Ivan Illich. Un antimoderno da riscoprire

Mi batto per una rinascita delle pratiche ascetiche che tengano vivi i nostri sensi nelle terre devastate dallo show, in mezzo a informazioni schiaccianti, a consigli infiniti, alla diagnosi intensiva, alla gestione terapeutica, all’invasione di consiglieri, alle cure terminali, alla velocità che toglie il respiro”. Così scriveva Ivan Illich al termine della sua vita, devastato da un tumore al volto, nel suo ultimo libro, La perdita dei sensi. Illich è forse il pensatore più strano, inclassificabile e complesso della seconda metà del XX secolo.

Dalmata nato a Vienna nel 1926, educato in Italia, sacerdote cattolico in rotta con la gerarchia ma sempre profondamente cristiano, collaboratore in gioventù del cardinale americano Spellman, poi animatore di un singolare esperimento educativo in Messico, il CIDOC, Centro Intercultural de Document­aciòn, poliglotta dalla vastissima erudizione, docente in varie università, tra cui Trento, e poi scrittore, storico, polemista acutissimo sino alla morte nel 2002.

È impossibile definire in poche battute la complessità del suo pensiero, radicalmente antimoderno nell’attacco frontale all’idea di sviluppo e progresso, mai reazionario o passatista. Il nucleo della sua riflessione è a nostro avviso la scoperta che il regime tecnologico in cui viviamo vuole costruire attraverso la scienza un paradiso fatto da mano d’uomo, che ci allontana sempre più dal contatto con la terra, la natura, l’umanità. Mostrò la perdita dei nostri sensi con lo svilupparsi di una società sempre più astratta, dominata da regolamenti “tecnici” e da scelte che diminuiscono il libero arbitrio sino ad esaurirlo. Fuori dal conformismo accademico e dal baccano falso rivoluzionario, difese il dubbio sistematico contro le versioni ufficiali e le verità di comodo del potere in una società che ha istituzionalizzato ruoli e desideri, li ha trasformati in bisogni e servizi, ha debilitato la persona e disintegrato il tessuto comunitario, amicale e reciproco.

Impossibile inserire Illich nelle caselle della destra e della sinistra. Irregolare e per niente allineato alla Chiesa istituzionale, considerata una grande impresa che forma professionisti della fede per assicurarsi la sopravvivenza, rimase tuttavia un pensatore cristiano, sino all’affermazione di essere rimasto uno dei pochissimi preti fedeli al giuramento antimodernista. In una lectio magistralispresso un’università protestante confermò la sua fede religiosa messa alla prova da una vita da archeologo delle idee, convinto che la civiltà occidentale moderna “ha banalizzato la Croce trasformandola in croce, parola messa in ogni salsa per designare tutta la miriade di mali che la società occidentale cerca di eliminare con la sua organizzazione e le sue tecniche”.

Illich fu un radicale nel senso più autentico, ovvero uno che va alla radice dei fenomeni per portare alla luce il lato oscuro della nostra civiltà, l’ideologia dello sviluppo illimitato.  Rifuggendo dalle tesi metafisiche con la stessa energia con cui rigettò il massimalismo di Marcuse, svolse una penetrante indagine sugli effetti perversi dello sviluppo tecnologico moderno, passando dalla denuncia dell’inefficienza e della strumentalità del sistema scolastico che non educa, ma addestra all’adesione acritica ai fondamenti dell’ipermodernità, alla medicalizzazione della vita, alla paradossale paralisi dei trasporti per sovraccarico, sino alla crisi ecologica. Colse la pericolosità di un fenomeno centrale della nostra epoca, l’inversione di senso delle pratiche più basilari della vita umana, sottratte al limite e alla sorgente creativa disseccata della libertà personale.

Se è vero che esiste un kairòs,il momento giusto, la pienezza del tempo, l’ora di Ivan Illich è adesso. Ne è convinto il filosofo Giorgio Agamben nella densa introduzione dell’opera più problematica del prete di Cuernavaca, Genere e Sesso, il cui sottotitolo è “per una critica storica dell’uguaglianza”. Le sue opere degli anni 70, Descolarizzare la societàe Nemesi medicalo avevano reso famoso e controverso, con un giudizio sospeso tra quanti lo consideravano un critico cristiano di scienza e tecnica in nome di ideali comunitari retrogradi o, al contrario, il “primo ricercatore sociale della nostra epoca, come Marx lo fu della sua” (Gilles Martinet e Jean Marie Domenech).

Un’altra lettura lo inquadra come esponente iconoclasta dell’onda lunga del Sessantotto. Possiamo considerarlo come il più complesso, problematico e trasversale degli autori comunitaristi, inclassificabile in qualsiasi categoria ideologica, eccetto, crediamo, nella personalità intimamente cristiana, di cui è testimonianza ciò che Illich scrisse nell’introduzione di Genere e sesso. “Nello studio della storia, è diventato per me motivo di scandalo sempre maggiore il fatto che gli orrori della modernità possano essere compresi solo come sovvertimento del Vangelo. (…) Mi ha spinto la ripugnanza di fronte alla corruptio optimi quae est pessima. Questa corruzione di ciò che è eccellente (il Creato N.d.R.) è per me l’enigma su cui fare luce.”

