L’Editto di Costantino nella storia e oggi: a margine di nuove concezioni – di Jean-Michel-Emeric de Batz

di Jean-Michel-Emeric de Batz

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cstntmprtL’anniversario dei 1700 anni dell’Editto (o piuttosto Accordo) di Milano ha riproposto all’attenzione e alla riflessione storica e religiosa la vexata quaestio del senso della “svolta” o “rivoluzione costantiniana”, da tempo presente in campo laico come in quello cattolico. I fatti sono abbastanza noti nelle loro linee essenziali ma non è inutile richiamarli.

Con la vittoria di Margum sul Danubio dell’ex-comandante delle guardie del corpo di Numeriano, il dalmata Diocle poi divenuto Diocleziano, su Carino, si ha la fine della cosiddetta “crisi del III secolo” e del vorticoso avvicendarsi di deboli figure imperiali di militari elevati dalle truppe. Il vincitore ha le idee chiare, nel 286 si associa come collega Massimiano e nel 293 istituisce la tetrarchia, affiancando ai due Augusti d’Oriente e d’Occidente due Cesari, rispettivamente Galerio e Costanzo I Cloro. Di questi ultimi il primo sposa una figlia di Diocleziano e il secondo una figlia (Teodora) di Massimiano, in modo da consolidare in un’unica dinastia il complesso meccanismo, ritenuto indispensabile a contenere e respingere la pressione di barbari germanici e persiani.

Diocleziano opera una serie di riforme, la prima della quale è quella che militarmente supera il limes statico per un concetto di difesa controffensiva basata sulla cavalleria imperiale; porta le province a un centinaio per migliorare l’amministrazione e impedire concentrazioni di risorse da parte di governatori e militari a livello locale; aumenta significativamente la tassazione; sviluppa una pesante e articolata burocrazia; prova a dirigere dall’alto l’economia con prezzi imposti; istituisce una corte imperiale di modello orientale con studiato culto della personalità (il consiglio prende il nome di “consistorium” perché non era concesso sedersi in sua presenza); consente che il controllo delle aree rurali si eserciti attraverso latifondi estesissimi facenti capo a “villae” semiautonome in cambio della regolarità del reclutamento.

Provinciale e self-made man, Diocleziano ammirava e voleva restaurare la romanità e a un tempo era sufficientemente spregiudicato da introdurre innovazioni che alla lunga avrebbero minato dall’interno quel mondo. E’ in questo quadro che egli, dal 303 al 305, emise 4 editti contro i cristiani: col primo proibiva il culto, ordinava la demolizione delle chiese e sequestrava per eliminarli i testi sacri; col secondo rimuoveva i cristiani dagli impieghi pubblici; col terzo condannava gli ecclesiastici che non sacrificavano agli dei nelle occasioni pubbliche; col quarto perseguiva tutti i credenti sic e simpliciter, rinnovando i tempi sanguinosi dell’Imperatore Decio.

Nel maggio 305 egli costrinse il collega a ritirarsi con lui per realizzare alla seconda tetrarchia, con Massimino Daia e Valerio Severo (imparentati con lui e col fido Galerio) nuovi Cesari. Ma le sue illusioni di controllare il meccanismo di successione si rivelarono malriposte, tanto più dopo la morte improvvisa di Costanzo I: prima Costantino (figlio di Costanzo) poi Massenzio (figlio di Massimiano, a sua volta ribellatosi) non riconobbero ed eliminarono Valerio Severo. Morto a Marsiglia Massimiano, col quale Costantino era venuto a patti sposando la figlia Fausta, e Galerio nel maggio 311, di Augusti ne restavano tre (Massimino lo era subito divenuto in Oriente con Licinio Cesare).

Costantino mosse allora contro Massenzio, che aveva sfruttato l’insoddisfazione per il trasferimento della capitale a Milano, e presso il Ponte Milvio il 28 ottobre 312 lo sconfisse e uccise, secondo l’apologetica grazie anche ad avere posto sulle proprie insegne il monogramma cristiano XP, suggeritogli in sogno. Rimaneva da decidere l’assetto istituzionale in Oriente, dove Massimino Daia aveva ripreso le persecuzioni contro i cristiani, nonostante un editto di sospensione voluto da Galerio morente nel 311 e di cui Licinio si fece portabandiera. Arrivato a Milano all’inizio del 313 per sposare Costanza, figlia di Costantino, Licinio giunse con quest’ultimo a un Accordo di concessione ai cristiani della libertà di culto, poi pubblicato il 13 luglio successivo come rescritto imperiale di Nicomedia, poco prima della morte del persecutore Massimino per febbre.

