Un momento di lettura distesa, magari impegnativa, ma ristoratrice. Un’idea per trovare un’occasione di svago tra le incombenze della settimana, che quasi mai sono piacevoli per chi abbia a cuore la fede in Cristo e la salvezza delle anime. È quanto Riscossa Cristiana intende offrire ai suoi lettori ogni domenica. Per quanto è possibile, ci piacerebbe richiamare alla memoria di chi l’ha vissuta e far conoscere a chi non ne ha mai avuto neppure il sentore l’atmosfera di quelle belle domeniche in famiglia in cui si andava a Messa, ci si metteva a tavola per il pranzo della festa e poi si leggevano quegli articoli così ben scritti che i giornali ora non pubblicano quasi più. Poi, sarà nuovamente lunedì, ma, come accadeva nelle belle famiglia di una volta, lo guarderemo con occhi diversi. Buona lettura.

TRE RACCONTI COI BAFFI DI GIOVANNINO GUARESCHI

di Alessandro Gnocchi

 

Alberto Vacchi aveva una venerazione per Cechov. Alberto Vacchi era il redattore che in Rizzoli curava tutte le edizioni delle opere di Guareschi. Ci siamo conosciuti per lavoro guareschiano negli Anni Novanta del secolo scorso e persi di vista sul finire del millennio. Poi, nella primavera del 2004, tornò a galla perché aveva in lavorazione una serie di racconti del vecchio Giovannino che, diceva, sarebbe stato un peccato non valorizzare come avrebbero meritato. “Sembrano racconti di Cechov” buttò lì per convincermi a scrivere un’introduzione. Alberto Vacchi sapeva fare il suo mestiere e difficilmente sbagliava argomento, anche se tornava a galla dopo un lungo periodo di silenzio. “Mi bastano due pagine, ma non si può lasciarli soli questi racconti. Sono uno più bello dell’altro, sono di un Guareschi che non ci si aspetta”.

Alberto Vacchi aveva una venerazione per Cechov e non avrebbe mai tolto a Cechov quel che è di Cechov per darlo a qualcuno che non lo meritasse, neanche a Guareschi, che con il tempo gli era entrato nel sangue. Ma fu quel “non si può lasciarli soli questi racconti” a farmi dire definitivamente di sì. “Però non mi bastano due pagine, mi prendo tutte quelle che voglio”. Sono cose che si dicono perché si devono dire, ma quando ebbi tra le mani le bozze capii subito che due pagine non sarebbero bastate. Alberto e Carlotta avevano davvero raccolto una serie di scritti di loro padre che pareva venire dal giardino dei ciliegi, vergati in uno stile descrittivo così preciso e levigato da raccontare con matematica inesorabilità la realtà così come appare e il mistero che la sorregge, le cose materiali della vita e l’essenziale invisibile agli occhi. Fu così che, nel novembre del 2004 uscì Baffo racconta con l’introduzione che mi aveva chiesto Alberto Vacchi, un libro sublime popolato di personaggi rinvenuti fra i bizzarri meandri del vero.

Il protagonista del racconto “Sciopero dei professori”, datato 1955, è il giovane Campora “il più asino della classe: il professore, a ragion veduta, lo considerava un perfetto cretino. (…) in tanti anni di insegnamento, il professore aveva sentito e letto miliardi di stupidaggini: ma le stupidaggini che Campora diceva durante le interrogazioni o scriveva nei compiti in classe erano incredibili. Dapprincipio il professore aveva provato un senso di pena per il poveretto; in seguito la pena si era trasformata in disgusto, perché in ogni cosa esiste un limite e Campora l’aveva superato. La stupidità, quando viene ad assumere un’esagerata intensità diventa anarchia. Così la pensava il professore”.

Poi, durante un giorno di sciopero, lungo il fiume il professore incontra quel perfetto cretino di Campora che se ne sta sotto la pioggia a contemplare l’acqua che scorre.

“E cosa sei venuto a fare in questi paraggi?” si stupì il professore.

“Vengo sempre. Mi piace” spiegò Campora.

Il professore si guardò attorno e scosse la testa: “Non riesco a capire cosa tu ci trovi di bello in questo squallore!”.

Il ragazzo si strinse nelle spalle: “L’acqua, le piante in riva all’acqua, il silenzio… (…) È bello stare seduti sotto un portico a veder cadere la pioggia” sussurrò il ragazzo. “Fa pensare tante cose”. (…)

Il professore, che s’era avviato si fermò e si volse: “Non è meglio che tu vada studiare” domandò. Campora fece segno di no. “Ma non hai paura a rimanere qui solo in mezzo a questa tetraggine?” esclamò il professore.

“No signore. Ho paura quando sono in mezzo alla gente”.

Poi il professore, incamminandosi verso casa, vede che Campora è tornato a sedersi in riva all’acqua.

