IL SERPENTE – un racconto di Emilio Biagini (seconda e ultima parte)

IL SERPENTE

racconto di Emilio Biagini

(seconda e ultima parte)

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serpe


Lungo tempo rimase prostrato, seduto sul letto, col capo tra le mani, agitando confuse idee di vendetta, incapace di reagire. Chi poteva aver approfittato così della sua assenza? Tutti. I tossicomani per drogarsi, coloro che non erano schiavi del vizio per vendere la preziosa polvere. Chiunque dei suoi vicini sapeva fare bellissimi giochetti coi grimaldelli. Di un tale che occupava una camera vicina alla sua, in particolare, Adolfo aveva una gran paura. Non era un pezzo grosso, per via della sua scarsa intelligenza, ma si raccontava che piegasse sbarre di ferro con le mani. Una specie di gorilla: fronte bassa, sguardo bestiale. Si guadagnava da vivere in maniera quasi onesta, come sorvegliante e buttafuori in un locale notturno di infimo ordine, ma doveva essere capace di tutto.

Così niente eroina. Ne sentiva un bisogno disperato. Una giornata infernale. Non aveva abbastanza denaro per la droga. Vago, informe, sentì formarsi nei recessi oscuri del suo cervello e delle sue viscere un proposito che gli faceva paura: assaltare, rapinare. Lui solo all’assalto. Era la prima volta che gli balenava un’idea del genere. Sempre stato gregario, finora.

Quella sera uscì e vagò per i vicoli oscuri. In tasca teneva l’unica arma che avesse: un coltello a serramanico. Troppa gente però: specie prostitute, loro clienti e magnaccia. I clienti apparivano piuttosto poveri e scarsamente redditizi, mentre i magnaccia erano gente che stava in guardia e sapeva badare a se stessa. Due studentelli in cerca di avventure forti, poi uomini dall’aspetto rozzo: nessuno che meritasse di essere abbordato. Un’esaltazione quasi isterica andò impadronendosi di Adolfo. Sempre più, sempre più. Non pensava al rischio. Solo per un attimo il panico lo assalì e lo fece riflettere che forse sarebbe stato meglio tentare il borseggio, incruento. Ma abbandonò subito l’idea: non era capace di un lavoretto così delicato. Ore e ore passarono. L’eccitazione in lui crebbe al parossismo, per la privazione di droga e la rabbia d’esserne stato derubato.

Notte alta, forse le tre. Ora morta. Ed ecco venirgli incontro per il vicolo una figura ben vestita. Un uomo. Solo. Tornava certo dai bagordi notturni, pensò Adolfo. Fu più facile di quanto credeva: fingendosi ubriaco e camminando a zig-zag si diresse verso di lui. S’incontrarono. Estrasse il coltello. Uno scatto. La lama uscì dal manico, dritta, veloce, appuntita. L’altro lo guardò, più stupito che spaventato. Adolfo colpì con violenza. La punta lacerò la giacca penetrando fra due costole. Estrasse la lama e colpì di nuovo, di nuovo, di nuovo. L’odio. Quelli dalla vita tranquilla: distruggerli tutti. Ancora un colpo, ancora, ancora. Con un gemito l’aggredito crollò a terra. Adolfo si curvò, s’impadronì del portafoglio. E via di corsa.

Chiuse il coltello e se lo fece scivolare in tasca. Fu allora che notò il gruppo di uomini nel vicolo e il rosso sulle proprie mani. Se le ficcò subito in tasca. Ma quelli che gli venivano incontro erano solo degli ubriachi e non badarono a lui. Si tenevano abbracciati, cantavano. Li superò rapidamente e giunse a “casa”. Qui corse al gabinetto a lavarsi. Non immaginava tanto sangue e ne fu atterrito: le mani, il coltello, l’interno delle tasche, il portafoglio. Lavò tutto furiosamente.

Rabbrividendo, si rifugiò nella sua stanza e poté finalmente guardarsi con comodo la preda. Uscirono dal portafoglio alcune banconote, non molte in verità, e poi i documenti del morto. Gli diede fastidio toccarli. Ed ecco le inevitabili foto: una donna piuttosto bella, due bambini, un gruppo con tutta la famiglia: sorridevano.

