Chi è sradicato sradica, il malvagio alimenta nuove cattiverie. La decostruzione è un cancro che fa impazzire le cellule prima di distruggerle. Questo intervento è solo in parte farina del sacco di chi lo firma. Si basa infatti su una sorprendente intervista a un giovane saggista francese, Paul Melun pubblicata sul quotidiano parigino Le Figaro. Inoltre, prende atto di una intervista confessione tra arroganza, coscienza e incoscienza, concessa nel 2002 da Jacques Derrida, il filosofo francese della “decostruzione”, riproposta da un sito transalpino di “reinformazione”. Reinformare è compito di un pensiero forte, strutturato, “situato”; è la diffusione culturale estranea al sistema, produttore e diffusore instancabile di disinformazione ad uso di un’opinione pubblica plastica e manipolata.

Il fenomeno culturale – rapidamente diventato prassi sociale – della decostruzione vive su due piani. Il primo è quello filosofico, “la critica del procedimento con cui la metafisica occidentale ha definito l’essere, esprimendolo in forma linguistica e mediante coppie concettuali (per es. empirico/trascendentale, necessità/libertà) in cui ciascuna nozione, in quanto costituita su un rapporto differenziale con l’altra, sarebbe priva di valore intrinseco. Nella critica letteraria tale concezione ha ispirato un metodo interpretativo che, rinunciando a individuare nel testo un significato univoco, mira a esplicitarne le infinite possibilità di senso” (Enciclopedia Treccani). L’altro livello è quello della ricaduta concreta sulla società di una corrente di pensiero che, attraverso la scomposizione di utte le forme del linguaggio e della realtà, tende a frantumare, destituire di senso, quindi a revocare in dubbio l’intero percorso della nostra civiltà.

La decostruzione rimuove mattone dopo mattone sino a far crollare l’intero edificio. Lascia macerie, rovine e su di esse continua la sua azione. L’Europa e l’Occidente non credono più nei loro fondamenti precisamente perché li hanno “decostruiti”. Come un bambino scompone e distrugge un giocattolo per meglio guardarvi “dentro” e non sa più ricomporlo, e poi, irritato, termina l’opera sino a distruggere completamente l’oggetto. Risparmiamo al lettore le oscurità del linguaggio decostruzionista con le sue continue controrsioni semantiche. Ci limitiamo a segnalare un concetto introdotto da Derrida, la “differanza” (différance), che unisce i due significati del verbo “differire”: implica che il “segno” è differente da ciò di cui prende il posto, per cui fra il testo e il concetto a cui rinvia c’è sempre una differenza, uno scarto; introduce il senso del “rimandare a”, indicando un differimento senza fine del significato lungo la catena delle sostituzioni linguistiche e degli spostamenti che intervengono ogni volta che si tenti di stabilire il significato di un termine in un dato contesto.

Giochi di parole, aria fritta, intellettualismo da emicrania? Decida il lettore, sapendo che il gesto di decostruire implica una rottura progressiva e insieme un moto accelerato verso il nulla. Il decostruttivismo è un simbolo della potenza impotente della postmodernità, ormai trasformata in efficiente impresa di demolizioni, talmente abile che distrugge/decostruisce anche quanto ha già decostruito, in un processo continuo che lascia sul terreno solo polvere. L’idea di decostruzione è centrale per l’influenza sulla nostra civiltà, in quello che chiamiamo “Sistema”, entità colpita essa stessa dal fenomeno, degradato in autodistruzione.

Il concetto di decostruzione spiega la crisi in atto in quello che possiamo chiamare scatenamento della materia. La decostruzione ha raggiunto tutte le tutte le aree possibili, tutti ne avvertiamo il peso, è un fenomeno che influenza la nostra psicologia, lasciando una pesante impressione di insicurezza, instabilità, precarietà, fragilità, squilibrio e vagabondaggio, solitudine e sofferenza sociale. La decostruzione, davvero, fa impazzire. Una blogger internazionale di area antagonista anarco-socialista, Caitline Johnstone, perviene a conclusioni non dissimili dalle nostre: “arriviamo a un punto della storia in cui l’unico modello affidabile è la disintegrazione di tutti i modelli conosciuti e il 2020 avanza scrollandosi tutto di dosso nel suo cammino per lavorare alla creazione del suo modello con estrema aggressività. Vedremo le cose diventare sempre più folli. Non so cosa succederà, ma so che sarà pazzo.” Decostruito tutto, non restano che sabbie mobili.

