Guerra tra poveri nella scuola fantasma

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha da ultimo sfoderato una norma – ora sub judice – che per le sue implicazioni, pur riguardando una fattispecie circoscritta, dice molto su quale sia la rotta segnata per la scuola italiana in generale – “rotta” in tutti i sensi, verrebbe da aggiungere.

Col decreto ministeriale 32/2025, in applicazione del decreto legge 71/2024 convertito nella legge 106/2024, il governo ha introdotto la possibilità per le famiglie di chiedere la conferma, per il successivo anno scolastico, del docente di sostegno (specializzato, o anche no) già assegnato in supplenza al proprio figlio nell’anno precedente. Cioè: se a te genitore è piaciuta la persona che in questo giro di giostra ti è toccata in sorte per seguire tuo figlio, in presenza di certe condizioni puoi far sì che gli sia rinnovato l’incarico, sottraendolo al meccanismo delle graduatorie; il suo destino lavorativo (e non solo) dipende in sostanza da te.

La ratio della norma viene individuata dal legislatore stesso nella esigenza di garantire la continuità educativa e didattica per gli studenti con disabilità al fine di favorire la serenità della relazione educativa tra costoro e i docenti, e di promuovere l’inclusione scolastica.

Il provvedimento è stato impugnato innanzi al Tribunale amministrativo del Lazio da alcuni sindacati che ne contestano la legittimità ritenendolo discriminatorio e lesivo del principio di equità nell’accesso alle supplenze, e invocando anzitutto la violazione dei principi di imparzialità e di trasparenza dell’azione amministrativa. Sul fronte opposto, a sostenere la linea ministeriale, sono schierate le associazioni delle famiglie insieme al garante per la disabilità, a tutela “del benessere e della stabilità” considerati essenziali per il successo formativo degli studenti con bisogni educativi speciali.

Le riviste di settore costruiscono la notizia titolando di “frattura tra scuola e famiglie”, ma mica vero: magari si incrinasse qualcosa. In verità regna sovrana la solita, saldissima corrispondenza di amorosi sensi tra tutti gli attori istituzionali, solo condita stavolta dallo schiamazzo estemporaneo di qualche sigla di categoria mobilitata in difesa di interessi corporativi perché, evidentemente, i padroni concedono: ricordiamo bene, infatti, con quale zelo si sia manifestato l’attivismo sindacale nell’epoca in cui il lavoro e lo stipendio erano subordinati al ricatto farmaceutico, e chi non cedeva il proprio corpo alla sperimentazione coatta veniva istituzionalmente bullizzato, denigrato, emarginato, discriminato, condannato alla fame. Sindacati zittissimi. Anzi, peggio: garruli sostenitori della persecuzione legalizzata.

Visti i precedenti, c’è da aspettarsi che pure la controversia pendente si giocherà tutta nel campo della scuola “buona”: quella del mercato, degli stakeholder e delle alleanze educative, del benessere e dell’inclusione selettiva. La scuola buonissima, che non ammette dissenso che non sia di cartapesta, controllato e organico al sistema. Quella che la dialettica vera la rifiuta e la esclude. Quella che fa la guerra a chi non si conforma all’andazzo distruttivo che alla fine sta travolgendo tutti: insegnanti, scolari, famiglie, società.

Senza soffermarsi sui dettagli della misura in oggetto – la quale guarda caso ha le sue radici più profonde proprio nella famigerata legge 107, cosiddetta “la buona scuola”: madre, se non di tutte, della più parte delle aberrazioni scolastiche gabellate come innovazioni – vale allora la pena di discuterne il senso più lato, che trascende le diatribe interne tra singoli, fazioni e consorterie, per investire le strutture portanti di un carrozzone alla deriva.

Ché, infatti, non sono in gioco soltanto la trasparenza e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Senz’altro c’è giuridicamente qualcosa che non va se dei genitori, investiti del potere di trattenere in una determinata sede un lavoratore che non ne avrebbe diritto in base alle graduatorie ufficiali, diventano di fatto arbitri delle nomine annuali dei docenti, così interferendo con le complesse dinamiche dei conferimenti delle cattedre e dei trasferimenti.

