Inquietanti visioni in un dipinto di Lorenzo Lotto

Spesso Lorenzo Lotto viene interpretato dagli storici dell’arte secondo una lettura che prende avvio in ragione dei particolari, quasi parafrasando il motto tedesco: Der liebe Gott steckt im Detail, il buon Dio si nasconde nei dettagli. I dettagli, quelle “materiali piccolezze” che contraddistinguono il “maestro dell’iconologia moderna”, dai quali gli esperti partono per interpretare il tutto. Confesso di mal sopportare Lorenzo Lotto, i suoi dettagli da studiare per dimenticarsi del messaggio salvifico.

Detto ciò, preme fare un rilievo su di una famosa e ponderosa pala d’altare che ho sotto gli occhi ogni domenica mattina che il Signore manda su questa terra, a causa della costante visione della quale – e per la fatica di pregarci sopra –, mi sono formato un’idea eterodossa rispetto alla beatificazione lottesca, ma forse non del tutto peregrina.

Trattasi della “Pala di san Bernardino” (1521, cosiddetto “Lotto maturo”), la quale trovasi nella chiesa di san Bernardino in Bergamo: Madonna in trono con Bambino, San Bernardino (sdentato), cui è dedicata la chiesa, San Giuseppe accigliato con manica scucita all’altezza della spalla, Sant’Antonio Abate ipovedente, tutti circondati da angioletti con ali di ghiandaia, ironici suggelli d’arte rinascimentale.

Per la verità la Vergine è molto ben riuscita: a detta di chi se ne intende, un capolavoro da visitare. Ci sono, però, elementi che basano un’interpretazione diversa. Essi sono di due tipi: uno prettamente artistico, dato da luce e costruzione dell’immagine generale ovvero il movimento, e l’altro di concetto, ovvero l’incongruenza concettuale metafisica dell’opera.

Partiamo da ciò che si vede. Il volo angelico innesca la direttrice d’attenzione: le linee di costruzione del dipinto, rese dalle gambe degli angioletti in collaborazione con le braccia di Giovanni Battista e san Bernardino, portano a un movimento convergente tramite diagonali intersecanti in un punto di fuga idealmente dietro la mano protesa della Santa Vergine. La quale, però, drammaticamente, non mostra il Bambino Divino, ma in un certo senso lo nasconde, quasi ritraendolo, per mostrare invece a Lui, e al pubblico, l’essere ai suoi piedi, che non schiacciano (come mai fanno nell’opera del Lotto) il serpente antico.

A parte il fatto che gli angeli non hanno un corpo fisico per cui non proiettano ombre, discorso, pare, ozioso perché ignorato praticamente da tutti gli artisti. Perché mai si dovrebbero rappresentare i Cieli aperti, per poi richiudere Dio sotto un panno scuro? Il movimento volatile degli angeli dalle ali nere è questo: coprire la scena agli occhi del Padre, mettendo in ombra il Figlio con la Vergine. Quale è il fine? E qual è il fine del dipinto?

I dotti, a riguardo dell’impianto dell’intera opera, hanno scritto che il Lotto ha rinnovato gli schemi topici antichi che risalivano all’iconografia bizantina. Non so se li abbia rinnovati, ma di certo li ha deviati. Verso altro che non la fede cristiana. È un’arte che non va oltre l’umano illudendo di non essere solo umana.

L’arte di Lorenzo Lotto non è finalizzata a dar gloria a Dio, ma spesso contiene già il messaggio di un’art pour l’art, oltre che pour le maitre client. L’artista inserisce nelle sue opere spesso messaggi in conto terzi, come un mazzo chiavi, che nulla hanno che vedere con San Domenico, nel polittico per il convento di Recanati del 1506-1508, nella quale regna una generale e immotivata atmosfera malinconica sul volto della Vergine e del Bambino. Altre volte gioca creando una sorta di rebus, insomma la santità di Dio per il Lotto è un pretesto per far quel che gli pare magari facendo quattrini. In ciò sta, a parer mio la sua più grande modernità, che definirei quasi post-conciliare.

Esprime il paradigma della religiosità umanistica non solo ben avviata verso la secolarizzazione della chiesa, ma teologicamente incardinata su un concetto implicito e taciuto della follia di esistere, che sfocerà nei secoli seguenti nella lotta aperta contro Dio, la sua presunta perfidia prima da parte dell’Illuminismo, e riguardo la sua sostanziale inesistenza, poi, con il la nuova religione del postmodernismo.

Si è parlato perciò delle posizioni nuove dei personaggi, della ricerca dell’Inventio. Novità, come vestiti strappati e santi senza denti, sarebbero la ricerca di quell’inventio per cui serve un’argomentazione valida al fine di sostenere che l’opera non parli d’altro che del proprio autore. Altri decantano la quotidianità della scena, forse perché sant’Antonio Abate si sporge perché non ci vede, anche lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, talmente la scena è quotidiana, disse a proposito della Pala di S. Bernardino: “Sotto lo schermo leggero […] la sacra conversazione perde ogni ritualità; diventa amabile e confidenziale: con un gesto dimostrativo, quasi da popolana, la Madonna sembra dichiarare […] che tutta la verità è lì, nel Cristo bambino e benedicente”.