Adolfo ebbe sete. La bottiglia che teneva accanto al letto era vuota. Andava sempre a riempirla d’acqua al gabinetto. Ma questa volta, chissà perché, non si decideva a muoversi. Immobile, stette in ascolto. Chi c’era là ad attenderlo, là, dietro quella porta chiusa? Ormai anche le ombre proiettate dai vari oggetti della camera, illuminata dal debole lume sul comodino, erano diverse. Non c’era niente che fosse uguale a prima, dentro quella maledetta scatola, quella tomba con quattro muri ingialliti che da tanto tempo abitava. E dietro quella porta che cosa lo attendeva?

Si sentiva assediato e volgeva gli occhi intorno, come invocando salvezza dalle cose inanimate che lo circondavano. Ma tutto gli era ostile. Afferrò il portafoglio e lo scaraventò via. L’oggetto sbatté contro la parete e ricadde, aprendosi e spargendo carte e fotografie. Una foto di donna cadde ai suoi piedi, oscillò un istante e si rovesciò. “Ti amerò sempre. Giulia”, si leggeva sul retro.

Distruggere tutto ciò, presto, presto. Di colpo divenne il suo pensiero dominante. I terrori fantastici gli avevano fatto dimenticare i pericoli veri: quel cadavere in strada, ormai sicuramente scoperto, le indagini, la polizia forse già sulle sue tracce. La prigione. Era difficile procurarsi droga in prigione, se non si era ben piazzati nella malavita. Agire bisognava, ma presto, presto. Raccolse in un mucchio tutto il contenuto del portafoglio e lo bruciò ― nella sua confusione per poco non fece fare la stessa fine anche ai soldi. ― Fumo e puzza di carta bruciata. Qualcuno se ne sarebbe accorto? Il pensiero che quello non era un quartiere di gente loquace lo rassicurò un poco.

E il portafoglio vuoto? Era stato una bestia ― solo adesso se ne rendeva conto ― a non indossare guanti, togliendo subito il denaro e gettando via il resto per la strada. Ma era tardi per i pentimenti, ormai. O almeno per i pentimenti di quel genere.

Aperse guardingo la porta. Il corridoio era vuoto, oscuro. Andò a gettare via la cenere di quelli che erano stati i documenti di un uomo e le fotografie dei suoi cari. Il cesso inghiottì ogni cosa. Spense la sete bevendo a lungo attaccato al rubinetto del lavandino. Il desiderio della droga tornava a ondate sempre più forti, e con esso un’inesplicabile angoscia: perché? Ma Adolfo confidava nella potenza consolatrice dell’eroina che ormai, col denaro, non poteva più sfuggirgli. Infine andò a letto. Era l’alba e in breve dormì. Aveva lavorato tutta la notte ed era molto stanco.

Lo svegliò di soprassalto un battere imperioso alla porta. Chi poteva essere? “Devo aprire”, pensò. E in quel momento s’irrigidì. In mezzo alla camera, sul pavimento, accusa schiacciante e tremenda, un portafoglio vuoto. Il ricordo della notte si risvegliò in lui come una belva ferita. Afferrato l’oggetto, lo nascose nel comodino. Poi aperse la porta.

Non era la polizia come aveva temuto, ma il gorilla della camera accanto. Quel volto inespressivo, brutale, quasi senza fronte, gli diede un sordo malessere fisico.

― C’è puzza di sbirri. Hanno fatto fuori un tale, stanotte. ―

― E io che c’entro? Non ho fatto niente, io. ―

―E chi t’ha detto niente? Era solo un avviso ― ribatté l’altro, voltandogli bruscamente le spalle e allontanandosi.

Già, avvisavano sempre in casi del genere. Conviene essere informati. Uno può avere un po’ di refurtiva, della polvere bianca, dei documenti falsi, della merce di contrabbando da far sparire.

Lui aveva quel portafoglio. Per un po’ non riuscì a connettere, sopraffatto dal panico. Poi prese l’oggetto tra due dita e lo mise nel catino di metallo che teneva su una sedia accanto all’armadio. Ci versò della benzina da smacchiare e diede fuoco. La puzza intollerabile lo costrinse ad aprire la finestra. La pelle e la vernice bruciavano male, con un fumo spaventoso. Alla fine non fu più che un grumo nero, irriconoscibile. Il fondo della bacinella era rovinato. Adolfo andò al gabinetto, gettò nel cesso ciò che restava di quella prova contro di lui e ripulì alla meglio il catino.

