LA DOTTRINA DELLO SPIRITO NELLA FILOSOFIA DI HEGEL – di P. Giovanni Cavalcoli, OP

di P. Giovanni Cavalcoli, OP

vedi anche, dello stesso Autore, “Hegel apologeta della morte”


 

hvpSecondo Hegel il cristianesimo è la religione più elevata perché ha dato all’umanità la nozione speculativa più elevata che è quella dello Spirito assoluto, ossia Dio come Spirito. Hegel però precisa che questa nozione, che implica l’idealismo, la soggettività, l’interiorità, l’autocoscienza e la libertà è esplicitata nel cristianesimo moderno, nato dalla riforma luterana. Viceversa nel cristianesimo precedente la dottrina dello Spirito resta ancora impigliata nelle categorie naturaliste, intellettualistiche, oggettivistiche, astratte, mitologiche, volgari ed ingenuamente realistiche della tradizione cattolica e scolastica.

Tuttavia, il metodo col quale Hegel si accosta al cristianesimo non è quello dell’accoglienza della rivelazione di un mistero divino che trascende la ragione, come invece si dà ancora in Lutero, qui  fedele alla visione cattolica. Invece per Hegel il fatto stesso che nel cristianesimo il mistero si rivelato, lo intende nel senso che il mistero svanisce, per cui l’essenza di Dio come Spirito appare chiara ed evidente allo sguardo della ragione.

Hegel continua a parlare di “fede”, ma a questo punto per lui la “fede” o corrisponde solo al piano intellettuale della “rappresentazione” (Vorstellung) che vede ancora Dio come trascendente ed esterno alla maniera del realismo cattolico, oppure nel senso più autentico e cristiano, quello luterano, fede è coscienza originaria, immediata ed interiore dello Spirito cosciente di sé nell’uomo, quella che Hegel chiama la fede “originaria”, che coincide con la ragione. E qui di nuovo Hegel si scosta da Lutero, per il quale, come è noto la fede è la negazione (“scandalo”) della ragione.

Per Hegel dunque il cristianesimo dà all’umanità la stessa Scienza che Dio ha di Sé stesso, la Scienza dello Spirito. In forza dell’Incarnazione del Logos, che per Hegel non è unione ma unità delle due nature, scompare la differenza tra natura umana e natura divina, la ragione umana s’identifica con quella divina, lo spirito umano diventa uguale allo Spirito assoluto, perché il Verbo è “divenuto uomo” (Menschwerdung) nel senso che ha mutato la sua natura in quella umana.

Qualcosa del genere era già stato adombrato nel sec.XIV da Meister Eckhart a proposito del pensiero del cristiano, laddove il mistico tedesco interpreta in senso immanentistico il detto di S.Paolo secondo il quale il cristiano “possiede lo stesso pensiero di Cristo”(cf I Cor 2,14). Il cristiano, dice infatti Eckhart, non è simile ma uguale a Cristo.

Lutero non si era spinto sin qui, ma conservava la concezione cattolica della trascendenza di Cristo, anzi opponendo il divino all’umano corrotto. Invece Hegel va a ripescare la cristologia idealista del domenicano medioevale. Questo tipo di medioevo ad Hegel non dispiace.

Hegel ammette dunque uno “Spirito divino ed assoluto”, che concepisce come Essere, Soggetto, Verità, Concetto, Idea, Autocoscienza e Libertà assoluta, unità ed identità di essere e pensiero. Tuttavia egli non parla mai di Spirito “Santo”, se non quando accondiscende al linguaggio della “rappresentazione”. Ma da un punto di vista “speculativo” la santità  non interessa. Quello che invece per Hegel è interessante perché “razionale” e filosofico, è la “dialettica”, fondata, come è noto, sulla “negatività”, che Hegel assume dalla logica.

Così per Hegel lo Spirito Assoluto muove sé stesso secondo un procedimento razionale che per Hegel è la dialettica. Questo procedimento Hegel lo espone nella sua Scienza della Logica, che evidentemente non è un trattato di logica della ragione umana, ma del Logos divino immanente al logos umano. Questo però è ancora lo Spirito “in sé”, ancora astratto. Hegel espone quindi la storia dello Spirito nel divenire storico come divenire dello spirito umano nel Logos divino, nella “Fenomenologia dello Spirito”.

In tal modo per Hegel ogni concetto, compreso quello dello Spirito, è triadico, nasce da una triade, comporta una triade. Così per Hegel il dogma della Trinità è solo una raffigurazione immaginativa (Vorstellung) di questi tre momenti o fattori dialettici del concetto. Se per esempio voglio definire la vita, la oppongo alla morte, ossia alla sua negazione. Ma se mi fermo sulla morte, nego la vita. Per questo, per affermare la vita, devo negare la morte. Ma nel contempo non posso dimenticare il concetto della morte che mi serve a definire la vita. In tal modo morte e vita nel mio pensiero in certo modo vanno assieme e si richiamano a vicenda.

