La vita senza il dolore – di Roberto Dal Bosco

Oggi ho appreso che l’ha fatto anche R.

È il terzo nell’arco degli ultimi 12 mesi, ma forse sto contando solo gli amici di giovinezza della mia città natale. Se aggiungo Milano, la città dove ho passato quasi un terzo del mio tempo sulla terra, il computo probabilmente sale.

Sono sincero, non ho la lucidità, o forse la voglia, di mettermi a contare quanti sono.

Ho in mente i tre di quest’anno perché sono detonati come una bomba terrorista nel tempio d’oro dei ricordi, lasciando voragini dove un tempo era il giardino degli anni più belli.

R., come L. e A., si è suicidato.

 

Epidemia

L’Istituto Superiore di Sanità, ente che in realtà non gode della mia simpatia, dà la sua definizione: un’epidemia «si verifica quando un soggetto ammalato contagia più di una persona e il numero dei casi di malattia aumenta rapidamente in breve tempo. L’infezione si diffonde, dunque, in una popolazione costituita da un numero sufficiente di soggetti suscettibili. Spesso si riferisce al termine di epidemia con un aumento del numero dei casi oltre l’atteso in una particolare area e in uno specifico intervallo temporale».

Hanno gridato varie volte all’epidemia di morbillo, per giustificare l’obbligo – cioè il consumo coatto per la gioia della Glaxo – dei vaccini. Lo hanno fatto magari davanti a due o tre casi di bambini contagiati.

Quindi, sono qui io davanti ad una epidemia vera, reale, pericolosa? Certamente.

Del resto la contagiosità del suicidio è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (un altro monstrum superstatale che avverso).

Del resto, iscritto all’Ordine dei Giornalisti – quindi obbligato a seguire ogni anno corsi deontologici pena la radiazione – sono informato del fatto che dei suicidi io non dovrei scrivere, neanche in questo momento:

«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione mondiale della sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita. E raccomandano anche la necessità di tenere al riparo da un’inutile e crudele pubblicità i familiari e i parenti già provati da un così forte dolore.

Per questo, a parte pochi, straordinari casi nei quali il diritto e il dovere di cronaca prevale sul rispetto della privacy, non devono essere divulgate le generalità di chi ha deciso di togliersi la vita e altri particolari che rendano il suicida identificabile, nel pieno rispetto della persona, che è uno dei cardini della professione, come ricordano i principi della Carta dei doveri del giornalista».

 

Necrocultura

State pensando a DJ Fabo? A Welby? Ai suicidi in Isvizzera filmati con gaudio dalle Iene? Alla piccola epidemia di suicidi tra registi scoppiata con Lizzani e Monicelli? Alla Ripa di Meana?

Sì? Se lo state facendo, è perché, lapalissianamente, i giornalisti se ne fottono: delle stesse patetiche regole che si vogliono dare, della dignità dei morti, e soprattutto della responsabilità innanzi a chi potrebbe emulare.

Vi raccontano tutto con dovizia di particolari, perché la cosa è di estrema importanza per i loro padroni: ai Signori della Necrocultura la cronaca suicida importa eccome, perché sappiamo che è in agenda.

La morte volontaria è overtonizzata da mo’. Una cosa impensabile un tempo (il girone del settimo cerchio in Dante), diviene radicale («lo fanno i samurai, i kamikaze»), poi razionale («in fondo è giusto che ognuno decida per sé»), quindi popolare («lo fanno i famosi, da Hemingway a Cleopatra»), infine legalizzata: e qui sappiamo che parliamo di una questione freschissima. Come ha titolato splendidamente Repubblica lo scorso 31 gennaio: «Biotestamento: da oggi i desideri dei malati sono legge».

Il suicidio è oramai legale in Italia, e nella formula del feticidio 194/78: come morte di Stato.