Ripensò agli occhi del ragazzo che, mentre seguivano il cader della pioggia, erano pieni di dolcezza e malinconia. A casa il pensiero del ragazzo seduto in riva all’acqua lo perseguitò per tutta la giornata. E al cader della sera, non riuscì a resistere e uscì di gran carriera, e non esitò a prendere un tassì per arrivare più in fretta là dove iniziava la viottola che potava al canale.

Qui giunto continuò a piedi, ma dovette camminare poco perché il ragazzo stava venendogli incontro. Si nascose dietro un grosso tronco per non farsi vedere. Il ragazzo passò. Camminava lentamente, immerso nei suoi pensieri. Il professore lo seguì cautamente, a distanza, e a un bel momento si trovarono nella città piena di gente.

“Io ho paura quando sono in mezzo alla gente” aveva detto il ragazzo. Il professore riudì le parole del ragazzo e, quando il ragazzo venne inghiottito dalla folla, il professore provò un’angoscia acuta, come se gli forassero il cuore.

Attraverso quel foro, comincia a scorrere la meraviglia e, dunque, la vita. Il professore intuisce che Campora ha scoperto un tesoro dal quale non intende separarsi. Il ragazzo è interessato poco o nulla alle leggi fisiche o filosofiche inventate dagli uomini per imbrigliare il mondo in una gabbia a loro immagine e somiglianza. Proprio come fa Chesterton in un passo di Ortodossia: “Primo punto: ho trovato tutto il mondo moderno che parlava di fatalismo scientifico; diceva che ogni cosa è come ha sempre dovuto essere, essendosi sviluppata senza deviazioni dal suo inizio. La foglia dell’albero è verde perché non avrebbe mai potuto essere di altro colore. Il filosofo delle novelle delle fate è contento che la foglia sia verde precisamente perché avrebbe potuto essere scarlatta; ha la sensazione che sia diventata verde un istante prima che egli la guardasse. Così come si compiace che la neve sia bianca per il motivo strettamente razionale che avrebbe potuto essere nera”.

Il perfetto cretino Campora, in realtà, è un filosofo del paese delle fate. E non si stanca mai di incantarsi davanti alle stesse cose perché, ogni volta, lo sorprendono con lo stesso spettacolo. Non esiste lode più bella da intonare alla laboriosità con cui, ogni istante, il Creatore si applica all’universo. Il timore di questo giovane e bizzarro saggio è che lo spettacolo possa essere sciupato da gente che non lo comprende perché non porta nel cuore lo stesso pertugio che il professore si è visto praticare con un succhiello fatato.

Anche “Il cittadino Demei”, del 1956, si apre con il clamore delle cose di tutti i giorni, ma più sommesso, cantato un’ottava sotto, nel chiuso di un ufficetto di una fabbrica di trattori.

Il vecchio Demei, riposte le scartoffie nei cassetti e sistemati in bell’ordine, sul piano dello scrittoio, il calamaio, il tampone della carta assorbente, i timbri e le altre cianfrusaglie, cavò di tasca la pipa e prese a stivarla di tabacco, con cura e senza fretta.

In queste cinque righe rigorose, le virgole e le congiunzioni prendono a danzare come le barre che troncano i versi di una poesia. E riempiono di letizia il vecchio Demei, in pace con tutti i suoi piccoli oggetti, come dire con l’universo e il mistero che lo sorregge. Che questo fabbricante di macchine agricole sia un poeta non può essere in dubbio, se si tiene per vero ciò che scrive Cristina Campo in un saggio fascinoso come “Gli imperdonabili”: “Una spirituale devozione al mistero di ciò che esiste è stile per virtù propria, come dimostra l’ammirabile linguaggio, oggi in via di estinzione, dei contadini. Un poeta che a ogni singola cosa, del visibile e dell’invisibile, prestasse la stessa misura di attenzione, così come l’entomologo s’industria a esprimere con precisione l’inesprimibile azzurro di un’ala di libellula, questi sarebbe il poeta assoluto”.

Ma il mondo profano e profanatore, che non si cura dei poeti, si presenta una sera alla porta dell’azienda Demei sotto le spoglie di tre funzionari della tributaria incaricati di controllare i conti. La ditta si chiama “Carlo Demei & Figlio – Antica Fabbrica di aratri, erpici, estirpatori, frangizolle”: più che una ragione sociale, un altero verso poetico come se ne possono leggere ancora su certe insegne della Bassa. Però, ai tre sgherri, la musica racchiusa in quelle parole importa poco e, ancor ameno, importa che il vecchio e suo figlio dichiarino la loro rettitudine. Si limitano a mettere i sigilli agli armadi dei libri contabili. Torneranno il giorno dopo.