Noi non ci vediamo nulla di tutto ciò. Tutti questi ragionamenti, che sembrano tanto esegesi bergogliana, starebbero a indicare la miseria umana, ma anche una riflessione teologica sull’immanenza del Bene e del Sacro, la presenza del divino nella storia. Questa “sacra conversazione” per immagini si svolge su un mondo deserto, in cui l’unica nota umana è una casa che brucia, e nessuno corre a spegnere l’incendio. Una casa in fiamme dalla cui porta spalancata esce però una luce di lampada, non di incendio, una parodia rovesciata del biblico roveto ardente, in cui l’opera dell’uomo va in fiamme senza consumarsi in una fiamma di inestinguibile superbia di chi vuole farsi Dio. D’altra parte, il Lotto non è nuovo a scene di saccheggi, come si attesta anche nella “Trinità” sempre a Bergamo.

Da ciò si giunge inevitabilmente al discorso sulla luce. Basta guardare l’insensatezza della luce. Le fonti non sono naturali, ma nemmeno soprannaturali, è come se la luce fosse gettata sul quadro dallo spettatore, o forse, maliziosamente, dall’autore. Ma ritorniamo alla pala e nella fattispecie alle ali angeliche.

Queste ali non sono le ali degli angeli di santa Cristina di Quinto di Treviso e nemmeno quelle degli angioletti della Madonna Assunta di Asolo. Qui si vedono ali torve, osservate da lontano sembrano di corvo, quasi ali di pipistrello. In realtà sono ali di un altro corvide, la ghiandaia imitatrice. Non risulta dalla Bibbia che gli angeli abbiano ali di ghiandaia, credo sia perfino un hapax nella storia dell’arte. Perché proprio ali di ghiandaia? Si è detto, amor di inventio. Niente affatto, nell’insieme dell’opera, in ragione della somma dei dettagli, a ben vedere l’unica inventio sta nel fatto che, in questo caso, non già il buon Dio, ma il diavolo stesso si annida nei dettagli.

Gli angeli hanno ali di ghiandaia perché la ghiandaia imita il verso di altri uccelli, di altri animali, come il gatto, e perfino dell’uomo: questi sono angeli caduti. Sono demoni che imitano gli angeli, da angeli camuffati, ecco perché si affannano a nascondere Dio. Ecco, dunque, la chiave di lettura di tutta l’opera, che all’opera intera dà senso compiuto, risolvendone le contraddizioni concettuali.

Il movimento dell’opera rimanda alla mano dell’Immacolata, si è detto, ma essa annuncia in basso Lucifero intento a scrivere chissà che, forse la condanna a morte di Dio. Quelli non sono occhi arguti di un giovinetto angelico, come è stato scritto, che chiederebbe al visitatore di dettare una preghiera o recitare il rosario. Che non sia un giovinetto angelico o un putto di riempimento appare chiaro, non fosse altro che, diversamente dagli altri angeli, è vestito. Porta un saio marrone su una camiciola azzurra. Perché mai? Per nascondere la coda, intravista facilmente nel panneggio da chi sappia cosa guardare.

Il volto inquietante di questo angelo non è in effetti dissimile dal volto di Lucifero prodotto dal Lotto stesso nell’opera “San Michele scaccia Lucifero”, conservata nel museo di Loreto. I dettagli di quest’altra scena pittorica sono altrettanto inquietanti. Non solo il volto, ma lo stesso corpo dell’angelo decaduto viene raffigurato identico a quello dell’angelo fedelissimo, Michele, come in uno specchio. La posizione delle gambe è, infatti, identica ma invertita.

Suscitano estrema curiosità perciò, in parallelo, le linee dei tre bastoni nel dipinto in san Bernardino, i quali sono prolungamenti allusivi alla direzione del piede dell’angelo caduto, che punta verso il basso, verso il secondo punto di fuga, o meglio d’origine, diametralmente e spazialmente opposto al palmo della vergine in un’ipotetica pala rovesciata. La luce viene dal basso, fuori campo.

Per finire, a latere rimane il discorso cromatico: il Lotto utilizza tutte le sfumature del rosso, una gamma di colori caldi, col risultato di creare un ambiente gelido. Il trono squadrato di pietra algida restituisce l’impressione che tutti abbiano freddo, san Giuseppe sembra persino sfregarsi i piedi nudi nel tentativo di scaldarsi un po’, i fiori sono gettati, morti e sfatti.

“Solo, senza fidel governo et molto inquieto nella mente”. Così si definì Lorenzo Lotto nel suo testamento.

Questo dipinto del Lotto in qualità di pala d’altare è uno specialissimo fenomeno di contraddizione teologica. Ora, che l’arte non debba rendere conto a se stessa di ciò che fa può, in extrema ratio, anche andare, ma dovrebbe almeno render conto al committente, il quale soprattutto dovrebbe fare (e farsi) due domande sul prodotto che si sta mettendo in casa. O, nel caso specifico, nella casa di Dio.

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