Inutile nascondersi dietro ai «paletti» democristiani: oggi riguarda il fine-vita, ma, visto che abbiamo gli esempi neerlandesi e belgi, sappiamo che si fa prestissimo a domandarsi cos’è il fine-vita, e a garantire il suicidio a carico del contribuente a giovani depressi, a persone che considerano la propria vita «completa», oppure semplicemente ad ammazzare le persone senza il loro consenso (431 eutanatizzati senza il loro consenso in Olanda nel 2015), inclusi i bambini.

Ma non è nemmeno questo quello che voglio scrivere davvero: di geremiadi politiche pro-vita, nel Paese dei Soloni antiabortisti eunuchi e dei leader cattolici sterili o esibizionisti e della demenza pro-life generalizzata, ne abbiamo già troppe.

Vorrei scrivere qualcosa di più semplice, ma al contempo profondo, e tecnico.

I suicidi che in questo stesso momento stanno bombardando la mia esistenza sono l’effetto preciso di un fenomeno epocale non molto dibattuto, del cambio di paradigma umano che interessa l’umanità occidentale da oramai più di due secoli.

 

Utilitarismo

Nella mente del mondo è stato installato un nuovo software: l’Utilitarismo.

L’Utilitarismo, che di rado si studia al liceo e nemmeno all’Università, è quella dottrina filosofica per la quale il Bene è ciò che aumenta la felicità – cioè, il piacere – degli esseri senzienti.

Nell’algebra morale degli utilitaristi, la società deve perseguire con ogni mezzo quelle azioni che aumentano la quantità di piacere della popolazione, anche a discapito di una minoranza, che può essere tranquillamente sacrificata per il bene maggiore, cioè per il piacere maggiore ( sì, la logica neo-cattolica del male minore passa soprattutto da qui).

Non stupisce che l’utilitarismo fiorisca tra il Settecento e l’Ottocento in Inghilterra, quando la Corona d’Albione intraprendeva il saccheggio cruento dell’Africa, dell’India, e della Cina. Al sacrificio dei selvaggi depredati, corrispondeva l’estasi della borsa di Londra, che ne trasse il lucro di immani piaceri imperiali.

Jeremy Bentham, oggi considerabile come il pensatore principale dell’Utilitarismo, nei suoi discorsi trattò della libertà personale ed economica (è uno dei diòscuri del liberalismo), della divisione di stato e chiesa (come da tradizione di Enrico VIII), e poi dei dei diritti degli animali (di cui fu pioniere assoluto, come riconosciuto dal padre dell’animalismo contemporaneo, il super-utilitarista ultra-abortista Peter Singer), delle punizioni corporali (alle quali preferiva un potere che estendesse un subdolo e costante controllo su tutti, inventando la prigione a Panopticon, che tanto mi ricorda, oggi, internet, dove con poco sforzo ogni tuo singolo pensiero può essere scrutato e sorvegliato), il diritto al divorzio, il diritto all’usura (scrisse Difesa dell’usura), il diritto alla sodomia (scrisse Difesa dell’omosessualità).

Come potete ben vedere, il mondo moderno ha avuto una programmazione piuttosto evidente, leggibile, direi quasi open-source.

Il mondo dei diritti, il mondo del desiderio liberato dalle rivoluzioni «civili» e «sessuali» ha fatto leva sul piacere, tanto da divenire indistinguibile dalla legge stessa dello Stato: ho diritto a ciò che desidero, ho diritto a ciò che mi dà piacere, come da morale utilitarista.

Un matrimonio invertito, una droga sintetica, un bambino in provetta.

 

Piacere

Senza la trappola del piacere, tale riprogrammazione dell’umanità non avrebbe trovato clienti.

Un’umanità fatta di puro piacere, vecchia promessa degli anni delle rivolte giovanili, sembra tutt’ora la destinazione finale del progresso.