Ma il cittadino Demei non regge il dolore del dubbio sulla sua onestà e il suo cuore decide che forse non arriverà a mattina. L’unico rimedio è una speciale medicina americana, ma è chiusa nell’armadio sigillato in ufficio. La moglie e il figlio si avviano a rompere i sigilli per prenderla ma il vecchio Demei li ferma.

Senza mollare il braccio del figlio, chiamò la moglie:

“Chiudi la porta dell’ufficio a chiave e portamela, se non vuoi che vi maledica tutti…”.

La donna non aveva mai discusso gli ordini del marito: non discusse neanche quella volta. Andò a chiudere la porta dello studio e portò la chiave al vecchio. Gliela mise in mano e il vecchio serrò il pugno disperatamente.

I tre sgherri tornano la mattina dopo, freschi e sbarbati, ma si trovano davanti al vecchio Demei morto, con la chiave dell’ufficio chiusa nella mano. Non resta che sfondare la porta.

Continuarono a ispezionare per due giorni filati: studiarono e analizzarono ogni minimo foglietto, chiesero spiegazioni su centomila cose. Vollero vedere tutto: l’officina, i magazzini, la cantina, il granaio. Si fecero aprire tutte le porte, tutti gli sportelli, tutti i cassetti. Misero il naso in tutte le camere. Ogni pezzo di carta faceva loro dilatare le nari dall’eccitazione. (…) La sera del secondo giorno si affacciarono anche sull’uscio della camera del vecchio. (…) Stettero lì un momento a guardare: si capiva che avrebbero voluto far schiodare la cassa per ispezionarla. Se ne andarono senza dire niente. Ma, arrivati in fondo all’andito, uno dei due funzionari in sottordine borbottò:

“Quei fetenti ce l’hanno fatta: la roba che non dovevamo vedere l’hanno nascosta lì”.

Ma dentro la cassa c’era soltanto il vecchio Demei, con la chiave ancora stretta fra le dita. Morto, ma vittorioso”.

Perfetta miscela di tragedia e commedia, questa pagina è frutto di una grande perizia narrativa, capace di usare allo stesso tempo l’orecchio, organo del tragico, e l’occhio, organo del comico. Guareschi riesce a disegnare una scena in balìa del destino e, nello stesso tempo, a scriverci sopra dialoghi che inducono al sorriso. Ne nasce una storia squisitamente cristiana, poiché non vi è genere narrativo più segnato dal cristianesimo che la tragicommedia, che è una tragedia risolta. Su un fondo drammatico, la cadenza umoristica ha lo stesso effetto della Grazia sparsa sul mondo dopo il peccato originale.

Ed è sempre la Grazia che lega come un filo d’oro in un solo destino le vite di due vecchi genitori e del loro bambino dentro la cucina di una casa in riva al fiume. La storia, narrata nel 1949 in “Appunti per un racconto di Natale”, è quella di un uomo e una donna che riescono ad avere un figlio solo quando sono avanti con l’età.

Passarono gli anni e, quando gli anni furono sette e arrivò il Natale, accadde qualcosa di molto importante: il padre trovò, cioè, sotto il piatto la prima lettera di Natale del bambino. Affermò che non avrebbe mai pensato a un’idea così bella e che mai avrebbe immaginato che suo figlio, pur tanto piccolo, sapesse già scrivere così pulito e con tanto senso. Lesse ad alta voce per tre o quattro volte la lettera alla madre e la madre la trovava sempre più bella. E al bambino brillavano gli occhi per la contentezza.

“Bravissimo” disse alla fine il padre porgendo poi la lettera alla madre. “Mettila da parte e che non si perda”.

E la madre ripose la lettera dentro una scatola, nel primo cassetto del comò. Ma il bambino, tre mesi dopo, cadde nel fiume e il fiume se lo portò via e non lo trovarono più. (…)

E venne il Natale ancora e la sera della Vigilia e il padre sedeva da un lato della tavola, la madre al lato opposto. La tavola era appoggiata contro il muro e il lato libero era occupato da una sedia vuota. Non è che i due si fossero messi d’accordo: la madre apparecchiò così e mise i piatti e le posate anche davanti alla sedia vuota. Il padre sollevò poi il suo piatto e, sotto, c’era una lettera. Era la solita letterina dell’anno prima, la prima e l’ultima del bambino. (Poi il fiume l’aveva portato via assieme a tutto il suo alfabeto).

