Guido Morselli, “soffro, quindi vivo”

Il diario di Guido Morselli non è propriamente un giornale intimo, ma piuttosto il luogo di riflessioni filosofiche  e letterarie, il suo zibaldone. Non vi si troveranno dunque, se non sporadicamente, fatti che illuminino la sua vita appartata. Eppure dalla lettura delle 386 pagine pubblicate da Adelphi, editore di tutti i romanzi di Morselli ad oggi pubblicati, è possibile vedere delinearsi un carattere, un temperamento, e così risalire con precisione alle ragioni della sua scrittura e presumere quelle della sua fine prematura.

A questo riguardo una delle frasi più significative è quella annotata il 5 novembre 1966 : “ a coloro che vanno cercando una definizione della vita ( biologi per es.), vorrei proporre la seguente :”la materia quando incomincia a soffrire”. Qualche giorno dopo l’11 novembre 1966 scriverà: “Dopo il cataclisma (le c.d. alluvioni) che si è abbattuto sull’Italia: più penso a Dio e più ammiro gli uomini. O anche : nessuna costruzione umana mentale è più ingegnosa, e più tenace , delle giustificazioni che gli uomini inventano al loro Dio”.

Molti anni prima, il 24 novembre 1950 aveva già scritto : “Soffro, dunque sono”.

Siamo sempre lì, alla domanda delle domande: perché esiste il male se esiste Dio? È una domanda che non lascia respiro una volta che si abbia il fegato e/o la grazia di interiorizzarla. La formazione culturale, e la forma mentis, portano Morselli a porre il  problema in termini filosofici: il diario trabocca di citazioni e riflessioni in margine al pensiero dei grandi filosofi e scrittori, da Agostino a Pascal a Kant, Hegel, Platone, Aristotele, Croce, Goethe, Dostoevskij e molti altri. Tuttavia per Morselli non si tratta di discutere un problema astratto, ma di risolvere il suo disagio personale, il suo male di vivere, tanto che la domanda di cui sopra potrebbe essere espressa così: perché soffro se esiste Dio? E da questa le altre che ne discendono e le fanno da corollario attraverso tutta la sua opera.

La storia ha un senso predeterminato, ha un fine, o è frutto del caso e soggiace agli estri fortuiti di oscuri funzionari, appuntamenti mancati, curiosi fenomeni di sincronicità, direbbe Jung? Nel romanzo “Contro passato prossimo” Morselli immagina una prima guerra mondiale che finisce con la vittoria dell’Austria sull’Italia e degli imperi centrali sull’ Intesa ed è stupefacente come riesca a persuaderci che le cose avrebbero potuto andare proprio così. Anzi, che forse sono andate proprio come ci vengono raccontate nel romanzo.

La realtà fattuale non è necessaria e non ha più senso di quella che lo scrittore ha nella testa e inventa nella sua opera. La conoscenza del periodo storico che descrive e dei protagonisti del tempo, la comprensione delle forze e delle dinamiche che agiscono nel mondo, consentono a Morselli una ricostruzione minuziosa, come potrebbe essere quella di uno storico di professione.

Si vede che Morselli conosce bene la storia della guerra nell’altopiano di Asiago e nel Carso. Gli ordini, le strategie militari, le manovre, le cause di quegli avvenimenti gli appaiono forse, come spesso sono state, fortuite, non necessarie, gli sembrano paradossali, legate all’umore di qualche generale, talvolta a preoccupazioni meschine. Così inventa la sua controstoria : altre manovre, altre strategie, colloqui non implausibili di militari, ministri e funzionari, un insieme di circostanze complesse che accampano il diritto di esistere. E crea un mondo nel quale le condizioni createsi alla fine della guerra consigliano Hitler a coltivare la sua abilità di pittore.  

Più che un romanzo un saggio storico immaginario. Scritto, come ha notato Giorgio Manganelli, da “un consultatore di archivi inesistenti, o forse dei cataloghi che contengono tutti i possibili”. Un testo oggettivamente di non facile collocazione, se il libro deve essere un prodotto da trattare e da vendere alla stregua di una saponetta o, in alternativa, deve trovare spazio dentro una qualche  consorteria ideologica.