La medicina vuole curare ogni male: Mark Zuckerberg, il padrone di Facebook e di tutti i vostri dati, ha già detto che userà i suoi miliardi per eliminare ogni malattia entro la fine del XXI secolo.

In Nordamerica sono in corso sperimentazioni di neurotecnologie per fare sparire i cattivi ricordi, così come si può essere denunciati per aver provocato sconforto in una persona semplicemente per aver parlato di un tema per loro intimamente traumatico (è il cosiddetto Trigger Warning, strumento d’azione del politicamente corretto).

Sappiamo inoltre come la principale causa di morte negli Stati Uniti in questo mondo sia l’overdose da oppioidi: droghe che i dottori americani (spalleggiati da colossi farmaceutici come la Purdue) hanno prescritto a tonnellate per eliminare il dolore dei loro pazianti.

La vita moderna, insomma, coincide con il piacere che può percepire, nell’identità assoluta dei due elementi.

Una vita disgiunta dal piacere deve terminare, perché priva del suo senso.

L’utilitarismo è penetrato nella logica profonda dell’uomo comune. Senza piacere, cosa è la mia vita?

Essa diviene lebeumwerten leben, espressione tedesca che dai pionieri uncinati degli anni Trenta è passata a definire con esattezza la nostra epoca: «vita indegna di essere vissuta».

Lo capite bene: chi è depresso è giocoforza tagliato fuori dalla logica utilitaria – la depressione è appunto definita come anedonia, cioè incapacità di provare piacere davanti a qualsiasi esperienza.

Il depresso, convinto nel profondo che la vita sia solo piacere, non può che essere legittimato a togliersela.

E questo ammesso che la depressione esista, e non sia – come sostiene qualche psichiatra controcorrente – solo un’etichetta medica affibbiata alle umanissime condizioni della miseria e della maliconia, etichetta stampata per far vendere qualche milione di ore di psicoterapia (a differenza del Sacramento della Confessione, si paga) e qualche trilione di pastiglie psicotrope, i cui effetti-paradosso sono talmente noti che in America devono recare nel bugiardino il Black Box Warning (gli antidepressivi, debbono scrivere i foglietti illutrativi bordando il tutto con colore nero, possono amentare il rischio di suicidio).

Gli psicofarmaci, per inciso, sono l’unica vera costante di tutte le stragi nelle scuole americane (per sapere il nome del farmaco a cui era sottoposto lo sparatore bisogna in genere aspettare mesi, perché i giornali non hanno voglia di dare un dispiacere alle Big Pharma che comprano loro tanta pubblicità) e non solo quelle, basti pensare allo Zoloft di cui era imbottito il pilota della Germanwings che fece schiantare il suo aereo con tutti i passeggeri, pochi anni fa.

Il depresso, nella logica utilitarista che è oggi il software del mondo, è disfunzionale, non performante, forse neppure autonomo (aspetto principale della bioetica utilitarian di Peter Singer, che sostiene che l’handicappato o il bambino piccolo possano essere ammazzati tranquillamente: non sono autonomi né funzionali).

Il malinconico va eutanatizzato: al momento lo fa da sé, ma da ora gli darà sempre più una mano anche lo Stato biotestamentario.

Consideriamo che oltre che letteralmente inutile, egli può risultare addirittura pericoloso: il suo male sporca il principio di piacere generale, potrebbe estendersi per contagio presso la restante massa gaudente.

Ci sarebbe da chiedersi quindi: e prima du tutto questo, cosa c’era?

 

Croce

Prima, cari lettori, c’era la Croce. Prima c’era la Civiltà. La Civiltà cristiana – l’unica vera Civiltà, circondata da tradizioni umane fatte di suicidi e sacrifici umani che, se sono rimaste in piedi, è solamente perché hanno copiato lo slancio dell’Europa – aveva una base semplice, chiarissima.

A quel tempo, il mondo era unito dalla Passione.

La Civiltà adorava un Dio che soffriva.

Un Dio torturato a morte, umiliato, sconfitto.

