LA TRADIZIONE CONTRO IL PAPA – di P.Giovanni Cavalcoli,OP

di P.Giovanni Cavalcoli,OP

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Per noi cattolici, come si sa, il contenuto del messaggio evangelico, insegnatoci un tempo oralmente da Nostro Signore Gesù Cristo e consegnato agli apostoli e loro successori perché fosse predicato in tutto il mondo, fu già dai primissimi tempi del cristianesimo nel suo insieme messo per iscritto – ed abbiamo gli scritti del Nuovo Testamento come completamento all’Antico -, mentre altre verità non senza rapporto con la Scrittura furono conservate mediante l’insegnamento orale, e ciò costituisce la sacra Tradizione apostolica, detta più brevemente “Tradizione”, parte della quale poi successivamente nel corso dei secoli fu messa per iscritto, senza per questo esser confusa con i testi della Sacra Scrittura.

Per noi cattolici la conoscenza infallibile del dato rivelato, mediato dalla Scrittura e dalla Tradizione, ci è ulteriormente mediato dal Magistero della Chiesa, continuatore dell’insegnamento degli Apostoli, sotto la guida del Successore di Pietro, il Papa. Vale a dire che il Magistero vivente ed orale della Chiesa ha la funzione, attribuitale da Cristo stesso con l’assistenza infallibile dello Spirito Santo, di trasmettere, conservare, insegnare, interpretare, spiegare, chiarire, esplicitare e sviluppare i dati della Tradizione e della Scrittura.

Le verità rivelate consegnate da Cristo una volta per sempre agli Apostoli in se stesse sono immutabili perché divine (“cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”) e per questo vanno conservate intatte nei secoli con assoluta fedeltà. Ma nel contempo questo patrimonio di infinita sapienza viene conosciuto sempre meglio dalla Chiesa nel corso dei secoli sino alla fine del mondo, grazie all’aiuto dello Spirito Santo, il quale “rinnova tutte le cose” e per espressa dichiarazione di Cristo, ha il compito di condurre la Chiesa “alla pienezza della verità”.

Una tentazione che si è verificata nella storia del cristianesimo ed alla quale purtroppo molti hanno ceduto, è stata quella di crearsi la convinzione gratuita ed infondata che per sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato non c’è bisogno di stare agli insegnamenti o all’interpretazione del Magistero vivente ed attuale – per esempio quello di un Concilio -, ma è sufficiente porsi a contatto diretto e personale o con la Scrittura o con la Tradizione. Il primo è stato l’errore di Lutero ed oggi dei modernisti, soprattutto in campo esegetico; il secondo è l’errore dei lefevriani.

Il famoso, perspicace ed informatissimo sociologo cattolico Massimo Introvigne, in un suo recente articolo, ha giustamente osservato che modernisti, protestanti e lefevriani, per quanto per altri versi in opposizione tra di loro, vengono ad avere nei confronti del Magistero del Sommo Pontefice, soprattutto i Pontefici del postconcilio, il medesimo atteggiamento contrario al vero cattolicesimo, con la differenza che mentre i protestanti da sempre hanno apertamente dichiarato la loro opposizione al cattolicesimo, i modernisti fingono di essere cattolici, ma in realtà sono protestanti, e i lefevriani stranamente vogliono considerarsi cattolici ed addirittura paladini dell’ortodossia cattolica ancor meglio dei Papi del postconcilio e delle dottrine del Concilio Vaticano II, che essi accusano di aver falsato o abbandonato la “Tradizione”.

I lefevriani non si rendono conto che ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa. I lefevriani fanno come chi – mi si scusi il paragone materiale ma rende l’idea – volesse giudicare il valore di un’auto dell’ultimo salone di Torino alla luce di un’auto del 1930.

Avviene così  che come i protestanti pretendono di giudicare l’insegnamento dei Papi alla luce di un contatto diretto e soggettivo con la Scrittura, trovando nei Papi un’infinità di errori, similmente i lefevriani pretendono di giudicare gli insegnamenti del Magistero posteriore al 1962 (come ha osservato lo stesso Benedetto XVI) alla luce di un contatto immediato e parimenti soggettivo con la Tradizione, essi pure credendo di trovare nel Concilio e nei Papi del postconcilio una falsificazione di certi dati della Tradizione.

Ora i protestanti, i modernisti ed i lefevriani non si accorgono che con questo loro atteggiamento, per quanto si annoverino tra di loro teologi dotti e dottissimi, finiscono con la pretesa di avocare a sè quel dono di infallibilità che Cristo non ha assicurato né ai teologi né agli esegeti né agli storici della Chiesa, ma ai soli Vescovi, successori degli Apostoli, uniti al Papa e sotto la guida del Papa.

Da qui la tesi diffusa sia tra i lefevriani che tra i modernisti, secondo la quale gli insegnamenti del Concilio costituirebbero una rottura con quelli del Magistero precedente, gli uni per dispiacersene, gli altri per rallegrarsene, gli uni per svalutare a più non posso l’autorità dogmatica del Concilio, gli altri per fare del Concilio una specie di compendio totale del cristianesimo ad esclusione di tutti gli insegnamenti precedenti, gli uni irrigidendo la Tradizione al preconcilio, gli altri negando valore alla Tradizione.