Morselli se ne rende conto e piazza a metà della narrazione uno straordinario intermezzo, inaudito espediente letterario, nel quale riporta le conversazioni dell’editore con l’autore. Conversazioni che, se ci furono, non ebbero frutto perché come gli altri il libro fu alla fine rifiutato e pubblicato postumo. In queste pagine Morselli spiega le sue ragioni di scrittore e di filosofo della storia: “L’editore: lei accantona il determinismo. Il meccanismo delle cause. L’autore: me ne guardo bene. Determinismo e Caso formano un erma bifronte, sono i due profili non scindibili dei fenomeni: ma a questo binomio ( della cui presenza e inscindibilità, i filosofi stentano tanto a capacitarsi), Allmen, Tirpitz, Brokenleg, Rathenau, oppongono la loro del resto non sorprendente intelligenza e fantasia, la loro tenacia, un carattere, il loro individuo in sostanza. L’editore: con tutto ciò, il lettore concluderà, o piuttosto attribuirà a lei la conclusione, candida e riduttiva, che non occorreva gran che per dar volta ai destini dell’Europa. Ambienti, strumenti, procedimenti potevano restare i medesimi: bastava una modesta immissione di fantasia, o intelligenza, e di buona volontà , nell’enorme ingranaggio macinante e grondante. L’autore: Proprio così”.

E mentre con un sorriso rivado a un memorabile dialogo dei miei diciotto anni nel quale mi ostinavo a dire che se non ci fosse stato Napoleone la storia sarebbe cambiata, contro il parere degli altri, più persuasi e ben disposti di me ad assimilare le lezioni di quelle mattine, che le cose sarebbero comunque andate così, che un Napoleone ci doveva essere, non ricordo più se a causa dello spirito del tempo o dei rapporti di produzione o di tutte e due le cose assieme, mi dico che sì, basterebbe un po’ di coraggio, un sussulto della coscienza e dell’intelligenza, un rigurgito di umanità, l’istintivo moto di ribrezzo del parvenu cooptato dal potere che rifiuti l’abbraccio di quello più potente di lui, e la storia potrebbe cambiare, anche domani.

Dunque secondo Morselli la storia non è spirito del mondo che si autorealizza, ma d’altra parte egli neppure ha fede che vi sia un Dio che la conduca provvidenzialmente. Il Diario pullula di riflessioni sul male della terra e sull’impossibilità che un Dio buono possa consentirlo.

Una tra tante. Il 15 agosto 1956, in seguito alla tragedia dei minatori di Marcinelle scrive: “ Sciagura mineraria nel Belgio: sepolti, arsi o asfissiati, più che trecento operai. Il Papa invia un messaggio invocando per le vittime la misericordia del Cielo. La religione, come opinava Tertulliano, può sì sfidare l’assurdo, ma quando l’assurdo consiste in un simile paradossale capovolgimento di principi, allora la religione non è più cosa per noi: non già sovrumana, direi, ma sotto-umana, nella sua immensa stolidità”.  

Con questo ragionare il significato delle cose scolorisce, lo scoraggiamento prevale. In Dissipatio hg, il suo ultimo libro, il protagonista, l’io narrante, Morselli stesso, sale in montagna per uccidersi, ma ci ripensa. Uscendo dal cunicolo dove si era infilato per compiere il gesto sbatte la testa, rimane stordito e da quel momento il mondo scompare. Tornato a valle non vi è più traccia di esseri umani, solo le vestigia di una civiltà finita in un attimo: l’edicola chiusa, la stazione vuota. Vuoto l’aeroporto internazionale. L’amica non va all’appuntamento. Gli amici non si trovano, né alcun essere umano percorre le strade della città, un’immaginaria Crisopoli che somiglia tanto a Zurigo. Non c’è più nessuno. E allora Morselli ridice in un’altra chiave la sua lezione sui “ fatti”: “La situazione è certamente strana, anzi inspiegabile: vuol dire che non è vera? Solo gli ottimisti si illudevano che il reale fosse razionale, e io non sono mai stato ottimista. Ora, poi, mi sto convertendo al realismo più piatto. Il reale avendo dalla sua la durata e la coerenza ( coerenza nel senso di uniformità e solidità), si può permettere il lusso di essere irrazionale e inspiegabile. Anche pazzesco, se gli torna comodo. Contro questa inspiegabilità non faccio tentativi”.