Poi si vestì e, portando con sé il denaro, scese in strada. Niente poliziotti in vista. Ma non significava nulla. Erano certo lì intorno, in borghese, i piedi piatti.

Andò a mangiare alla solita osteria. Qui non si discorreva che del fattaccio, ed egli sentì una specie di torbido orgoglio: aveva compiuto finalmente qualcosa di cui tutti parlavano. Ma la sua soddisfazione non durò a lungo.

― Se pesco chi è, ce lo porto io dagli sbirri; parola ― diceva un noto pregiudicato. Una bella carriera: due banche, un furgone postale, la cassa di alcuni cinema, e solo pochi mesi di galera. Un tipo sveglio, deciso. Difficile prenderlo, ma soprattutto impossibile tenerlo dentro, grazie ad un giudice particolarmente generoso e democratico.

Gli altri commenti, tutti sullo stesso tono. Un omicidio così efferato e stupido, proprio lì in mezzo al quartiere, offendeva il senso di proprietà e di ordine nutrito dai delinquenti. Anche se di prigione si usciva più facilmente che da un albergo, con i secondini intimiditi e quasi ossequiosi, il carcere era pur sempre un fastidio, sovraffollato, scomodo. Per l’intera mattinata, i soliti traffici avevano subìto un rallentamento: c’era stato un gran daffare a celare o distruggere le cose più disparate che potevano diventare prove a carico. C’era stato un paio di perquisizioni e ci avevano rimesso alcuni galantuomini sorpresi in mezzo a un deposito di computer e apparecchi televisivi nuovi di zecca che per caso di trovavano lì e dovevano ancora essere smistati.

Adolfo si sentì la gola stretta e non poté più mangiare. Se ne andò vagando per i vicoli e giunse a quel luogo. Niente di speciale. Ovvio: avevano già portato via tutto. Ma a lui la viuzza appariva come la notte scorsa, col morto lì in mezzo. Sangue sulle vecchie pietre del selciato, sangue dappertutto. Si allontanò di corsa. Si sentiva impazzire senza un po’ di droga. Ecco il tugurio del solito trafficante. Lo chiamavano “il mediatore”, perché la sua vera attività, che era assai più vasta di quanto apparisse, come un’immensa tela tessuta con infinita abilità da un piccolo ragno, si svolgeva sotto la facciata di un’infima agenzia per la compravendita d’immobili. Si diceva di lui:

― È onesto. Non mette bicarbonato nell’eroina. ―

Senza rendersene conto, Adolfo aveva assunto l’inconfondibile atteggiamento del colpevole. Spiava intorno a sé, temendo di veder spuntare da un momento all’altro gli sbirri, o qualcosa di peggio, d’infinitamente peggio, su cui non osava fermare la propria immaginazione. Viuzze strette, grigie, soffocate da muri di case altissime, a sette, otto piani che quasi giungevano a toccarsi, unite da arcate in muratura e da corde sovraccariche di panni stesi. Benché fosse l’ora più calda e luminosa, la luce filtrava scarsa fino al fondo di quei tortuosi budelli di pietra.

Lo studio del “mediatore”: una stanzuccia bassa, dalla volta irregolarmente curva, con una finestrucola aperta sul rumore del vicolo, una poltrona dalle grosse borchie che trattenevano una copertura di falso cuoio che si sollevava a tratti, sfrangiata e irregolare, quasi volesse strapparsi di là e fuggire all’aria libera, alcune sedie, una grandissima vecchia stufa di ghisa che, chissà perché, era sempre spenta. Tutt’intorno, attaccati ai muri, avvisi di appartamenti e stamberghe varie, da affittare o da vendere. Il padrone, già avanti negli anni, i radi capelli impomatati, l’aria affabile, lo accolse con un:

― Ah, sei di nuovo qui? ―

Non suggeriva l’idea di un criminale; piuttosto quella di un barbiere di periferia, di quelli svelti, che fanno di tutto per accontentare il cliente.

Guardò subito con diffidenza il denaro che Adolfo gli porgeva, esaminandolo banconota per banconota. Quando vide che non era segnato né recava tracce di sangue, si decise ad accettarlo. Di ciò che potevano essere i suoi sospetti, non fece parola. Da un ingegnoso nascondiglio all’interno della stufa estrasse alcune bustine. L’altro se ne impadronì avidamente e corse via.