Ogni città aveva mille croci sulle sue strade e nelle sue case: sopra le Chiese, dentro le Chiese, sopra le case, dentro le case, nei racconti e nei cuori delle persone.

Che il dolore fosse una parte integrante della vita era naturale: il dolore era la cifra stessa del sacrificio di Dio per l’umanità.

Di più. Il dolore non solo era connaturato alla vita stessa, ma era collegato con ciò che vi stava oltre: la vita eterna domandava sacrifici, nei casi dei Santi Martiri così come delle persone comuni.

Non è il piacere che ti porta in Paradiso, e ciò – il rovescio chirale della modernità – era iscritto nella logica profonda anche del più misero uomo.

La scristianizzazione era necessaria alla costruzione della nuova umanità.

Togliere Cristo per far dimenticare il dolore, esorcizzarlo, demonizzarlo.

Sconvolgere per sempre l’insiemistica dell’esistenza: la vita non contiene il piacere e il dolore, la vita coincide con il solo piacere, se vi è dolore non è vita, quindi meglio darsi alla morte.

Credo che questa sia la motivazione primaria dell’ecatombe di amici che sto vedendo innanzi a me.

Drogati dal paradigma del piacere utilitarista, nessuno di noi oggi riesce a sentire davvero il significato vitale del dolore.

 

Terrore

Non ho scritto di loro, anche se ne avevo tanto bisogno.

Scriverò qualcosa di me, allora, e con l’ovvia vergogna del caso. Tanto per aggiungere un pensiero cristiano in più.

Perché io ho avuto tanta fortuna, più di loro, e questo adesso mi fa pure un po’ soffrire.

Ho anche io, come una enorme porzione di altri uomini, attraversato momenti di tenebra vera, assoluta. Momenti in cui il mondo aveva spezzato ogni singola fibra del mio essere, e ogni pensiero si trasformava in un’apocalisse che si inghiottiva tutto.

Ne sono uscito talvolta con uno slancio di raziocinio eroico, per esempio la comprensione che, appunto, la mia vita non coincideva con quello che mi accadeva, ma era un insieme più grande: «sono più forte di qualsiasi pensiero, di qualsiasi sensazione io possa avere», mi ritrovai un giorno a scrivere in una lettera a mia sorella. L’essere, questo dono mistico che non mi era permesso di comprendere del tutto, era più grande di qualsiasi accidente terreno. La vita era più del mio dolore e più della mia mente: comprenderlo cambiava per sempre il gioco.

Altre volte, invece, ho avuto una fortuna più grande: ho avuto paura. Giunto sull’orlo terminale, ho sentito lo spavento emanato dall’unica cosa che veramente un uomo debba temere: l’Inferno.

Davanti alla reale prospettiva dell’Inferno, tutto cambiava: un oceano di dolore infinito, senza redenzione, un sistema illimitato di dolore sterile, dolore che – a differenza di quello della croce – non produce nulla, se non la propria dannazione.

Timor Dei est initium sapientiae.

Il terrore più estremo è stato il mio più grande alleato, la mia sfortuna sfacciata.

Sì.

 

Catastrofe

Voi lo capite: anche io, come quel santo vescovo francese, accuso il Concilio.

Togliere l’Inferno, svuotarlo, dimenticarlo, abolirlo come ha fatto la neo-chiesa dei Von Balthazar e dei Bergoglio è stato, al contrario, popolarlo – e, sulla Terra, aumentare a dismisura il numero dei suicidi. E degli aborti. E financo degli omicidi.

Il Concilio si mostra, anche in questo frangente, come la più grande catastrofe nella Storia dell’Uomo, in quanto esso ha permesso la riprogrammazione dell’Uomo verso la sua estinzione – e la sua dannazione.

Celebrare pubblicamente i funerali di un suicida, come oramai perfettamente normale, aggiunge una dimensione pragmatica al vortice di morte.