Per quel gioco di rimandi e associazioni di idee che la letteratura incoraggia, il Morselli che si muove come in sogno in un mondo vuoto, e in quel vuoto al di fuori di sé  pare scoprire l’unico senso possibile delle cose, mi ricorda i versi di Montale:

Forse un mattino andando in un’aria di vetro/ Arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:/ il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/ di me, con un terrore di ubriaco./ Poi come s’uno schermo s’accamperanno di gitto/ alberi case colli per l’inganno consueto. /Ma sarà troppo tardi; e io me ne andrò zitto/ Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Dunque la realtà è sogno? Ma la cicatrice che si ritrova in testa persuade di no il protagonista di Dissipatio.  Allora forse sognare, o raccontare una controstoria, è solo il modo per sfuggire ad una realtà caotica, ingiusta e insensata. Se in Contro passato prossimo Morselli crede ancora nelle possibilità che un po’ di intelligenza e buona volontà possano cambiare “l’ingranaggio macinante e grondante”, in Dissipatio hg il misantropo, “fobantropo” protagonista, come egli si definisce, si sbarazza di una società divenuta insopportabile, con i suoi riti incomprensibili e marcescenti, e rinuncia alla compagnia dell’uomo del quale ha paura “come dei topi e delle zanzare , per il danno e il fastidio di cui è produttore inesausto”.

Ora questa società è sparita e quale decisiva prova per il superstite visionario Morselli se non l’immagine del palazzo della borsa desolato?

“Poi ho atteso che venissero le tre, quando comincia il dopoborsa, e cioè nel tempio si celebrano le funzioni solenni della chiusura dei corsi: quella vera, effettiva, riservata agli adepti, l’ora Rothschild come la chiamava uno dei borsisti nostrani più influenti, l’ora in cui si decide per l’indomani il destino finanziario dell’Europa e di mezzo Occidente. Ma il tempio non s’è illuminato, non si è aperto. Finito anch’esso. Morto, come le colonne e gli atrii di Balbec”.

Guido Morselli ha cercato la verità tutta la vita. L’ha cercata nella storia, nella politica, nella vita sociale, in quella privata e in questa ricerca si è smarrito, forse sopraffatto da una profonda, inflessibile onestà intellettuale, dono rarissimo che però talvolta può portare allo sconforto, condurre in un labirinto e alla fine in un vicolo cieco. È ancora Manganelli che, riconoscendone tutti i meriti di scrittore, definisce Morselli “un perfetto disadattato”.

La vulgata vuole che lo scrittore varesino si sia tolto la vita scoraggiato per i continui rifiuti cui il mondo dell’editoria l’aveva posto di fronte, ultimo proprio quello di Dissipatio hg. Non so se sia vero, la vicenda umana e intellettuale di Morselli è più complessa per giungere a una tale semplificazione.

Certo pare curioso che il valore della sua opera sia stato riconosciuto solo dopo la morte, nonostante questa fosse passata al vaglio critico di alcuni tra i più importanti personaggi della letteratura e dell’editoria. Mi do questa spiegazione : che il sistema, in tutte le varie nomenclature in cui esso si manifesta, percepisce per animale istinto di  conservazione la voce dissonante, sia pure dissimulata nelle pagine di un romanzo, e la emargina. Colgo questo spirito conformistico, l’ineluttabile adeguarsi allo “spirito dei tempi”, nel rifiuto che il mondo editoriale ha opposto a Morselli finchè è stato in vita.

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