Poco dopo, nella sua stanza, con mani tremanti, Adolfo si preparò una dose di eroina un po’ più forte del solito e poi ve aggiunse ancora, e ancora, e ancora, febbrilmente, per prolungare la visione e sfuggire al persecutore che si portava dentro, confitto nel cervello.

“Proprio una bella dose”, pensò con soddisfazione prima che la stanza e gli oggetti reali svanissero. Rapidissimo, guizzò davanti ai suoi occhi il serpente. Si sentì come sollevato in aria da un turbine impetuoso, non si apparteneva più.

Un viale rettilineo, angusto, infinitamente lungo, delimitato da diritte, altissime muraglie di pietra che si perdevano in lontananza. Nient’altro. Ed ecco le pareti animarsi di figure umane come scolpite in rilievo: un numero immenso, a perdita d’occhio. Le figure si animavano, si volgevano tutte da una stessa parte e camminavano, camminavano. Adolfo si poneva in marcia con loro, e tutti insieme procedevano avanti, avanti, avanti, verso una meta invisibile, laggiù, laggiù, dove i muraglioni parevano convergere e confondersi. La legione degli spettrali rilievi semoventi avanzava. Era come se le mura di pietra vibrassero, percorse da onde uniformi e regolari.

Rabbrividiva l’enorme folla. Avanti, avanti, avanti. “Dove vanno?”, si domandava Adolfo. Le pareti ormai si richiudevano in alto a formare un corridoio sempre più oscuro. E dentro il sogno desiderò svegliarsi e fuggire da quella visione. L’estasi della droga gli era divenuta più odiosa della realtà, per sordida che fosse.

Ma l’incubo non cessava. L’aria appariva come solida, spessa, pesante. E i fantasmi di pietra fluttuavano, avanzando monotoni, senza tregua.

Adolfo si accorse d’aver vicino il serpente che strisciava, strisciava, immenso, riempiendo la galleria con le sue spire attorte, obbligandolo ad addossarsi ai palpitanti rilievi, di cui aveva assunto il passo e l’andatura. “Dove andiamo?”, sussurrò a se stesso. Le pareti erano oscure, ma diventavano sempre più roventi, in modo insopportabile, ora che era costretto ad addossarvisi sempre più strettamente.

Vide la testa del serpente strisciare alla sua altezza e paragonò, con una sorta di morboso piacere, la velocità del rettile con quella del lungo corteo di cui era ormai parte.

Per un attimo tutto svanì e si trovò come sospeso nell’aria, di fronte ad una figura maestosa, sacerdotale, splendente di una luce intollerabile, con segni di ferite alle mani e ai piedi, che senza parole pronunciò la sentenza:

― Via da Me. ―

Accanto a quella terribile figura, a guardarlo in silenzio, ce n’era un’altra, quella di un uomo che una volta, secoli fa, aveva incontrato in un vicolo, con un coltello fra loro due. E in quel momento seppe, senza che venisse proferita una singola sillaba, che l’uomo non stava affatto ritornando a casa dopo una caccia al divertimento, ma era solo un contabile che si era attardato a fare il suo dovere in ufficio, perché l’indomani doveva presentare un bilancio. Quella visione luminosa lo riempì di un orrore senza fondo, di una sofferenza per la propria indegnità, che solo in quel momento riuscì a percepire, tanto che il più spaventoso inferno immaginabile gli apparve come un sollievo. Dal fondo di un’angoscia devastante, invocò il serpente che venisse a liberarlo.

Non ce n’era bisogno. Si ritrovò di colpo nella galleria buia e rovente, tutto era come prima. A poco a poco, per lentissimi gradi, la grande testa triangolare del rettile oscillò e prese a volgersi verso di lui.

Ed ecco un bagliore rossastro, due rubini più luminosi di stelle nel buio di quel sepolcro puntarglisi addosso, frugare il suo essere come lame di coltello. Gli occhi del serpente. Tutta la sua esistenza in un attimo sfilò davanti a lui. E sentì, con sofferenza disumana, che ogni istante di essa veniva fissato per l’eternità: non poteva più mutarla in alcun modo nel futuro. Perché non c’era più futuro.

***

Soltanto l’inconfondibile odore segnalò, tre giorni dopo, che la camera, terminati gli accertamenti legali e la disinfezione, sarebbe stata libera tra poco per un nuovo ospite.

 

(fine)

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