R., che ci ha lasciato sabato, era presente alla cerimonia in chiesa di A., che ci ha lasciato un anno fa. Al funerale di A., cui scelsi di non partecipare, vennero lette tante belle cose, vennero ascoltate le musiche preferite dell’amico morto. Nella mente di un ulteriore potenziale suicida, non un clic da poco: se me ne vado, mi ricorderanno così, tutti uniti, affranti sì, ma finalmente insieme sotto il mio segno…

L’Ordine dei giornalisti e l’OMS, ho detto all’inizio, quanto meno sulla carta si preoccupano del carattere contagioso del suicidio; la Chiesa di oggi invece no.

Perché la Chiesa di oggi è davvero un ente stupido quanto assassino.

Perché la Chiesa di oggi è il vero problema, il vero nemico dell’Umanità e del Dio della Vita.

 

La vita tutta intera

Ho scritto abbastanza.

Infine, voglio dirvelo: A., L., R., e poi andando indietro ancora, P., M., G., vi ho voluto bene. Pagherei qualsiasi cosa, ora, per avervi potuto parlare anche solo per un minuto in più. Per godere di questa sostanza preziosissima, che ora mi sarà negata senza appello.

Nella mia stupida posizione di sopravvissuto, voglio farvi questa promessa.

Io lotterò per conservare la ferita che ci avete inferto: perché il dolore che sento è il centro della mia umanità, come lo è stato per l’umanità di Dio.

E quindi, la chiave della mia sopravvivenza.

Perché la vita senza il dolore, ho capito, è solo desiderio di annientamento, è morte.

E di voi invece io voglio celebrare la vita, tutta intera.

Che è stata – che è – immensamente più grande del dolore e del piacere.

 

 

 

 

 

16 commenti su “La vita senza il dolore – di Roberto Dal Bosco”

  1. Luigi Bruno Torre

    Grande Dal Bosco… non c’è che dire … Mi torna in mente altro superlativo articolo, su Mega morte, Aborto e Bomba atomica. Qui c’è qualcosa di esplosivo, di incenerente … Metodo di propagazione/diffusione familiare e congeniale, credo si possa dire, al Ns. grande Autore … Non è solo lo stile giornalistico, non è solo la competenza, non è solo il coraggio …. Non sono solo le splendide metafore, gli efficaci neologismi, le sferzanti definizioni … E’ il PENSIERO … Il sano pensiero cristiano cattolico… Quel pensiero che il comune Amico Piero Vassallo, qui più che “di casa”, giustamente agogna divenga penna, anzi quante più penne possibili … Giovani ed efficaci e puntutissime penne cattoliche, come questa, la penna di Roberto L’Incendiario … L’UNA SANCTA rimane (riprendendo il leitmotiv) infinitamente più grande/forte delle macchie e tiepidezze degli uomini di Chiesa … ma qui, nel paragrafo “Catastrofe”, si “becca” due/tre getti di lanciafiamme mica da ridere …

  2. Solo se si pregasse dicendo: “Signore, dammi le grazie necessarie per fare sempre la Tua santa volontà” si accetterebbe di vivere la vita così com’è. Questo ci insegnavano un tempo quando preti e vescovi e super vescovi erano ancora cattolici; accettando la volontà di Dio ci siamo formati noi ormai anziani.Quando invece alla Sua volontà è stata sostituita la nostra, tutto si è frantumato e altro non è rimasto che la bramosia sfrenata del benessere, insomma del puro piacere. Se solo qualcuno la domenica dal pulpito raccontasse la vita di certi santi,le tribolazioni di P.Pio, quale elevazione spirituale offrirebbe?! Invece è la misericordia la parola d’ordine che tutto copre, tutto perdona e tutto cancella. Perciò ti saluto peccato, e con te dico addio anche all’inferno,orrendo luogo frutto di menti malate che non hanno a cuore la felicità dell’uomo e che del Vangelo non hanno capito niente. Anticaglie, roba da fine del mondo. E manco a dirlo, il Vangelo proprio dalla fine del mondo è finalmente arrivato uno a farcelo capire davvero.