Abbiamo qui quella che Hegel chiama “negazione della negazione”. Si tratta evidentemente di un’operazione comunissima della nostra mente, e nessuno vorrà negare la validità di tale operazione logico-mentale. Ma dov’è l’equivoco (ben noto) di Hegel?

Sta sostanzialmente nella sua confusione, tipica dell’idealismo, della cosa col concetto della cosa o, in altri termini, dell’essere col pensiero o essere pensato. Come sappiamo da un suo famoso assioma, per lui ideale e reale coincidono. Per Hegel oggetto del pensiero non è, come nel realismo, l’essere extramentale sensibile o intellegibile, materiale o spirituale, mondano o divino, ma è il “concetto”, che in fin dei conti, per Hegel, è un soggetto sussistente, è lo stesso Spirito, che egli chiama anche Idea, Assoluto e Dio stesso. Da qui la designazione di idealismo con la quale chiama il suo stesso sistema, già sulle orme di Kant, Fichte e Schelling.

Da qui la riduzione hegeliana esplicita dell’essere a pensiero-pensato (idea, concetto) e quindi la identificazione dichiarata della metafisica con la logica. Da qui nasce il trasferimento che Hegel fa nel reale delle opposizioni logiche del nostro pensiero. Se per esempio noi non possiamo pensare la vita senza pensare alla morte, egli giunge a dire che nella realtà la vita non esiste senza la morte.

E giungiamo così a quella “apologia della morte”, della quale parlavo in un mio recente articolo su questo sito, tanto che il sistema di Hegel è stato chiamato, tra l’altro, una “tanatologia”, un appellativo piuttosto lugubre del quale certo io non mi vanterei. E non a torto Hegel è ritenuto in qualche modo anche responsabile del moderno nichilismo, anche se dobbiamo dargli atto del fatto che in lui non c’è la pura e semplice negazione dell’essere, ma tale negazione è ordinata, benchè inefficacemente, al recupero dell’essere.

Ma la dialettica in Hegel svolge altri tre ruoli. Oltre a comportare la suddetta riduzione dell’essere al pensato (concetto, idea), serve a spiegare la molteplicità, il divenire e il moto coscienziale dello spirito.

La molteplicità è spiegata con la negazione, in quanto Hegel pone all’inizio dell’essere e del pensiero (Anfang) l’unità divina o, come la chiama, l’“in sé”(an scih). Hegel concepisce Dio in sé come un’idea, un universale astratto, che si divide, oppone sé a sé, si determina, si concretizza, si finitizza e quindi si moltiplica. L’universale per finitizzarsi e particolarizzarsi, deve negarsi (per sé, für sich).

Il concetto di “creazione”, per Hegel, sarebbe solo una forma dell’immaginazione (Vorstellung), per la quale Dio è ingenuamente paragonato ad un artigiano che costruisce un artefatto, mentre in realtà per Hegel Dio, in quanto Assoluto, non ammette nulla al di fuori di sé, sicchè il mondo si identifica con Dio perchè non è altro che una finitizzazione dell’essenza divina interna alla sua stessa essenza.

Quindi per Hegel la molteplicità non sorge da Dio così come un’immagine, una somiglianza o una partecipazione al suo essere, da lui prodotta dal nulla, ma per semplice negazione sulla base dell’univocità così come l’individuo si oppone all’essenza specifica ed universale non in modo analogico ma secondo univocità: ogni cane, per esempio, appartiene sempre univocamente alla specie “cane”, anche se Fido è diverso da Pluto.

Così gli enti individuali del mondo, per Hegel,  sono tutti momenti contingenti dell’Assoluto univocamente identici a esso, così come l’universale è immanente al particolare. Hegel disprezza l’analogia e la partecipazione metafisiche  e le relega nel mondo dell’immaginazione e dell’opinione.

In secondo luogo, l’essere, secondo Hegel, come è noto, si identifica col divenire, sempre per un motivo dialettico: quando pensiamo l’essere, pensiamo anche al non-essere. Ma il divenire è passaggio dall’essere al non-essere. E dunque l’essere, anche l’essere divino, per Hegel è divenire, è “dialettico”, per cui i tre momenti della dialettica diventano necessari per spiegare l’essere, anche l’essere divino, ossia opposizione dialettica di essere e non-essere.

In terzo luogo, la dialettica serve a spiegare l’Autocoscienza. In essa effettivamente io pongo un oggetto pensato davanti a me. Mi nego e mi alieno nell’oggetto. Non posso non pensare al mio io pensante senza oppormi all’oggetto che penso.

D’altra parte, siccome l’io in me secondo Hegel è l’Io Assoluto, l’Assoluto nega il suo opposto e lo fa tornare in Sé ed in tal modo si ricostruisce l’unità iniziale dell’Io. Infatti anche l’opposto è opposto del suo opposto, per cui come la tesi richiama l’antitesi, così l’antitesi richiama la tesi.