La legge giustifica i potenti per schiacciare i più deboli. Gli Stati stanno crollando sotto i nostri occhi. Non esiste più l’economia reale. La scienza sta regredendo. Gli esseri umani sono sempre più storditi, tormentati, ipnotizzati, manipolati dalla nascita alla morte. Le religioni sono diventate fondi di investimento. La natura soffre e si ribella, l’umanità sprofonda nel fango delle passioni più vili, accontentandosi di riflessioni superficiali e sviluppando il narcisismo di un ego tanto sproporzionato quanto ridicolo. Siamo ubriachi fradici senza aver bevuto.

In questo contesto si sviluppa l’intervista al saggista Paul Melun, autore di un libro molto letto e commentato in Francia, Les enfants de la deconstruction. Poirtrait d’une jeunesse en rupture, I figli della decostruzione, ritratto di una gioventù in rottura, testimonianza sulla vita di una generazione, quella di chi ha meno di trent’anni, cresciuta nel clima della decostruzione generale sino a diventarne figlia. Le riflessioni dell’autore riguardano l’implicazione concreta e diretta sulla vita quotidiana della teoria della decostruzione formulata da alcuni filosofi francesi negli anni dal 1960 al 1980 (Derrida, Foucault, Deleuze, Guattari). Gli effetti di quella non-filosofia sulla generazione formatasi dopo la diffusione di questa teoria, cresciuta nell’ambiente sociale e culturale da essa radicalmente influenzato, ci vengono esposti da un protagonista “in tempo reale”, nato nel 1990.  

L’autore mostra il legame diretto tra il lavoro dei filosofi della “non scuola” della decostruzione e i suoi effetti sulle generazioni, su una popolazione, su un mondo sociale, sulla psicologia collettiva e individuale in crisi di autodistruzione. Il contenuto intrinsecamente negativo di quella filosofia, interamente contenuta nel concetto di finzione, viene svelato nel passaggio dalla teoria alla totale mancanza di “forma”, il cui potenziale distruttivo conduce al vuoto attraversando il vuoto.

L’intervistatore inizia chiedendo come può una scuola di pensiero fondata negli anni Sessanta del secolo passato avere conseguenze nella vita quotidiana di una generazione contemporanea. La risposta di Melun è contundente. “Chiamo figli della decostruzione una generazione, la mia, nata negli anni 90 e che si evolve oggi. Parlare di figli fa riferimento a un’eredità quasi filiale verso la scuola di pensiero della decostruzione. Consapevolmente o meno, la filosofia postmoderna degli anni 60 incarna una genitorialità intellettuale evidente nella vita della nostra generazione. Nonostante i quasi sessant’anni che ci separano da quella linea di pensiero, essa permane ovunque sino all’intimo della gioventù occidentale. Il rapporto con l’altro basato sull’individualismo, la passione per la felicità egoistica, il rifiuto di tutto ciò che può rappresentare il rispetto o l’autorità, sono tutti segni della morsa della decostruzione nel XXI secolo. Senza accorgersene, con il conforto di credere che siamo liberi, la mia generazione avanza in un vuoto gelido lasciato in eredità da coloro che hanno decostruito millenni di storia.”.

Le Figaro prosegue ricordando alcuni fatti sociali sorprendenti: ad esempio, che le giovani generazioni flirtano su Tinder (una applicazione informatica per incontri) ma non fanno più autostop. Paul Melun: “Sì, stiamo parlando di questi fenomeni perché sono gli indicatori della transizione verso un nuovo mondo che definirei orwelliano. Gli apostoli della decostruzione sostenevano di liberare gli individui dalle catene sociali o religiose proclamando la liberazione sessuale, ma è esattamente il contrario. La nostra generazione è alla ricerca di palliativi come Tinder, per interagire più facilmente poiché la relazione è diventata complessa. L’incontro romantico (con Tinder) o l’autostop (con BlaBlaCar) sono diventati contrattuali; nessuno può interagire liberamente senza aver prima firmato un contratto. Qualsiasi leggerezza o incertezza viene spazzata via. È in questo contesto che il capitalismo globalizzato abbraccia la decostruzione. Gli obiettivi sono identici: creare individui liberi di consumare sempre di più senza la minima preoccupazione etica o morale“.