Ma questa anomalia non spunta dal nulla come un fungo: nasce e trova terreno fertile nel ventre di un sistema degenerato che si autoalimenta, prolifera di organismi patogeni e genera mostri per partenogenesi. La ratio legis che, come si è visto, fa appello alla continuità educativa e didattica, alla serenità della relazione educativa, all’inclusione scolastica – fornisce più di qualche indizio alla comprensione del fenomeno.

Infatti, se certamente la continuità rappresenta un obiettivo da perseguire – per tutti gli studenti, non solo per quelli disabili – la scuola pubblica dovrebbe favorirla attraverso modalità congrue al ruolo e alla fisionomia dell’istituzione, e non ricorrere a squallidi stratagemmi che, mentre accarezzano le corde della emotività più irrazionale, puntano a procacciarsi supporter politici a buon mercato. Le famiglie dal canto loro, rintronate da anni e anni di pubblicità progresso sulla scuola del benessere, del successo formativo, di alleanze e di patti, dell’accoglienza, di cammini e relazioni, di programmi personalizzati, di comunità educanti, di sinergie e percorsi condivisi, e di partecipazione democratica, tendono a considerare non solo logica ma persino doverosa la commistione tra interesse pubblico e favore privato, specie se il tutto è sublimato dal sacro crisma dell’inclusione. L’inclusione appartiene ormai alla metafisica della scuola, e sta lì, nell’iperuranio, a colorare ogni pezzo di questa giostra impazzita con una patina autoprodotta di alto valore morale e sociale.

Nella scuola del mercato, dove il cliente ha sempre ragione, va da sé che sia lecito pretendere, oltre al bel voto, alla promozione, all’interrogazione programmata, al piano personalizzato, anche l’insegnante on demand. Così il riformatore compulsivo prende due piccioni con una fava: fidelizza la clientela assicurandosene l’appoggio incondizionato e, al contempo, corre indisturbato sulla via della demolizione delle ultime vestigia dell’edificio che gli è affidato in custodia.  

E a nessuno viene in mente come questo bizzarro sistema di reclutamento possa incoraggiare un commercio implicito o esplicito di favori, l’instaurarsi di rapporti più amicali che professionali, forme varie di captatio benevolentiae tali da mettere in secondo piano i doveri primari del docente nei confronti dell’allievo. Il docente, stipendiato dal ministero, diventa di fatto un precettore privato alle dipendenze della famiglia, perdendo fatalmente la propria autonomia e la propria libertà: perché prima dovrà prodigarsi per conquistare il gradimento di studente e genitori; poi, se confermato per loro gentile intercessione, dovrà pure sdebitarsi.

Insomma, a prescindere dall’esito del contenzioso amministrativo – che si celebrerà girando dentro la ruota del metamondo della metascuola, con le sue categorie distorte e le sue melense formule magiche – il solo fatto che una norma come questa sia stata concepita e approvata, e sia pervicacemente sostenuta, costituisce un ulteriore segno, e grave, del degrado che travolge una scuola del cui senso e del cui decoro si è perduta ogni consapevolezza, tanto ai vertici quanto alla base. Il trionfo del paradigma soggettivistico fondato su emozioni e sentimenti – dove il benessere si è definitivamente inghiottito il bene, comune e individuale – impedisce di ritrovare il vero perché di un’istituzione irrinunciabile, di recuperare il suo prestigio, di ricostruirne le mura. E intanto ruba con destrezza alle nuove generazioni, insieme al volto e alla voce di veri maestri, la luce della conoscenza e la forza della ragione. Ma è tutto bellissimo. Perché bastano le parole.

P.S. Nel frattempo il TAR del Lazio ha rigettato l’istanza cautelare dei ricorrenti per ritenuta mancanza dei presupposti (fumus boni juris e periculum in mora), in attesa dell’esito del giudizio di merito.

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