  3. Prendo lo Zoloft dal 2003, in dosaggi da protocollo. Abbasso la dose d’estate, sotto controllo medico. Mi ha permesso di vivere una vita decente, mediamente produttiva, mediamente equilibrata, fino ad ora. Capisco perfettamente che la ricaptazione periferica della serotonina, che è il principio dei farmaci SSRI, è un assurdo logico (con questi fasi affronta la malattia combattendo in periferia, inibendo il processo che elimina la serotonina dal vallo sinaptico) ma tant’è, non sembra esserci niente di meglio, per ora. Come me, tante persone sono aiutate in questa condizione da quella molecola. Credo che prima di additare gli psicofarmaci a concause di un suicidio, e scriverlo, bisognerebbe pensarci due volte.

    1. Caro Clesinger, mi dispiace per te, ma il suicidio,insieme all’aumento dei comportamenti violenti, è un effetto collaterale degli antidepressivi frequente ed ampiamente documentato dalla scienza. Prima di accusare chi dice verità scomode, bisognerebbe pensarci tre volte.

    2. Lucia Fiorenzani

      Anche io devo prendere il Cipralex (carmaco SSRI) per sopravvivere. E mi trovo bene. D’altra parte a un diabetico si dà l’insulina per curare il pancreas (e nessuno si scandalizza) e a noi occorre dare questi mediatori chimici per curare il cervello (un organo come un altro). Rimane un articolo FANTASTICO, meraviglioso, superbo. Roberto dal Bosco lei ha fatto centro. Grazie e complimenti. Penso che stamperò tante copie di questo articolo e lo invierò ad altrettante persone affinché possano ricevere luce…

  4. Caro grande Roberto Dal Bosco. Hai centrato la questione ed hai spiegato bene come la falsa chiesa misericordista e buonista e’ complice e omicida.

    Le pie anime perbeniste che ancora si scandalizzano quando chiami Bergoglio col suo appellativo proprio di anticristo, le pie censure che riservano a chi dice quello che scrivi tu, solo perche’ e’ vero, devranno capire presto o tardi che la via per la Verita’ non e’ facile ma dolorosa. E’ la sofferenza che consuma il peccato, che salva, non il piacere.

    Gli omicidi modernisti gridano vendetta al cospetto di Dio e non sara il perbenismo piccolo borghese ne’ il misericordismo alla sudmericana a fermare la Giustizia divina.

    D’altro canto tutto il vero bene viene da Dio e se non puo piu passare per qualche amico che s’e’ perduto l’anima (il peccato li uccide quanto i suicidi), passera’ quel bene per altre vie, perche’ se e’ vero che i suicidi non vanno in paradiso e’ vero pure che se spuntiamo il paradiso non avremo piu tristezze ne’ perdite da rimpiangere.

    Anche a me e’ capitato e anche io non sono andato ai…

  5. Questo articolo meriterebbe di essere letto da pulpito. Lo invierò a diversi presbiteri così aumenterà la misericordia bergogliana nei miei confronti.

  6. Come sempre, senza preamboli e circonlocuzioni Dal Bosco mena rasoiate affilate al politicamente corretto e ripropone, scarnificato, il senso profondo del vivere.
    E’ un articolo che merita senz’altro di essere memorizzato, non prima però di averlo censurato del paragrafo stonato sulle geremiadi, sui soloni antiabortisti e sulla demenza pro-life, e di aver cancellato il nome di Von Balthasar dall’accoppiamento con Bergoglio a proposito dell’inferno vuoto neoparadigmatico: il bravo don Minutella, che lo riconosce come maestro, non è certo sostenitore di apocatastasi o inferni vuoti.

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