Da ciò deriva la caratteristica concezione hegeliana dello Spirito assoluto. Si tratta di un “Assoluto” che, per essere tale, ha bisogno del suo contrario. In buona metafisica noi ci domanderemmo come può essere Assoluto un Assoluto che nega sé stesso. Ma Hegel non ha preoccupazioni, perché ha sempre in mente la sua dialettica, così come l’abbiamo spiegata. Infatti noi per pensare all’Assoluto dobbiamo opporlo al relativo. Da qui Hegel deduce col suo idealismo che l’Assoluto non può stare senza il relativo. Dio non può non creare il mondo, non può non incarnarsi e così via.

Se quindi noi concepiamo lo spirito opponendolo alla materia, per Hegel lo spirito non può esistere senza la materia. D’altra parte, siccome nulla può esistere fuori dell’Assoluto, la materia in Hegel diventerà costitutivo dello spirito. Hegel non riesce a concepire un Assoluto che abbia qualcosa fuori di sè perché gli mancano le nozioni metafisiche dell’analogia e della partecipazione, che gli avrebbero consentito di ammettere un vero Assoluto, che tuttavia ha un mondo fuori di sé da lui creato.

E’ noto il famoso detto di Hegel: “Dio senza il mondo non è Dio”. Ecco che allora per Hegel lo Spirito è lo “Spirito del mondo” (Weltgeist) o lo “spirito del tempo” (Zeitgeist). Ma chi è lo “spirito del mondo” per S.Paolo? E’ il demonio! E’ colui che Cristo chiama “principe di questo mondo”!

Hegel non nega l’esistenza del demonio. Ma siamo daccapo. Colui che la Bibbia chiama “demonio”, per Hegel è solo una figura dell’immaginazione per rappresentare il concetto della negatività, che è presente anche nell’essenza dello Spirito assoluto, in Dio. Dio nega sé stesso come demonio. Egli “separa” sé da sé, secondo un’‘idea che Hegel trova già in Böhme con la figura del separator.

Questo conflitto interno a Dio stesso[1] per Hegel è altamente positivo, perchè consente il sorgere della libertà nell’uomo, il quale, obbedendo al serpente nel paradiso terrestre ed opponendosi a Dio, conduce Dio a distinguersi in sé stesso tra bene e male e quindi di prender coscienza di Sè nell’uomo e come uomo, per cui diventa possibile il ritorno o la riconciliazione dello Spirito con sé stesso.

E’ interessante che per Hegel non si dà riconciliazione con Dio del peccatore, ma del peccato. Il peccato resta un costitutivo della divinità. Il male, dunque, il peccato diventano un momento logico, razionale necessario della dialettica, per la quale Dio, superando l’iniziale momento “astratto”, diviene sé stesso, diviene “concreto”, dal cielo scende in terra, divenendo in Cristo carne, uomo, natura e mondo nella storia.

E’ quanto, secondo Hegel, il linguaggio della rappresentazione esprime con i miti dell’incarnazione, della redenzione, delle “apparizioni” e della risurrezione. L’esegesi “demitizzante” di Bultmann, maestro di Rahner, è esattamente su questa linea.

A questo punto non c’è da stupirsi se Hegel non sa chiamare “Santo” il suo “Spirito Assoluto”, che peraltro ha indubbiamente i caratteri della spiritualità con la sua soggettività personale, la sua autocoscienza, la sua libertà e la sua relazione alla verità.

Però nello “Spirito” di cui parla in Hegel manca la trascendenza rispetto al mondo, manca la bontà, manca l’innocenza, manca l’amore. Infatti si tratta di uno Spirito che, esprimendosi nel mondo, risente delle brutture e delle miserie del mondo. Uno “Spirito” che ospita in sé il suo contrario, che è al contempo Dio e Satana, una vita che non vince la morte ma convive con essa, un bene che coesiste col male non può essere il vero Spirito Santo del cristianesimo.

Anche Lutero certo a volte ha l’audacia di dire che Dio appare come demonio e il demonio prende le sembianze di un dio, ma si guarda bene dall’identificare sic et simpliciter sia pure attraverso un artificio dialettico, Dio col demonio, la santità col peccato, il bene col male, la vita con la morte, la salvezza con la dannazione.

Certo anche nel vero cristianesimo esiste un male eternamente a fianco del bene: è l’eterna dannazione. Ma innanzitutto non si tratta di un male di colpa bensì di pena, una giusta pena che quindi è un bene. Infatti nella visione cristiana ogni attività  peccaminosa cesserà alla Parusia con la definitiva vittoria di Cristo sul peccato.

Nell’inferno quindi non si aggiunge più peccato a peccato, ma solamente si è soggetti alla giusta pena del peccato. Invece nello “Spirito” di Hegel abbiamo un’assurda divinità che è ospita in sé tanto la santità che il peccato ed è quindi una pura bestemmia ed un’assoluta falsificazione dello Spirito del quale parla il cristianesimo.




[1] Esso verrebbe a manifestarsi in forma risolutiva nel momento in cui Cristo in croce pronuncia le famose parole: “Dio mio, perché mi hai abbandonato”. Qui si manifesterebbe il contrasto del Figlio col Padre che si risolverebbe nella Risurrezione, figura mitica della “negazione della negazione” e del ritorno di Dio a sé stesso.

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