La quercia di Pascoli – di Léon Bertoletti

Il maestro interiore m’indirizza, il direttore spirituale m’indica, il padre delle anime mi suggerisce, il medico del credere m’invita: perché non leggere La quercia caduta di Giovanni Pascoli come una metafora dello stato – vero, attuale, presente – della Chiesa? La Chiesa del gregge e dei pastori, ovviamente, dei fedeli, dei ministri, dei sacerdoti, dei vescovi. La Chiesa forma speciale del Regno di Dio che lavora, attraverso mezzi e Sacramenti, socialmente e spiritualmente nel tempo ma con finalità e intenti extra-temporali. La Chiesa organismo giuridicamente completo e perfetto nel suo ordine. La Chiesa società visibile ed esterna, fondata da Cristo, formata di persone che obbedendo a una autorità gerarchica, il cui vertice è il Papa, compongono un corpo visibile e dovrebbero tendere allo stesso fine di ordine spirituale e soprannaturale: la santificazione delle anime, la salvezza, la felicità eterna.

Quercia caduta? L’immagine è un po’ forte, obietto. L’interpretazione mi pare azzardata, esagerata. Non condivido. Forse non condivide neanche lui, il padre spirituale. Sonda il pensiero profondo di un’intimità religiosa che gli è toccata in custodia, scruta le tortuosità di una fede personale, cerca gli andirivieni delle convinzioni e delle perplessità, dell’affidarsi e disperarsi. Irrobustisce, però, l’esercizio di meditare così la lirica, leggerla oltre l’esegesi, nell’analogia, sconfinando nella mistagogia. Provo, dunque. In obbedienza. In umiltà.

Scorro il brano, i suoi versi così pascolianamente rappresentativi, caratteristici, tipici, indicativi del poeta nella metrica ingenua (in apparenza), nello svolgimento snello, nelle espressioni chiare. La quercia concretizza da sempre l’incontro tra livello alto e basso, tra dimensione verticale e orizzontale, tra divino e umano. È nei secoli, nelle culture, nei simboli rappresentazione di sovranità celeste e terrestre. Il suo legno resistente s’usava per le imbarcazioni, così i Romani indicavano con la parola robur sia questo albero che il vigore – fisico o morale. Alla Quercia di More Abramo incontra il Signore che gli fa promessa di terra santa; alle Querce di Mamre ha prefigurazione, secondo alcuni Padri, la Trinità. La venerazione, anche odierna, non si lascia sfuggire una Madonna della Quercia.

La quercia ha corpo solido, braccia aperte. Accoglie, abbraccia, protegge. Esiste «forza come quella della quercia», oracolo in Amos (2,9). Vale custodia, trasmette sicurezza, infonde tenacia, significa riparo, difesa, aiuto, rifugio. Sia pure dunque, poeticamente, figura ecclesiastica.

Parafraso, leggo Pascoli a modo di parabola. Il grande albero, la Chiesa, non dona più ombra, non offre riparo e non è più militante, non lotta contro chi la assale. Si è adagiata sul mondo, ha cambiato stato ma è fissa, ha smesso di indicare il cielo. Soltanto annuncia il sé dei suoi rappresentanti: vanità, presunzione, boria. Le promesse primavere restano nidi sfasciati incapaci di ospitare anime. «Era grande… era buona…» dicono le persone guardando al passato e accorgendosi di una situazione mutata, in peggio, nonostante i resoconti trionfalistici e i proclami di misericordia. Perché nel coro dei consensi modani, dei tripudi, dei plausi, degli urrà, delle lodi, degli elogi, nello sbrodolamento di facili entusiasmi, intanto ciascuno perverte la dottrina, svia il magistero, rompe la tradizione, spezza l’unità e l’integrità, tiene soltanto quello che dà piacere e convenienza. Si taglia un ricordino e si porta via.

Tolto un legnetto dopo l’altro, ora da uno ora dall’altro, non rimane niente, giunta la sera. Ogni devoto ha il suo rametto di credo casalingo, il suo pezzetto di fede fai-da-te, il suo tocchetto di convinzione metafisica. Al massimo qualche fedele, mettendo insieme frammenti, ricomponendoli in qualche modo, ottiene del sincretismo. Resta, insomma, soltanto un piccolo cristiano nostalgico a piangere e rimpiangere la casa di Dio, la società dei fedeli, la comunità dei credenti che doveva ospitarlo e che, invece, non trova.

Ma non c’è spazio per il pessimismo. Si vive e si spera, si deve vivere e si deve sperare, nella certezza del non praevalebunt: non prevarranno, sulla Chiesa, i poteri infernali. Una promessa già in Isaia (6,13), dopo la divina punizione, «come una quercia… di cui alla caduta resta il ceppo. Progenie santa sarà il suo ceppo».

Ecco: «Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande / morta, né più coi turbini tenzona. / La gente dice: Or vedo: era pur grande! // Pendono qua e là dalla corona / i nidietti della primavera. / Dice la gente: Or vedo: era pur buona! // Ognuno loda, ognuno taglia. A sera / ognuno col suo grave fascio va. / Nell’aria, un pianto… d’una capinera // che cerca il nido che non troverà».

 

 

 

3 commenti su “La quercia di Pascoli – di Léon Bertoletti”

  1. No, la nostra Quercia ancora “coi turbini tenzona”! Non è più quel grande albero che offre riparo a chiunque si avvicini, ma solo a chi lo cerca. Ed è sempre militante e lotta, come non mai, contro chi l’assale! Non ha smesso di guardare il Cielo, sol perché la sua linfa non raggiunge più la cima. Ma le sue radici rimangono salde, rimarranno vitali, almeno sino a quando… le città saranno devastate, senza abitanti, ed il paese sarà ridotto in desolazione! Perciò non c’è spazio per il pessimismo : veramente da quella quercia abbattuta nascerà, come è stato detto al profeta, una discendenza santa! Deo gratias!

  2. Può cambiare lo stato – della Chiesa – cioè la Sua condizione, ma non la natura che discende da Dio. Nè alcuno può trovare salvezza allontanandosi dallo Spirito Santo che risiede in lui, nella sua anima, al di fuori dell’uomo interiore di cui parla S. Paolo. Gesù resta in comunione con il Padre, mai è “fuori di Sè”. Il figliol prodigo nel pentirsi “rientrò in se stesso” e disse : “Padre ho peccato contro il Cielo e contro di te”. La chiamata al banchetto nuziale è l’invito universale a partecipare alla gioia del Regno dei Cieli, “spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni, rivestiti del nuovo … che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore”. A Lui affidiamo le ferite di tutti noi Suoi figli, certi di poter essere guariti. Nessuno ci rapirà dalla Sua mano.

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