Infatti la Tradizione nel senso cattolico, se può essere paragonata, per la sua solidità e certezza, alla “roccia” come Pietro è la “roccia”, tuttavia  non ha l’inerzia della roccia o la rigidezza di un corpo morto, perché essa, come comprese bene il Beato Henry Newman, in quanto prodotto dello spirito, è un essere vivente, che conserva certo la sua identità, ma nel contempo si accresce, si approfondisce e si sviluppa, anche se è vero che il paragone col vivente non è del tutto calzante, perché una proposizione nuova e più avanzata della Tradizione non sostituisce quella precedente come l’età adulta nel vivente sostituisce la giovinezza, ma si aggiunge alla precedente la quale resta valida e vincolante, così come per esempio la cristologia del Vaticano II certo è più avanzata di quella calcedonese, ma questa anche oggi resta valida nel suo insegnamento immutabile.

L’impressione della rottura possono averla più gli storici del Concilio che non i teologi e se dovessero averla anche questi, sarebbe un fatto grave, perché vorrebbe dire che non sanno vedere la continuità al di sotto del progresso.

Infatti, mentre è normale per il teologo fare maggior attenzione alle formule definitive o definitorie e quindi fisse cui giungono le discussioni conciliari, lo storico, per sua natura legato al succedersi degli eventi, è portato a guardare con maggior attenzione all’evoluzione dei dibattiti che poi conduce alle conclusioni dottrinali finali ed ufficiali, le sole che valgono dal punto di vista della fede.

Per questo lo storico che esamina le fasi o le vicende della elaborazione dei documenti conciliari non può non constatare gli effettivi contrasti, anche in campo dottrinale, che sono emersi durante i lavori del Concilio fra conservatori e progressisti, soprattutto fra quei conservatori che si scandalizzavano irragionevolmente delle novità e quei progressisti che tendevano al modernismo.

Senonchè lo storico, soprattutto se cattolico, non può non prender atto anche delle conclusioni alle quali sono giunti i dibattiti conciliari, conclusioni dove i contrasti sono scomparsi e che appaiono nei testi dottrinali ufficiali, testi che la Chiesa considera definitivi ed irreformabili, come a dire: “infallibili”.

E qui, ad un attento esame, contraddizioni col passato non esistono. Infatti in campo dottrinale ossia dogmatico un Concilio, secondo la stessa fede cattolica, trattando di materia di fede, non può rompere col passato, non può mutare sentenza, non può esprimere sentenze errate o rivedibili. Un Concilio chiarisce un dato precedente, non lo muta, perché mutare vorrebbe dire oscurare e falsificare. Il che per un cattolico sincero è impensabile e per lo storico onesto non è constatabile.

Quanto al teologo, se può essergli utile sapere dallo storico come si è giunti alle conclusioni canonizzate nei testi ufficiali per una migliore interpretazione dei testi stessi, deve però guardarsi bene, soprattutto se è cattolico, dal voler ritrovare nei testi ufficiali dottrinali tracce di quelle incoerenze o imperfezioni che lo storico constata con facilità nel materiale che gli viene fornito dalla storia dei dibattiti conciliari precedenti. Così come lo storico non può dare maggior importanza dottrinale ai precedenti contradditori dibattiti rispetto alle conclusioni alle quali è giunto il Concilio con regolari votazioni.

Quanto ai lefevriani, per sottrarsi a questo dovere di accettare le dottrine del Concilio, si appigliano a pretesti speciosi quanto inconsistenti. Sono soprattutto due: 1) si dice che il Concilio è solo pastorale e non dottrinale; 2) si afferma che nel Concilio non sono stati definiti nuovi dogmi e che quindi le sue dottrine non sono infallibili. Quindi, conclusione, – essi dicono – possiamo correggere il Papa e il Concilio in base alla “Tradizione”.

A ciò si risponde dicendo che non è vero che gli insegnamenti del Concilio sono solo pastorali, ma si danno, come hanno affermato più volte i Papi del postconcilio, anche insegnamenti dottrinali, come tali infallibili, giacchè perché si dia dottrina infallibile – ossia assolutamente e perennemente vera – non è necessario, come la Chiesa stessa insegna (Vedi Istruzione “Ad tuendam fidem” della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1998), che il Magistero dichiari esplicitamente o solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto si tratti di materia di fede. Questo pronunciamento viene qualificato dalla detta Istruzione come “definitivo” ed “irreformabile”, il che è come dire infallibile.

Nel Concilio si danno indubbiamente anche insegnamenti di tipo pastorale, che sono anzi la larga maggioranza. In questo campo la Chiesa non è infallibile e, come dalla stessa storia del dogma si dimostra nei fatti, l’infallibilità del Magistero, in quanto esso non si è mai smentito (checchè ne dica Küng), parimenti lo storico della Chiesa può agevolmente dimostrare come nel campo pastorale la Chiesa ha commesso errori, che poi hanno dovuto essere corretti. E in tal senso un Concilio successivo corregge gli errori pastorali commessi dal precedente.

Così non è proibito rilevare errori pastorali nel Vaticano II, che potranno eventualmente essere corretti dal prossimo Concilio. Ma pretendere, magari sotto pretesto di progresso dogmatico, che il Magistero non abbia una dottrina fissa ed immutabile o che nel corso della storia muti parere in fatto di fede o di dogma o che possa sbagliare o correggere errori commessi, è una tesi assolutamente falsa che può essere smentita dagli storici onesti e perspicaci, soprattutto se cattolici, giacchè il cattolico sa per fede che la Chiesa in fatto di dottrina, nonostante certe apparenze contrarie, non può sbagliare, anche se questa certezza può e dev’essere supportata e confermata dalla storia.

Bologna, 28 febbraio 2011

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