Knut Hamsun. La felicità nei frutti della terra

A volte mi soffermo a riflettere sulla teoria dell’evoluzione della specie, ipotesi scientifica affascinante quanto falsa. Intendiamoci, la selezione naturale è sotto gli occhi di tutti, ciò che contesto è la speciazione, teoria non scientificamente provata, basta pensare che il dna si trasmette fisso e questa è una legge. Ma sarebbe fuorviante ora nella fattispecie una polemica di questo tipo, ci importa invece speculare se in verità non si dia il caso di un’involuzione della specie (diventeremo scimmie?). Leggendo l’opera che valse il nobel del 1920 a Knut Hamsun, il più grande scrittore scandinavo del XX Secolo, verrebbe da pensarlo. Come si è ridotto l’uomo europeo nell’ultimo secolo? Da robusto conquistatore di terre desolate, infaticabile dissodatore di terre vergini, anziché evolversi nel mitico superuomo delle velleità filosofiche, il maschio del ventunesimo secolo è divenuto ingegnerino allergico alle noccioline, impiegatuccio miope e malaticcio, operaio sindacalizzato dalla lunga noiosa vita di pensionato vacanziero, abbronzato dalle crociere più che dalle crociate. Quando va bene.

Intanto, il maschio millennial dovrebbe leggere Markens grøde, che “Il Centro Librario Occidente” di Palermo ha meritoriamente ristampato col titolo I frutti della terra. La monumentale opera del romanziere norvegese non può mancare sullo scaffale di chiunque voglia resistere alla follia tecnocratica postmoderna, aspirando ad una vita più naturale per le generazioni future. Salvare dall’oblio questo capolavoro equivale a salvare una fetta di terra quaggiù e un sorriso celeste lassù. I vostri figli vi ringrazieranno. 

Anticonformista, indifferente agli onori, Knut Hamsun, nato Knut Pedersen, fuggiva dalla sua casa il giorno di un suo compleanno per schivare la curiosità pubblica. Il suo gusto lo portava verso le piccole comunità rurali, tra le quali le isole Lofoten care alla sua infanzia. Le Lofoten e l’allmenning, il vocabolo norvegese Allmenning indica la terra senza padrone. Un immenso e gelido bosco artico (ma anche jüngeriano), dove l’uomo perde la via per poterla tracciare: «Il lungo, lunghissimo sentiero fra gli acquitrini e le foreste, chi l’ha tracciato, se non l’uomo?». Perde le comodità della città per trovare stesso: «L’uomo si decide, si stabilisce qui; sì, ecco che cosa fa: si stabilisce. Per due intere giornate percorre i dintorni; ma ogni sera torna alla prateria, e ogni notte dorme sul nudo suolo. Si sente già a casa propria; ha già il suo letto sotto una roccia». Un luogo dove l’uomo perde la sicurezza economica, la certezza di sopravvivere, per trovare la libertà: «Una pernice, che stava covando, si alza improvvisamente fra i suoi piedi, con stridi di spavento; e l’uomo ancora approva col capo, poiché ha trovato selvaggina da pelo e da piuma. Va fra i cespugli di mortella e di mirtilli, gli stellari silvestri e le felci; si ferma per scavare la terra e scopre qui dell’humus, là della torba, che la caduta delle foglie e i rami secchi ingrassano da migliaia d’anni». Qualcuno di noi potrà chiudere gli occhi per vedere quelli del proprio nonno, ricordarlo approvare con la testa, in silenzio, ma con un velo di apprensione, per il raccolto buono, un lavoro ben fatto.

Il romanzo è la storia di un uomo nella natura selvaggia, tra fiordi, foreste campi da dissodare. Una storia di lavoro, di morte innocente, di speranza, di amore e perfino depravazione. «Io sono un realista nel senso più ampio del termine», diceva. Una delle grandi costanti della sua opera è l’autentica avversione che egli prova nei confronti della borghesia che considera come l’accesso alla società industriale, alla modernità capitalista e urbana, al regno del denaro al quale egli oppone il suo realismo lirico. Non è esagerato affermare che l’amore sia l’anima vera della sua opera. Ma questo amore è inseparabile da una visione tragica, nell’amore il realismo tocca il suo vertice. Non è forse così la vita?