Gli anni che seguirono videro l’equilibrio e la rivalità crescente tra Costantino, che vedeva nell’Editto una decisione strategica e non contingente, e Licinio, che lo aveva adottato per calcolo opportunistico e per il quale i cristiani, come in passato, restavano un fattore di disgregazione; la nomina dei figli dei due Imperatori a Cesari non aveva più il significato voluto da Diocleziano, ma piuttosto quello dinastico e una delle casate era di troppo. La guerra definitiva l’avrebbe dichiarata e persa Licinio nel 324, inaugurando una nuova fase della storia romana, l’Impero cristiano.

E’ da ricordare come Costantino restasse Pontefice Massimo, introducesse un vero e proprio culto dinastico come i predecessori, come la religione del Sol Invictus, che aveva abbracciato prima del cristianesimo pare anch’essa per ispirazione in un sogno, rimanesse in auge fino alla morte di Licinio e come anche nella nuova capitale sul Bosforo consentisse l’erezione di templi pagani. Tuttavia egli proibì i sacrifici negli anniversari imperiali e i “culti superstiziosi” di natura magica, si circondò di consiglieri cristiani e anzi di ecclesiastici (si pensi al suo biografo e cantore Eusebio di Cesarea) e predilesse il cristianesimo con provvedimenti molto significativi e che avranno lungo seguito storico: immunità fiscale per i chierici (prassi derivata dal mondo ebraico), possibilità di rivolgersi al tribunale ecclesiastico nelle controversie, gratuità dei trasporti per il clero (così equiparato all’alta burocrazia), impulso decisivo all’edilizia religiosa, repressione dell’eresia donatista. L’inserimento della Chiesa nella vita pubblica consentì ora che i cristiani dovessero obbedienza senza riserve all’autorità imperiale e che il Concilio di Arles del 314 si pronunciasse a favore della possibilità dei cristiani di fare il soldato per l’Impero. A suggello dell’opera Costantino promosse e presiedette, come egli disse in qualità di “vescovo dei laici”, il Concilio di Nicea del 325, dove emerse come protagonista anche rispetto al Papa e ai Patriarchi orientali: dare soluzione alla controversia ariana era essenziale per impedire l’affermarsi delle deviazioni settarie all’interno della nuova religione di riferimento per lo Stato romano.

Naturalmente non è un caso che egli sia stato chiamato il Grande e non il Santo, giacché il misfatto della morte del figlio Crispo e della moglie Fausta, così come i cedimenti all’arianesimo degli ultimi anni sono a testimoniare la correttezza della tradizione storica. Tuttavia non è possibile neanche ricondurre tutto alla ragion di Stato. Si è affacciata l’ipotesi, infatti, che la conversione e l’Editto siano stati determinati dalla percezione che il cristianesimo fosse maggioritario; in realtà è storicamente accertato che esso era largamente minoritario in Occidente (in Oriente invece di influenza crescente) e per di più concentrato nelle città e pressoché assente nelle aree rurali (la cristianizzazione delle campagne fu processo lento lungo i secoli e contrassegnato da compromessi con la cultura pagana). Più sofisticatamente si è ritenuto sia stato espediente volto a mettere in difficoltà il potenziale rivale Licinio, ma il fatto che non vi siano discontinuità di atteggiamento dal 312 al 337 nella politica religiosa di Costantino lo fa escludere. La più volte rimarcata sottolineatura che egli si facesse battezzare solo in punto di morte è del pari storicamente mal posta, giacché allora era prassi molto diffusa e tesa a passare a miglior vita purificati dai peccati. Meno contestabile è che egli abbia intravisto nella struttura giuridico – amministrativa gerarchica di derivazione romana della Chiesa la sola organizzazione in grado di sopperire ai limiti crescenti di quella imperiale, nel campo dell’assistenza come dell’amministrazione.

