemmiatore, conosceva il senso ultimo e sacro di quella certezza: un nitrito, e si palesa un mondo in cui una richiesta di perdono può finalmente farsi poesia. Estremo atto di verità. Povertà ridotta a pietire un verso bestiale come fosse il singhiozzo del mondo intero.

Vicende soprannaturali come questa pongono le creature davanti alla grandezza infinita di Dio. E sono tutte figlie della “Prima storia”, questo piccolo trattato sull’adorazione che andrebbe rilegato in pelle austera e levigato da inesauste meditazioni.

All’ingresso di Mondo piccolo, Guareschi enuncia un’evidenza quasi perduta nella pratica religiosa contemporanea. Che non si può comprendere il Dio amore se prima non si è conosciuto il Dio che si adora, il Dio di cui si accetta la volontà, il Dio fondamento dell’essere e dell’accadere. Per intendere in Gesù il mistero divino, occorre avere gli occhi abbacinati dalla grandezza eterna: come quelli del San Francesco di Zubaràn, come quelli del santo sconosciuto della maestà sulla riva del grande fiume. L’amore più tenero dell’uomo per il Signore e l’esperienza più tenera del Signore per l’uomo nascono dall’adorazione. Adorare è vedere un mondo inconoscibile ai sensi e alla ragione eppure traboccante di vita. Dio viene percepito prima di essere dimostrato.

Da questo punto di vista, fra i racconti di Mondo piccolo, “Cinque più cinque” è quello che proclama con più forza di avere nella “Prima storia” il proprio exemplum.

Peppone, come il patriarca di cui è discendenza benedetta, è al cospetto di un figlio che sta per morire. Una sera, come ubriaco, entra in chiesa con un pacco in mano: cinque candele da offrire al Signore perché salvi il suo bambino. E’ il movimento dell’infinità con il quale si è spogliato di tutto, non ha più niente. Don Camillo si avvia ad accenderle davanti al Crocifisso, ma lui non vuole: “(…) quello lì è uno della vostra congrega. Accendetele davanti a quella là che non fa della politica”. Don Camillo riesce solo a obbedire, come il prete del Boscaccio. Si inginocchia davanti alla Vergine e compie il rito di mediazione tra terra e cielo, prega. Quando si alza, Peppone è scomparso: ha compiuto il movimento della finitezza e torna a casa a riprendersi il suo bambino. Don Camillo, che prima non si è perso in discorsi umani, parla solo con il Cristo per giustificare l’impertinenza di Peppone che ha osato chiamarlo lui “quello li” e la Madonna “quella là”. Poi esce:

“(…) e dopo tre quarti d’ora rientrò pieno di orgasmo.

“’Ve l’avevo detto?’ gridò sciorinando un pacco davanti alla balaustra. ‘Mi ha portato cinque candele da accendere anche a voi! Cosa ne dite?’

“’E’ molto bello tutto questo’ rispose sorridendo il Cristo.

“’Sono più piccolette delle altre,’ spiegò don Camillo ‘ma in queste cose, quello che conta è l’intenzione. E poi dovete tener presente che Peppone non è ricco e, con tutte le spese di medicine e dottori, si è inguaiato fino agli occhi.’

“’Tutto ciò è molto bello’ ripetè il Cristo.

“Presto le cinque candele furono accese e pareva fossero cinquanta tanto splendevano.

“’Si direbbe persino che mandino più luce delle altre’ osservò don Camillo.

“E veramente mandavano più luce delle altre perché erano cinque candele che don Camillo era corso a comprare in paese facendo venir giù dal letto il droghiere e dando soltanto un acconto perché don Camillo era povero in canna. E tutto questo il Cristo lo sapeva benissimo e non disse niente, ma una lagrima scivolò giù dai suoi occhi e rigò di un filo d’argento il legno nero della croce. E questo voleva dire il bambino di Peppone era salvo.

“E così fu”.

Se prima di lui non lo avesse fatto il patriarca del Boscaccio, Peppone sarebbe entrato in chiesa con cinque candelotti di dinamite, disposto a farli esplodere. Ma il padre di Chico ha superato la prova della disperazione assoluta a beneficio suo e di tutta la sua discendenza. Ha segnato la via della fede con piccoli chicchi d’oro così luminosi e incorruttibili da attraversare le generazioni. Per questo Guareschi, dopo aver raccontato nella “Prima storia” il versante ascetico della salita adorante all’incontro con Dio, ora ne rivela il traboccare mistico e sovrabbondante d’amore. E mostra la tenerezza del Signore dell’universo che si fa figlio dell’uomo fino a santificare la bugia celeste di don Camillo fingendo di crederci. Fino alla lacrima che riga con un filo d’argento il legno nero della croce, involucro caduco e carnale dentro al quale si manifesta l’immensamente grande: tutto ciò che viene concesso alla visione mistica in questo mondo.

Gesù piange per conto dell’uomo e avviene il vero miracolo del racconto: invece di essere il cielo a bagnare la terra con la sua la pioggia, è la terra a bagnare il cielo con le sue lacrime. Sulla pagina, questo prodigio si materializza in un filo d’argento. Ricamo esile e pudico di un narratore cosciente che le lacrime dell’anima sono quasi irrapresentabili. Jean-Loup Charvet, nel saggio “L’eloquenza delle lacrime”, scrive:

“L’istante delle vere lacrime è quello dell’incontro tra la leggerezza della luce e il peso dell’ombra. Le due forze non si tengono a bada, ma in equilibrio. Per la vera lacrima, la pesantezza e il buio sono solo un ricordo, ma un ricordo necessario alla sua leggerezza, indispensabile alla sua luce”.

Specchio di una delicata armonia tra la gravità del mondo e la levità della Grazia, la lacrima del Crocifisso versata per l’uomo cade verso l’alto. Non produce la guarigione del bambino di Peppone. Ne è solo il segno, come spiega con finezza spirituale Guareschi nella penultima riga del racconto: “E questo voleva dire che il bambino di Peppone era salvo”. La lacrima divina che segna il legno nero della croce si manifesta per operare qualcosa di più grande. Per un istante soprannaturale, immerge padre e figlio nella propria natura d’acqua e d’argento e restituisce al mondo due reliquie viventi della commozione di Dio: a loro volta lacrime destinate a cadere verso il cielo di Mondo piccolo.

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(6 – continua)

2 commenti su ““FUORI MODA” – un viaggio con Alessandro Gnocchi nel Mondo piccolo di Guareschi/VI”

  1. Chiedo scusa se sono fuori tema. Sto vedendo in tv la,rassegna stampa della notte ed il quotidiano La Verità riporta in prima pagina la foto del Generale dei Gesuiti ( quello che aveva detto che il diavolo non esiste..) in abiti civili seduto pregare Budda insieme ad un gruppo di Buddisti vestiti con la classica veste arancione e capelli cortissimi. Titolo del servizio IL CAPO DEI GESUITI PREGA BUDDA. Al punto in cui siamo in cui tutto è possibile in campo di cambio di Dottrina ed ECUMENISMO, prepariamoci a questo punto alla trasformazione della Messa Cattolica in Messa protestante( invalida) entro fine anno come più volte annunciato da Fra Cristoforo nel sito anonimidellacroce.

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