Il padre lesse con estrema attenzione la lettera, poi la rilesse ad alta voce alla madre. E alla fine la porse alla donna: “È magnifica” disse. “Mettila assieme all’altra, che non si perda”. (…)

Uno, due, dieci Natali passarono e a ogni Natale era sempre la stessa cosa e sempre c’era la sedia vuota e sempre la lettera sotto il piatto. Passarono altri quindici Natali e sempre fu la stessa cosa. (…)

Il vecchio rilesse ad alta voce la lettera. Poi disse: “Bravissimo” rivolto verso la solita sedia. E il bambino era là seduto che sorrideva. E i suoi occhi brillavano di contentezza. “Bravissimo” sussurrò la madre guardando il suo bambino. E tutt’e due continuarono a guardare sorridendo il loro bambino. Ed erano talmente contenti che non si accorsero che la porta era spalancata. E neppure che nella stanza l’acqua era già alta un metro e continuava a salire. (…) Il fiume era entrato nella casa dei vecchi e aveva riportato loro il bambino. (…)

A un tratto la lucerna si spense e ciò significava semplicemente che l’acqua era arrivata al soffitto. Nella notte tempestosa una lettera ingiallita dal tempo galleggiò tranquilla sull’acqua, poi il fiume che rientrava lentamente nel suo letto se la portò via assieme ai due vecchi. Ma tanto non serviva più a nessuno. Ormai tutto era a posto.

E quando, dopo un anno, ripescarono il vecchio e la vecchia in un fondone in mezzo al fiume, trovarono lì anche il corpo del bambino. Fecero tutt’un mucchietto e misero tutto in una buca. Poi sulla buca crebbero i fiori ed era una tal bellezza che pareva un angolo di paradiso.

Come spesso accade, anche qui la scrittura guareschiana alza con sapiente lentezza il velo su quell’essenziale che gli occhi, lasciati a se stessi, non potrebbero vedere. Il prodigio, si scopre nelle ultime righe del racconto, non è il ritrovamento dei tre corpi tutti insieme nello stesso fondone del fiume: quella è una semplice questione di probabilità, e il soprannaturale non si affida alla statistica. Il miracolo è il crescere dei fiori sulla tomba in cui i tre corpi sono stati sepolti e della quale nessuno si occupa più.

Guareschi ne è così certo da non scrivere, come avrebbe fatto un qualsiasi letterato profano, che quel luogo “era di un tal bellezza che pareva un angolo di paradiso”. Da minuzioso iconografo dell’anima, elimina la preposizione “di” e scrive: “era una tal bellezza che pareva un angolo di paradiso”. L’assenza di una semplice sillaba costringe il lettore a riconoscere la presenza reale del più che umano. A inginocchiarsi davanti alla maestà dell’assoluto: alla bellezza, non a una pur splendida imitazione.

D’altra parte, questo narrare è fondato sulla consapevolezza che la pochezza degli uomini non può reggere il manifestarsi dell’infinito. Ogni epifania dell’immensamente grande trova luogo nell’immensamente piccolo: i fiori, freschi e delicati, come le parole della lettera di Natale che parevano appena sbocciate ancora dopo tanti anni. L’involucro, così materiale e caduco, è tutto ciò che viene concesso alla visione.

Un’immagine come questa traduce in prosa ciò che Ezra Pound raccomandava ai poeti nel breve saggio “Credo” a proposito del simbolo: “Credo che il simbolo appropriato e perfetto sia l’oggetto naturale. Se uno adopera dei simboli non deve farlo in modo importuno; in modo che ‘un’ senso e la qualità poetica del passo non vadano perduti per coloro che non capiscono il simbolo come tale. Per chi, ad esempio, ritiene che un falco sia (soltanto) un falco”.

O per chi, si può aggiungere, ritiene che i fiori siano (soltanto) fiori e una lettera di Natale sia (soltanto) una lettera di Natale.

5 commenti su “La Domenica di Riscossa Cristiana (2)”

  1. È vero, piccolo principe, che “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Ci vogliono degli occhi speciali, ma soprattutto un cuore speciale, non solo per raccontare l’ineffabile, ma (dalla prospettiva del lettore) per riuscire ad afferrarlo. Del grande Giovannino, così trascurato dalla “cultura” che “conta” e va di moda forse perché la pochezza che esprime non può che soccombere di fronte a quella luminosa profondità, non si finisce mai di cantare le lodi; ma un grato apprezzamento va anche a quell’ eccellente e attentissimo cultore della sua opera che è Alessandro Gnocchi, al quale non mancano certo quegli occhi e quel cuore cui ho accennato in queste mie prime righe.
    Davvero grazie a lui per questa domenicale e salutare commozione.

  2. Vi ringrazio molto per questa delicatissima pagina. I racconti proposti ci fanno comprendere quanto l’uomo sia veramente creato ad immagine e somiglianza di Dio. Quando a prevalere sui doveri quotidiani o su ciò che il mondo si aspetta da noi è semplicemente la nostra essenziale e nuda umanità si scorge la grandezza dell’opera creatrice di Dio.
    Grazie

  3. Francesco Vacchi

    Ringrazio Alessandro Gnocchi per aver ricordato mio padre con parole degne di lui. Un forte abbraccio ad Angelica e ad Alberto Guareschi per aver condiviso questo frammento prezioso e commovente.

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