La domanda successiva riguarda il problema del divario generazionale. “La rottura generazionale è un punto molto importante del saggio e mi preoccupa molto. La divisione tra gli anziani e i loro figli non è una novità, ma quella che conosciamo oggi è molto più netta. La decostruzione, abbattendo figure tradizionali (la scuola, la chiesa, lo Stato) ha reso obsoleti tutti i modelli che ci ricordano il passato, di cui fanno parte le generazioni dei nostri nonni. L’obsolescenza delle generazioni passate è materializzata da una volontà della società di isolare (i dispositivi per vegliare sui nostri genitori) e sminuire (giovanilismo dei media, derisione della vecchiaia e della malattia). Una società non può essere costruita sul disprezzo per il passato. Il genio della nostra civiltà si basa in parte sulle basi scavate dai nostri antenati, disprezzarle è generare la società del nulla, una civiltà del vuoto“ .

Tra i responsabili, il giovane saggista cita le reti sociali, che spingono a un’esacerbata rivalità. “Sono una droga palliativa, la dose quotidiana di una società senza punti di riferimento. Dobbiamo innanzitutto ricordare che è uno strumento sviluppato nella culla del capitalismo: le grandi università americane. Questo non è banale, perché questi luoghi sono un concentrato di rivalità e di concorrenza. Non c’è da stupirsi che trasmettano rivalità e diffondano individualismo. La loro forza deve essere associata al desiderio intrinseco di distinguersi in una società del vuoto. Quale individuo pieno dell’amore della sua famiglia e della bellezza della sua esistenza vorrebbe competere con instagramers dalle vite desolate e artificiali? I social networks si nutrono delle miserie del tempo per acquisire un potere di influenza e sorveglianza”. 

Non sappiamo più neppure viaggiare: “è il frutto della giunzione tra decostruzione e globalizzazione. Il viaggio dovrebbe essere basato sulla scoperta culturale, sulla condivisione e sull’incertezza. Oggi un viaggio in aereo di due o tre ore con un volo a basso costo consente di raggiungere un’altra megalopoli globale, sotto tutti gli aspetti simile a quella di partenza. La standardizzazione di culture e modelli di viaggio è visibile a tutti: ecco le stesse strade pedonali, gli stessi segni, gli stessi volti schiacciati sullo smartphone e la stessa notte passata in un ostello della gioventù. Personalmente vedo più bellezza in un mondo ricco di diversità delle sue culture che nell’uniformità imposta della globalizzazione.” Melun prosegue ricordando la “macchina verticale infernale che ha schiacciato ogni dissonanza. Ho assistito alla morte del dibattito sulle idee. Il pensiero decostruzionista ha una parte sempre più importante, al punto che sono stato rapidamente emarginato dal sistema che difende la teoria del genere o il decolonialismo a scapito delle pari opportunità o dell’accesso alla cultura“.

La domanda finale è sul crepuscolo dei valori. A che cosa può ancora aggrapparsi la generazione millennial per guardare verso il futuro? “Di fronte al crepuscolo dei valori, è urgente ricostruire su solide basi e penso che la Francia abbia al centro della sua identità una formidabile capacità creativa. La generazione più giovane deve mettere tutte le sue forze e il suo genio creativo nel preservare il suo ambiente. L’ambiente ecologico, ma anche l’ambiente culturale, perché preservare il pianeta è anche preservare una cultura, le sue abilità e il territorio in cui vive. Per guardare al futuro, deve essere sovrana nelle sue scelte e rifiutare la società del vuoto, ri-costruire riappropriandosi della sua storia. Se gli ultimi decenni sono stati quelli della decostruzione, la speranza risiede nel risveglio del nostro genio al servizio della Terra, della cultura e della scienza”.