Fu oggetto di attacchi da destra e sinistra. Da un lato, gli si rimproverava il suo drastico rifiuto del liberalismo individualista indifferente alla sofferenza di molti, dall’alto era inviso per il suo attacco alle istituzioni burocratiche, sclerotiche, autoreferenziali, alla pretesa di organizzare la vita e sostituirsi al libero dispiegamento della personalità di ciascuno. Fu tra i primi a cogliere il nesso tra liberalismo capitalista e marxista nella comune adesione al dogma del produttivismo, della tecnica, del progresso. Forse per questo ebbe un’infatuazione per la Cina di Mao, che sperava potesse diventare l’avanguardia di un recupero della dimensione “conviviale” smarrita dall’uomo della modernità.  Il termine è uno specifico apporto di Illich al lessico sociologico e filosofico.

Convivialità è stare insieme, utilizzare strumenti di vita e conoscenza non riservati a un corpo di specialisti che ne detengono il controllo. Lo strumento moderno è il prodotto dell’era industriale che ha ridotto la persona a usufruire solo di materia precedentemente “lavorata”; lo strumento reso fine crea il monopolio industriale che trasforma in consumatori docili e disciplinati. La nozione di “monopolio radicale” è per Illich la produzione “sovrefficiente” di serie, che dà luogo non al dominio di una particolare marca, ma esercita il controllo esclusivo sul soddisfacimento di bisogni indotti, “escludendo ogni possibilità di ricorrere, a tal fine, ad attività non industriali”.

Austero è per lui l’uomo che trova la propria gioia nell’impiego dello strumento conviviale. L’austerità è una virtù posta da Aristotele e San Tommaso d’Aquino a fondamento dell’amicizia, che non esclude i piaceri, se non quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. Pervenire alla convivialità comporta il recupero della dimensione “vernacolare”, lo spazio in cui nulla può essere ridotto a merce. Il significato originario del termine vernaculumdesigna ciò che è fatto in casa, non destinato al mercato ma allo scambio domestico. Uno degli obiettivi della trinità moderna, capitale, burocrazia, scienza, è annullare lo spazio vernacolare (estraneo al mercato, comunitario, conviviale), i suoi codici, la sua stessa lingua al fine di ottimizzare- omogeneizzandoli e facendoli oggetto di monopolio radicale – gusti, desideri e bisogni degli esseri umani.

Significativa è una riflessione in cui Illich osservava che più della metà della produzione economica moderna fa parte della categoria di servizi la cui esistenza è dovuta al fatto che gli atti di misericordia cristiana sono stati ricondotti ad attività economiche e diventano “prodotti” a pagamento, dispensati da una casta aborrita, quella degli “esperti”. Fortissima è la polemica contro la medicalizzazione della vita, un’espropriazione della salute che ha condotto alla gestione professionale di due elementi inestinguibili della condizione umana, il dolore e la morte. Le minacce più grandi alla salute integrale della persona provengono per Illich dalla crescita abnorme dell’organizzazione sanitaria e lo sviluppo industriale di tecnologie e servizi ad essa dedicate: un esempio di monopolio radicale analizzato in Nemesi medica.

Destò clamore Descolarizzare la società, in cui, lungi dal sostenere l’ignoranza di massa, cercò di proporre un modello educativo di sviluppo integrale e autonomo dei giovani, lontano dall’accumulo obbligatorio di nozioni strumentali allo svolgimento di funzioni. Illich detestò la scuola come prolungamento dell’ideologia tecnoproduttiva e burocratica della società, volta a plasmare operatori ai vari livelli, persino “esperti”, ma non membri consapevoli di una comunità. La sua tesi centrale ha a che fare con il concetto chiave della modernità, la crisi; istituzioni e tecnologie finiscono per tradire i loro obiettivi poiché riducono tutto a merce: la salute, l’educazione, il sistema dei trasporti. Diventano cioè controproduttive, producendo esiti paradossali.

Noto è l’elogio della bicicletta, che alla prova dei fatti si rivela, nell’era della velocità programmatica e della mobilità obbligatoria, il mezzo più veloce e efficiente. Illich enunciò il teorema della lumaca, giudizioso animale che smette il proprio sviluppo quando una in più delle sue spire aumenterebbe di 16 volte il suo peso e il suo volume, decretandone la morte. Introdusse il concetto di “tempo generalizzato”, portatore di controproduttività. Un automobilista che compie 15.000 km annui con la sua autovettura ha bisogno di almeno 1.500 ore di lavoro per procurarsela. La macchina va veloce, traffico permettendo, ma se sommiamo tutto ciò che l ’automobile ha richiesto, la velocità, in termini di tempo generalizzato, è di 10 km/ora, meno di una bicicletta.

Ingozzare il mondo di energia non significa produrre benessere. Assai sorprendente è la riflessione sulle cosiddette professioni disabilitanti. Uno dei poteri più vasti, indiscussi e prestigiosi del nostro tempo è quello degli esperti, che mettono le loro conoscenze al servizio della mega macchina burocratica e tecnologica. Dispongono di un potere che Illich chiama disabilitante, in quanto toglie agli uomini il controllo delle loro, facendo disimparare gran parte delle conoscenze e capacità che la società vernacolare sapeva sviluppare al di fuori del mercato, delle leggi scritte e del controllo sociale.