Per tutti questi motivi questa storia è un’epica della terra e del sangue, attraverso la colonizzazione, lo sviluppo di una fattoria come primo insediamento umano in terre desolate, fino all’impiantarsi di una umanità, una comunità di persone che si direbbero civili.

Si rivede in esso tutta l’avversione di Hamsun per la modernità che corrompe lo spirito. Egli indica la via per una ritorno alla vita naturale, una via dura, dolorosa, ricca di fatica e carica incomprensioni forse, e forse utopica, ma una cosa è certamente avvertibile: la realizzazione dell’uomo sta nel proprio rapporto con la terra, non esiste felicità per l’uomo al di fuori del proprio habitat naturale. 

«Non è forse un fatto che molto, molto tempo fa, gli uomini erano più felici di esistere di adesso?», si domanda lo stesso Hamsun, come riporta lo studioso finlandese Termo Kunnas, il quale sembra confermare un’intuizione involuzionista: «Non si tratta semplicemente di una decadenza sociale o politica, ma anche biologica e culturale. È lo stesso nucleo della vita che è stato colpito. L’uomo ha perso il contatto con le forze mitiche della vita, con l’istinto, con l’intuizione».

Può apparire un paradosso: dissodiamo, coltiviamo, costruiamo e ammazziamo l’incanto, poi, una volta persi in un’egocentrica banalità della vita, lo cerchiamo altrove. La verità sta nell’equilibrio, l’universo è un equilibrio dinamico, se lo cementifichi, lo affoghi. Nulla di troppo, dicevano gli antichi. Allora, e credo anche ai tempi del vecchio Hamsun, si illuminavano gli occhi di un uomo per un tozzo di cacio e un pugno di lana, oggi si illuminano se va a fuoco il lanificio. Sono considerazioni di mondo che fanno orrore a un paesano. Infatti Knut Hamsun è pressoché ignorato dai giovani del suo paese. I giovani norvegesi che ho conosciuto, sono impegnati nella caraibizzazione della razza. Intanto, quanto paventato ai tempi della falce che osserva con un sorriso triste la prima trebbia meccanica, lo vediamo bene noi postmoderni alienati dalla natura, quando ci arrabattiamo per un momento di quiete. 

Quanti soldi può spendere un ricco cittadino per un solo, miserabile momento di pace? Invece, «Sellanraa non è più un deserto»: laggiù l’uomo trova «la felicità che fiorisce ai margini degli abissi», direbbe Ernst Jünger.

3 commenti su “Knut Hamsun. La felicità nei frutti della terra”

  1. Dalla mia infanzia vedo questo campeggiare nella libreria dei miei, in un’edizione economica di inizio anni 60. Mi ha sempre ispirato suggestioni di un altrove che poi ho conosciuto, durante uno dei miei viaggi, proprio in Norvegia. Ora so che il mio fiuto non mi ingannava. La prima volta che farò visita ai miei anziani genitori lo leggerò, finalmente. Grazie per la recensione

  2. Ginetto Olivieri Passeri

    Articolo lirico, ma personalmente avrei una grossa obbiezione: una vita così è per pochi, ed infatti c’era ( e c’è ancora dove tale e rimasta la terra) quando la terra era disabitata, ma non è questa vita che potrebbe dare da mangiare agli affamati, vestire gli ighnudi, alloggiare i pellegrini ( già in una terra così non ci sarebbero i pellegrini: appena smetti di lavorare muori di fame!). Inoltre ho un errore da contestare all’ autore dell’ articolo: il DNA non si trasmette affatto inalterato ( e i virus ce lo dimostrano ogni giorno!). Rende un cattivo servizio a se stesso che finga di ignorare le verità scientifiche come le mutazioni! Sono d’ accordo sulla critica a Darwin, ed infatti sono un ammiratore di Sermonti, ma va fatta sul serio!

  3. Concordo che un conto è la scelta personale, un cammino per tornare in risonanza con la parte più meravigliosa di noi stessi, un conto è immaginare che simili scelte radicali vadano bene per tutti.
    Siamo, drammaticamente, oltre la linea.
    Possiamo sperare in nuovi Cieli ed in una nuova Terra ma quel che c’è qui ed ora è troppo alterato.
    Non mi avventuro sul DNA….
    Dico solo che dopo trionfanti “decodifiche” rimane ancora un mistero.

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