Il diabolico alfabeto dell’arte contemporanea (prima parte) – di Gabriella Rouf

Pubblichiamo la prima parte di un’istruttiva e godibile analisi della cosiddetta Arte Contemporanea uscita sulla rivista “Il Covile” seguendo un criterio alfabetico. Molti pensano che certi temi interessano solo gli intellettuali, ma si sbagliano, specialmente se hanno a cuore la salvaguardia della fede e della ragione. Non caso, Gabriella Ruf scrive tra l’altro: “Dato che l’Arte Contemporanea ha bisogno di andare oltre, per sopravvivere a se stessa, c’è da attendersi un ulteriore accanimento su questa strada, che del resto corrisponde alla natura profonda dell’AC, che può definirsi diabolica in quanto antiumana, mortifera, nichilista”. Ebbene, consideriamo con attenzione questo giudizio e leggiamoci le note seguenti tenendo davanti agli occhi la bestiale videoproiezione con cui l’8 dicembre 2015 venne profanata la Basilica di San Pietro. Allora si capirà che questioni come queste ci toccano da vicino: tutti e tutti i giorni.

 

Arte contemporanea. Qui si gioca sull’equivoco dell’aggettivo, per darla come unica arte del nostro tempo, l’unica possibile, a cui spetta riconoscimento pubblico e promozione «culturale». Da decenni essa è organizzata a sistema internazionale, imponendo ovunque l’arte concettuale, che rifiuta la motivazione e la finalità estetica dell’arte, riconoscibile e condivisa, per affermare che «È arte quello che gli artisti e gli addetti ai lavori dichiarano essere arte». Nel 1998 le grandi case d’aste hanno stabilito che l’arte dall’inizio del XX secolo al 1960 è «arte moderna» e quella dopo il 1960 è «arte contemporanea»: si è così ufficializzato il regime di monopolio di un sistema di natura speculativa, che collega artisti, mercanti, collezionisti, banche, case d’asta, critici e curatori di mostre, che impongono un tipo di produzione di bassissima qualità, perpetuamente alla ricerca dello scandalo per farsi pubblicità. Sulle quotazioni delle star internazionali vigono manovre di tipo finanziario che sostengono valori fasulli, totalmente autoreferenziali. Musei, esposizioni, fiere, eventi vari, servono da vetrine e da alimento per un ceto parassitario di pseudo artisti e critici a libro paga, con relativo giro mediatico e mondano.

L’arte contemporanea concettuale (AC), priva di significato e relativistica, si presta a qualunque connessione, col mondo della pubblicità, della moda, dello spettacolo, ovunque corra denaro, unico valore superstite nel suo deserto morale e intellettuale.

 

Bellezza. Idea innata e ineliminabile nell’uomo, che la ricerca, la riconosce, la contempla e può crearla con l’arte, anch’essa risorsa e dono della persona umana. L’AC enuncia che il Bene, la Verità e la Bellezza sono idee imposte dall’alto in epoche passate, di cui l’uomo si è liberato, e comunque ha irrimediabilmente perduto, sí che tutto è relativo, e caso mai valgono solo i rapporti di forza. Che oggi e da tempo giocano a favore dell’AC, organica ai poteri forti, status symbol, balocco per ricconi, promozione d’immagine per dittature e signori del petrolio. Le sue star producono oggetti banali mastodontici, ciascuno riconoscibile nella sua ripetitività per una specie di marchio dell’autore. Oppure si specializzano nell’orrido, nel ributtante, nell’osceno, in modo da usufruire di un continuo clamore di scandalo, altro sistema che tiene alte artificiosamente le quotazioni. Ma all’arte contemporanea non basta produrre bruttezza oltre i confini dell’immaginabile, essa ha in sé un principio aggressivo e mortifero, che la spinge a forzare i suoi confini e destrutturare, deturpare, sconciare la bellezza là dove è.

 

Critici d’arte. Da sempre disprezzati dagli artisti, sono invece soggetti indispensabili dell’arte contemporanea in quanto forniscono l’apparato di fumisterie e sproloqui indispensabile al sistema AC. Sono loro che devono motivare che qualcosa che non serve a niente, che è brutta, che occupa posto, costa denari, non piace a nessuno, non vuol dire nulla, spesso puzza, offende, fa ribrezzo, proprio per questo, non potendo essere niente altro, è… arte. Per accreditare che è arte ciò che viene definita tale, il critico/consulente/propagandista è l’anello indispensabile e moralmente piú repellente. La lettura dei testi di presentazione a mostre, nei cataloghi, nei media, sarebbe comica se non fosse tragica, pensando agli sprechi di denaro e di risorse. Dall’arroganza dei critici ed esperti AC nasce l’artista concettuale, che, mettendoci del suo e talvolta sopraffacendo lo stesso Frankestein che l’ha creato, realizza il mostruoso paradosso di una produzione per lo più mastodontica, dichiaratamente priva di significato, che si esaurisce in sé, fatua o atroce, noiosa o criminale, ma che continuamente ha bisogno di essere spiegata, commentata, presentata, propagandata…