La grande illusione moderna smascherata da Illich è che “l’uomo nasca per consumare e possa raggiungere qualunque scopo acquistando beni e servizi”. Al contrario, “ciò che la gente compie o fabbrica senza alcuna intenzione di farne commercio è altrettanto incommensurabile e inestimabile per il mantenimento di un sistema economico quanto l’ossigeno che essa respira”. La maggioranza non si ribella al sistema che “crea bisogni più rapidamente che soddisfazioni”per la capacità del potere di generare diversi tipi di illusioni, in quanto le istituzioni professionalizzate, oltre a compiere atti concreti sui corpi e le menti “funzionano come potenti rituali, generatori di fede nelle cose che i loro gestori promettono”.

Un’altra illusione nasce dalla confusione tra libertà e diritti. Le libertà tendono alla salvaguardia dell’autonomia individuale – quindi alla produzione di valore d’uso – i diritti tutelano l’accesso alle merci (inclusi i servizi) e contribuiscono a definirne il carattere di obbligatorietà. L’esito è un cortocircuito che Illich chiama con il termine mitologico di Nemesi, la punizione che l’uomo attira su di sé per la sua presunzione e fiducia scriteriata delle istituzioni della megamacchina. Per lui, con l’industrializzazione del desiderio e la tecnicizzazione delle relative risposte circolari, desiderio -consumo- insoddisfazione-desiderio, la dismisura è divenuta fenomeno di massa.“Il progresso materiale è diventato l’obiettivo di Ognuno. La hybris industriale ha infranto la cornice mitica che poneva limiti alle fantasie irrazionali, ha fatto sembrare razionali le risposte tecniche a sogni insensati in una cospirazione tra fornitore e cliente”.

Illich cerca di fornire soluzioni, provando a reiventare il limite nella cosciente accettazione dell’austerità “conviviale”. La soluzione è generosa ma utopistica se non è sorretta da quel forte impianto di principi etici comunitari e spirituali che la modernità ha screditato e gettato nella spazzatura. Più efficace è la rivendicazione di cinque diritti fondamentali della persona orientati a ristabilire un equilibrio “multidimensionale, aperto, suscettibile di modificarsi entro parametri flessibili e tuttavia finiti”, minacciato su diversi piani dell’esistenza.

Il primo diritto è quello di conservare le radici nell’ambiente in cui si sono formate, evolute e sviluppate. Poi occorre mantenere l’autonomia dell’azione contro il monopolio radicale, la sua intenzionalità, vanificata dalla super programmazione, minacciata dall’azione degli esperti e dalla potenza devastante della macchina produttiva; il diritto alla parola revocato dalla polarizzazione del potere, i cui strumenti non sono stati mai tanto estesi e “accaparrati a tal punto da una ristretta élite”. Infine l’uomo, per tornare a se stesso, ha diritto a vivere nella tradizione, travolta dall’obsolescenza programmatica che produce la svalorizzazione del passato e nega “il ricorso al precedente. “

Sostenevamo all’inizio che il tempo di Illich è adesso. Le sue idee furono espresse soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, ma la loro attualità si è fatta ora bruciante; la preveggenza del prete croato-austriaco lascia senza fiato. La natura, afferma Illich nella Convivialità, è snaturata, l’uomo castrato, sradicato nella creatività, rinserrato nella sua capsula individuale. La collettività è governata dal gioco combinato di una polarizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza. Il monopolio radicale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. Poco importa se si tratti di un monopolio pubblico o privato: la degradazione della natura, la distruzione dei legami, la disintegrazione dell’uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale.

Siamo talmente deformati dalle abitudini industriali e tecnologiche che non sappiamo più scrutare il campo del possibile. L’idea di rinunciare anche a una piccola parte di articoli, merci e servizi è per noi un ritorno alle catene del passato. L’uomo accessorio della megamacchina, ingranaggio della burocrazia, plastilina in mano agli esperti non ha davanti a sé un futuro degno della sua storia. Ivan Illich ci esorta a riconoscere l’esistenza di scale di priorità e limiti naturali. L’equilibrio della vita non può oltrepassare determinate soglie senza travolgere e stravolgere.

Esistono confini insuperabili da riconoscere e rispettare. È il compito a cui ci guida l’opera di Illich, l’irregolare del pensiero innamorato dell’uomo e mai dimentico di Dio. La macchina, spiega, non ha soppresso la schiavitù umana, le ha solo dato una diversa configurazione. Oltrepassata la soglia, la società diventa prigione, e comincia la reclusione per un’umanità cui è sottratta la dimensione etica, comunitaria, conviviale. Igienizzato, disinfettato, in parte biodegradabile, l’universo tecnologico resta un carcere, le cui sbarre postmoderne sono burocrati, esperti, tecnici, pubblicitari, persuasori, specialisti di tutto e di nulla: Nemesi.

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