Le due “Carte” di Bottai – di Lino Di Stefano

di Lino Di Stefano

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gsppbttE’ notorio l’impegno dell’intellettuale romano nel contesto di ciò che fu, opportunamente, chiamato Il Nuovo ‘Contratto Sociale’ (1927-1939); relativo, cioè, a ciò che una esegeta di Bottai, Anna Panicali – autrice, tra l’altro, dell’ottimo lavoro antologico ‘Bottai e il Fascismo come rivoluzione del capitale’ (Cappelli Editore, Bologna, 1978) – evidenziava, in tale studio.

 E vale a dire che “La rivoluzione fascista risolve il problema della sovranità popolare attraverso il regime corporativo: lo Stato esercita la sua sovranità sui singoli organismi che compongono la società, cioè sulle organizzazioni dei produttori e dei lavoratori in cui si esprime e si rappresenta, diviso per ‘categorie’, tutto il popolo”.

  Rivoluzione, evidentemente, incentrata sulla celebre ‘Carta del Lavoro’ (1927) il cui imperativo consisteva, allora, nel procedere oltre il capitalismo ed il marxismo visto, osservava l’Autore del Documento, il  primo febbraio 1927, su ‘Critica fascista’, che essa, mirava, appunto, “a trasformare e non a sopprimere la base della sovranità popolare”. Non a caso, la ‘Carta’ esordiva col  concetto di unità etico-politica della Nazione italiana e con la doverosa tutela sociale del “lavoro sotto tutte le forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali”.

    A tale proposito, Giuseppe Bottai spese tutte le proprie energie per ideare e realizzare i princìpi basilari di una nuova visione del mondo del lavoro incardinata su fondamenti umanistici considerato, inoltre, che, lo stesso parlava di ‘umanesimo’ specificando, a ragione, che “il movimento umanistico contemporaneo ha indirizzi filosofici e scientifici molto più vasti di questi, di mera contingenza politica”;  nel senso, cioè,  che “il cittadino,  per il fatto di essere uomo, ha molteplici diritti di libertà, che costituiscono nel suo complesso la personalità umana”.

   Chiarito che la concezione fascista, più che rivolgimento politico e sociale era, al contrario, una “rivoluzione dello spirito umano”, Bottai così si espresse intorno al genuino valore dell’importante Documento: “La Carta del Lavoro si presenta perciò con un aspetto tutto originale e con un carattere spiccatamente rivoluzionario”, dato che per averne piena contezza è sufficiente leggere e meditare, attentamente, i suoi XXX articoli i quali coprono un po’ tutto l’intero quadro  delle attività lavorative e pratiche, in genere.

   Dalla libertà sindacale e professionale, ai contratti collettivi di lavoro, fondati sulla “conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori”; dalla Magistratura del lavoro – “organo con cui lo Stato interviene a regolare le controversie” – all’azione del sindacato tesa a disciplinare ”l’opera conciliativa degli organi corporativi”;  dalle garanzie come il riposo settimanale, il periodo annuo feriale retribuito, la previdenza, l’educazione, l’istruzione, l’assicurazione a tanti altri provvedimenti a favore di tutti i lavoratori, manuali e professionali.

   Ecco la ragione per la quale il Ministro poteva, in proposito, concludere,  che “la Carta del Lavoro, nel suo concetto egualitario e nell’affermazione dei diritti del lavoro, non è una antitesi, ma un superamento dei ‘Diritti dell’Uomo’”, presentandosi, per di più, essa, non come  una meta, bensì quale  un mezzo, ovverosia un “principio, il fondamento di un edificio sociale nuovo, a cui la nostra giovane generazione porterà un grande contributo”.

   Per il secondo rispetto, l’altro gioiello della multiforme azione politico-culturale di Giuseppe Bottai è costituito dalla non meno celebre ‘Carta della Scuola’ (1939), senza contare la creazione e la direzione di tante Riviste, segnatamente, ‘Primato’. Anche in questa occasione, l’esordio dell’Autore del secondo importante ‘Documento’ pedagogico era chiaro ed inequivocabile nel senso che il Ministro – dopo aver reso i dovuti riconoscimenti alla Riforma del 1923 e al suo autore, Giovanni Gentile – rilevò, da una parte, che quella del filosofo attualista “aveva avuto lo scopo di adeguare la scuola alla nuova cultura italiana – con l’introduzione, aggiungiamo, di tanti strumenti tecnico-didattici come, ad esempio, l’esame di Stato – e, dall’altra, osservò che “per fare una simile riforma occorreva una forte personalità come quella del Gentile che poteva riassumere e impersonare la nuova cultura italiana come si era maturata nei primi venti anni del ‘900 rinnovando anche gli studi pedagogici”.

   Riconosciuta, pertanto, la validità dell’impostazione gentiliana, Bottai scrisse che bisognava conferire maggiore portata spirituale sia alla cosiddetta educazione fisica, sia  all’addestramento collettivo, sia, infine, all’organizzazione politica perché – così aggiungeva il Ministro dell’Educazione Nazionale – la ‘Carta’  “richiama la Scuola e la Famiglia alla collaborazione”; la Famiglia, infatti, alla formazione dell’uomo “concorre con valori, qualcuno, forse, quasi impalpabile, ma essenziali alla personalità morale, al carattere”.

   Stabilito che la ‘Carta’ era “un tutto organico”, l’Autore si rivolgeva soprattutto ai cultori di questioni scolastiche, spronandoli a riflettere su ciò che egli, giustamente, considerava il fiore all’occhiello della  riforma e vale a dire la scuola media inferiore unica. Quest’ultima, a suo dire, “forse l’aspetto, che richiamerà maggiormente l’attenzione dei tecnici, della scuola, come ci è stato dimostrato dalle feconde discussioni che sono state promosse  nell’ambiente stesso della scuola e nella stampa scolastica. Ma uno degli aspetti certamente più nuovi e appassionanti è l’associare allo studio il lavoro, per educare la coscienza sociale e produttiva dei giovani”.

 L’impegno politico ed intellettuale di Giuseppe Bottai non si esaurì, certamente, nella disamina delle  considerazioni precedenti per il semplice motivo che i suoi sforzi in direzione di una sempre migliore consapevolezza critica dei problemi sociali, economici, culturali, educativi, giornalistici e politici da affrontare, lo impegnarono durante l’intera sua umana esistenza anche con errori di cui nessun uomo, che sia tale, è esente considerato, come osserva il poeta Terenzio, che “Homo sum, nihil humani a me alienum puto”.

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