 

Duchamp. È indicato dagli storici al servizio dell’arte contemporanea come l’iniziatore di essa, come l’ideatore di una rivoluzione, di un modo completamente nuovo di concepire l’arte. È probabile che lo scopo di Duchamp fosse proprio quello di mettere in ridicolo l’ambiente artistico delle avanguardie in cui era inserito, facendone deflagrare dall’interno le contraddizioni, dando loro un’arte non creativa, indifferente all’estetica, al significato, allo scopo, totalmente incomprensibile e nata dall’arbitrio anarchico dell’autore. Duchamp fece in tempo ad accorgersi che la sua critica radicale e sovversiva all’ambiente artistico diventava essa stessa un prodotto commerciabile, replicabile, che anzi dava maggior potere ai critici d’arte da lui disprezzatissimi. Lui voleva dimostrare che, volendo, qualunque sciocchezza si può chiamare arte, se c’è intorno un certo ambiente (di gente ricca, ignorante e annoiata, in cerca di stravaganze e novità). Ma per un’abile capriola del senso, la formula è diventata: è arte ciò che un apposito «ambiente», chiama arte. Le parole sono le stesse, il senso è opposto.

 

Estetica relativistica dell’AC. È arte ciò che è dichiarato essere arte. E quindi, reciprocamente: qualunque cosa può essere arte. Questo è l’ingannevole versante democratico dell’AC: «una cosa cosí la posso fare anch’io!». È certamente vero, ma non è questo il punto. Le tonnellate di paccottiglia e installazioni di creatori senza talento o che, avendolo, lo sprecano nell’arte contemporanea, sono un modo per alimentare il sottobosco, per coinvolgere le istituzioni della «cultura», per illudere giovani, per proclamare l’AC linguaggio del nostro tempo, creativo, libero, in cui ciascuno si può esprimere senza alcun noioso apprendimento e tirocinio. Tutti artisti. Il marchio inconfondibile dell’AC, come un volto mostruoso che emerge dietro la maschera del pagliaccio o di Topolino, è quello delle estetiche «inverse» — nonché alla bellezza, al rispetto e dignità umana — quelle che vanno «oltre»: l’arte delle deiezioni, che manipola liquami e umori corporali, l’arte delle perversioni genetiche e sessuali (creazione di mostri, pedopornografia), l’arte del compiacimento sanguinario e criminale.

 

 

Francia, . Qui l’AC è arte di Stato, sostenuta e finanziata dal ministero della Cultura, quindi imposta come nemmeno nei regimi totalitari del secolo scorso. La rete dei FRAC garantisce l’assorbimento dello strato di produzione che non accede ai livelli dell’élite, mentre ad essa sono dedicati musei e spazi espositivi di dimensioni e lusso indescrivibili, nonché sedi monumentali prestigiose, come il Palazzo di Versailles. Ci si può consolare che l’AC non è da noi imposta come in Francia, ma se si sommano le risorse che le sono dedicate (Musei, mostre, eventi, ospitalità in spazi pubblici monumentali) ci si rende conto che di fatto essa spadroneggia anche nel nostro Paese, che interessa — più che come mercato — come vetrina di prestigio senza paragoni al mondo, con il patrimonio artistico più ricco in assoluto, a cui l’AC ha necessità di avvicinarsi — deturpandolo — per captarne l’aura ed un’immagine pubblicitaria riconoscibile in tutto il pianeta.

 

Grazie. Grazie ai pittori che dipingono, agli scultori che scolpiscono, agli artisti che con tenacia, sapienza e originalità testimoniano l’arte di oggi, nel colloquio con la realtà, nel mistero della bellezza. Grazie a chi dà loro la possibilità di esporre, a chi compra le loro opere, a chi si fida del proprio gusto e non delle farneticazioni di critici a libro paga dell’AC, a chi ama contemplare con i propri occhi e non seguire ciecamente i riti di massa dell’arte contemporanea e delle mostre itineranti chiavi-in-mano.

 

Hegel. Nei poco intellegibili appunti della sua Estetica stanno i quarti di nobiltà delle teorie dell’arte contemporanea sulla «fine dell’arte», in base alle quali l’AC ne sarebbe l’unica forma possibile, quindi incontestabile e doverosamente monopolistica. Che «l’arte sia morta» permette evidentemente che sotto il suo nome possa essere spacciato qualunque prodotto; il paradosso è che poi questi prodotti, il cui statuto non si capisce allora cosa sia, ma non certo artistico, usufruiscono di esposizioni, musei, denaro pubblico, e vengono accreditati come eventi di prestigio, che si pongono in continuità — e spesso in contiguità fisica — col patrimonio artistico storicizzato.