Un soffio di aria pura, a dimoistrazione che la nostra civiltà possiede anticorpi trasmessi ai più giovani. La demolizione dela scuola decostruzionista è necessaria e benefica, ma il potere reale, ahimè, sta altrove. Ad esempio nella folle idea che la dissidenza sia “incitamento all’odio”, il nuovo psicoreato che entra a vele spiegate nell’immaginario occidentale, e poi nel corpus delle leggi. È l’equivalente della violenza intellettuale, dell’isteria irrefrenabile distillata nei laboratori della cosiddetta filosofia “post-strutturalista”, un frullato di Michel Foucault, Jacques Derrida, Judith Butler e Gilles Deleuze che partorisce Frankenstein, un pensiero mostruoso. È il pensiero che grava sul nostro tempo, non aiuta a ricostruire su ciò che ha frantumato, ma spinge, trascina, imprigiona in una corsa irresistibile alla distruzione, qualunque sia l’oggetto da distruggere. Distruzione e non morte poiché i decostruttivisti ritengono che la distruzione non sia morte: altro pensiero diabolico.

L’accelerazione impressa è il principio fisico del moto che accelera nelle fasi terminali. Non si tratta più di marxismo culturale. La dissoluzione-destrutturazione- decostruzione è figlia del progressismo societario diffuso dalle università americane, una “furia del dileguare” libertario- progressista in accordo con le centrali oligarchiche del potere finanziario e tecnologico, proprietarie o finanziatrici degli atenei, le officine della decostruzione. I padroni universali sono gli unici a poter diffondere la narrazione, imporne lo sviluppo su scala planetaria e determinarne la fulminea velocità. Una pandemia, il vero corinavirus il cui antidoto non è decostruire la decostruzione, ma tornare sui nostri passi, alla verità naturale, alla paziente ritessitura della civiltà.

Il problema è che stiamo viaggiando. La speranza è che esistano più scialuppe di salvataggio di quante ce ne fossero sul Titanic. Abbiamo parlato di scatenamento della Materia: il desiderio irristibile di destrutturare, dissolvere menti e forme, distruggere-decostruire è il carattere stesso della modernità. I fenomeni che osserviamo sono entrati in fase di accelerazione fulminea da un trentennio, quello del dispiegamento della potenza del globalismo neoliberista. Quasi tutto è ridotto a sabbia mobile: una contro-civilizzazione con un’unica porta in basso, spalancata sul nulla.

4 commenti su “La decostruzione rende pazzi”

  1. Derrida e Foucault (soprattutto il secondo) vengono oggi citati spesso come dei maestri di sapienza – di più: dei filosofi benefattori dell’umanità, delle specie di san Francesco del pensiero. Questo articolo mette bene in chiaro cosa essi realmente sono: dei distruttori, dei seminatori di veleni. I quali non nascondono affatto di esserlo. E’ la nostra società che, accecata, non li sa riconoscere come tali.

  2. Un articolo che esprime in modo magistrale l’attuale situazione.
    Complimenti a Pecchioli. Un autore che occorre far conoscere e diffondere. Lucidità di pensiero oggi difficile da trovare.

  3. Rodolfo Granafei

    Pero’ facciamoci un grande favore : mettiamo preliminarmente da parte quel “sano” atteggiamento supposto di “buon senso”, diciamo tradizionalista, secondo il quale “sono solo….” e poi ci si mette x. Così leone x pensava che quelle di Lutero fossero solo dispute tra frati, ma l’atteggiamento basico e quello del “sono solo giochi di parole” etc. Infatti: nel giro di 50 anni questi che erano solo giochi di parole hanno messo sottosopra ANCHE PRATICAMENTE tutto. Con una rivoluzione culturale peggiore del veteromarxismo perché non lascia fuori niente. È filosofia, cazzo! E la filosofia non è quella cosa con la quale è senza la quale tutto resta tale e quale. Dopo di che anch’io sono convinto che dobbiamo passare dalla de- alla ri-costruzione. E sarà una cosa epocale e difficile. Tantauguri

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