 

Incubo degli artisti concettuali. Ma anche dei loro esegeti e collezionisti è che qualcuno — tanti — dicano: «Non è arte». Questo spauracchio diventa panico quando arriva al livello degli investitori e degli speculatori della financial art, dove vengono tenute su artificialmente le quotazioni, che possano crollare come una bolla di cattivi bond. Che qualcuno — tanti — gridi: «Il re è nudo!» e che tutti quelli che per piaggeria, timore, passività hanno sopportato o si sono fatti piacere questo mostro che imperversa senza pudore, si riscuotano e lo considerino obiettivamente: è proprio nudo, vergognoso, squallido, inutile. La mistificazione per cui l’arte contemporanea è arte perché dice di esserlo, la colloca su un limite assai fragile. Basterebbe che la gente — tanta gente — dicesse sinceramente cosa ne pensa. Improvvisamente se ne vedrebbe la realtà: un enorme, spropositato, maleodorante ammasso di spazzatura.

 

Libertà dell’artista. Diritto che viene proclamato con veemenza ogni volta che qualcuno ha da eccepire su esibizioni oscene, ributtanti, violente, blasfeme. Si tratta anche questa volta di un paradosso dell’AC, perché si chiama in causa un concetto che è di per sé estraneo a prodotti che nascono — e dichiaratamente — per uno scopo commerciale o spettacolare fine a se stesso. Essi pertanto non hanno diritto a nessun privilegio particolare, anzi dovrebbero essere controllati con maggiore attenzione, dato il facile, fatuo e continuo spostamento del limite della cosiddetta trasgressione, necessario per creare clamore e scandalo. Trattandosi di attività pubbliche, spesso con impiego di sedi e denaro pubblico, vanno ad esse applicate le norme in materia che tutelano il cittadino e valutano la correttezza amministrativa. È ovvio infatti che, venuto meno ogni criterio estetico a definire l’arte, su questa strada ogni gesto, comportamento, immagine, può invocare una natura e una finalità artistica: già sta succedendo, e non tanto con le innocue bodyartiste di NewYork coi seni al vento, ma con le plastiche iperrealiste di atti di pedofilia e zooerastia, nonché con il vasto repertorio di blasfemie, macelli e oscenità insopportabili. Dato che l’AC ha bisogno di andare oltre, per sopravvivere a se stessa, c’è da attendersi un ulteriore accanimento su questa strada, che del resto corrisponde alla natura profonda dell’AC, che può definirsi diabolica in quanto antiumana, mortifera, nichilista.

 

(1 – continua)

6 commenti su “Il diabolico alfabeto dell’arte contemporanea (prima parte) – di Gabriella Rouf”

  1. Luciano Pranzetti

    Perfetto riferimento alla così detta ‘arte sacra’ moderna, nella fattispecie, di quell’indecoroso e fastoso mosaico visibile nella nuova tomba di San padre Pio che, sotto l’aspetto formale è osceno e sotto la prospettiva sacra meglio si addice a una tomba faranoica.

  2. Stefano Mulliri

    Ancora ripenso a quell’obbrobrio, che fu utilizzato come “marchio” dell’anno della misericordia, e all’effetto che ancora mi provoca quando lo vedo ancora appeso, nella bacheca di quelle chiese dove si trova di tutto, tranne che veri avvisi sacri.

  3. “È arte quello che gli artisti e gli addetti ai lavori dichiarano essere arte”: è proprio così! Sono da tempo di questa idea che oggi è enormente esasperata ma che esisteva anche nel passato e per dimostrarlo, sul mio sito, ho pubblicato una paginetta dove, oltre a sviscerare l’argomento dell’arte moderna e di cosa sia un capolavoro, mostro un epigramma scelto a caso fra 823.543 poesie brevi ed un haiku scelta a caso fra 262.144 haikai avvisando di stare attenti prima di dire che sono tutti orribili perché non tutti sono opera mia (creati da un programma automatico che ho scritto io) ma uno degli epigrammi è della grande Saffo ed uno degli haiku del famoso Matsuo Bashō.

  4. Grande Gabriella Rouf, su un passaggio sono meno convinto, il giudizio sui concettuali. Sono del parere che l’arte visiva debba fare i conti con la forma e l’estetica, possono comunque coesistere contenuti e concetti, senza rinunciare alla bellezza e alla ricerca di essa, ed evitare così di parlare solamente di linguaggi. E ormai risaputo che milioni di furbacchioni “Pseudo artisti” e compagni (Critici prezzolati, art managers, paperoni e galleristi Vip) in quest’ultimo secolo hanno trasformato il mondo, che una volta era per antonomasia della bellezza, in un calderone dove è possibile trovare di tutto e di più. Esiste comunque un’arte contemporanea positiva, la vivo io stesso tutti i giorni non rinunciando alla ricerca, tenendo presente l’enorme patrimonio ereditato dai grandi Maestri del passato. Mi piace chiudere questo mio modesto intervento, con una mia innata convinzione – Uno scarabocchio, a prescindere dall’autore, è sempre uno scarabocchio. Voglio solo consigliare all’amica Gabriella di guardare meglio dentro il calderone, qualcosa di bello troverà sicuro.

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