L’eredità di Costantino fu in parte dilapidata nelle guerre civili tra i 3 figli Costantino II (morto nel 340), Costante (morto nel 350) e Costanzo II (morto nel 361 e come il padre protettore degli ariani); nel crescente pericolo delle invasioni, germaniche e persiane si manifestava l’insufficiente capacità dell’Impero di farvi fronte, segnando il destino della breve avventura di Giuliano l’Apostata (361-63) e dei travagliati imperi di Gioviano, Aventiniano, Valente, Graziano e Aventiniano II. La debolezza dello Stato romano aveva indotto Giuliano, che aveva studiato in Grecia prima di partecipare alle operazioni militari sul Reno-Danubio, a credere che essa fosse dovuta al cristianesimo e all’abbandono dell’antica religione pagana. Ma egli presumeva che il suo neoplatonismo intriso di sacrifici e pratiche magiche potesse essere l’alternativa da imporre con la forza e tornò a perseguitare i cristiani. Figura affascinante di studioso ma mediocrissimo statista, non capì che il suo disegno era troppo sofisticato e intellettualistico per essere capito dagli stessi pagani (Ammiano Marcellino, pur anticristiano, lo criticò) e soprattutto era fuori della realtà istituzionale, culturale e morale affermatasi con i Costantinidi.

Da Milano in poi si era affermato politicamente il nuovo modello assolutista del “dominato” contro il vecchio “principato” di origine augustea e il cristianesimo si era inserito progressivamente e potentemente nella società fino a permearla sul piano etico e culturale. Anche la Chiesa dopo Costantino non era più quella del III secolo, pur conservandone la struttura organizzativa e l’impianto giuridico di derivazione romana; era una Chiesa che, sollecitata dalle diatribe teologiche e dovendo competere con la raffinata cultura neoplatonica cui era giunta la riflessione più alta dei pagani, aveva incontrato il pensiero greco sul piano filosofico e culturale, ponendo le basi di quella feconda unione tra eredità classica e cristianità che ha costituito le radici più profonde dell’Europa. Era una Chiesa che collaborava con l’autorità civile, ne era protetta e anche ne indirizzava l’operato con l’influente autorità morale; né distaccata dal mondo secolare e dalla sua vita pubblica, né completamente identificantesi con esso.

Nella grave crisi dello stato romano della fine del IV secolo, l’autoritario Teodosio (379-95) prese atto che la Chiesa cattolica era l’unica istituzione a resistere e a conservare parte dell’eredità romana; costretto a compromessi con i barbari germanici, che fece suoi leader militari incorrendo nelle critiche dei pagani nostalgici, pensò che l’omogeneità assoluta in materia di religione fosse il solo puntello rimasto al potere imperiale. Nel 391 emise un altrettanto celebre Editto, con il quale si faceva del cattolicesimo la sola religione ammessa dallo Stato e si promettevano le più dure conseguenze agli eretici e ai pagani. In cambio si chiedeva alla Chiesa solidarietà all’Imperatore e già allora il colto pagano Simmaco elevò una nobile protesta per la tolleranza e contro la volontà di forzare le coscienze.

Si potrebbe dire che Teodosio inauguri il modello dello Stato confessionale, largamente prevalente in Europa fino a 3 secoli fa, tanto in campo cattolico quanto in campo ortodosso e in quella parte dell’area protestante dove prevalse il principio “cuius regio, eius religio”. Si tratta di un modello che ebbe giustificazioni storiche oggettive se pensiamo che si ritenesse così di perseguire il bene comune (morale, tutti aderendo alla vera fede, e politico, non essendovi minoranze potenzialmente sovversive o strumentalizzabili dal nemico esterno), ma la sensibilità moderna non l’ha accettato più poi. Perciò il problema dei rapporti politici tra Stato e Chiesa si è declinato in soluzioni diverse: 1)“religione di Stato, gli altri culti tollerati secondo le leggi” (citazione dell’art.1 dello Statuto Albertino e simile al concetto che avevano i romani); 2) regime concordatario; 3)“libera Chiesa in libero Stato”(concetto cavouriano e cattolico-liberale ottocenteschi); 4) separazione di netto carattere anticlericale sul modello francese. Ma la Chiesa e i cattolici fino a pochi decenni fa non vedevano cesure negative importanti nella storia cristiana dal punto di vista culturale, etico o sociale; anche i laici, del resto, non avevano ancora rimesso in discussione le radici cristiane e meno ancora le greco-romane dell’identità euroatlantica. Si pensi al noto “non possiamo non dirci cristiani” (in senso culturale e non religioso) di un Benedetto Croce. La rivoluzione o “svolta costantiniana” aveva sempre avuto accezione positiva.

Significato dispregiativo ha assunto il termine “svolta costantiniana” e uno di nuovo conio, “Chiesa costantiniana”, nel mondo protestante in età moderna per avere poi diffusione larga in campo laicista e in ambienti insospettati (giansenisti, modernisti, neomodernisti, ala marciante durante il Concilio e ambienti aderenti a quelle deviazioni ricondotte da Benedetto XVI al Postconcilio o ermeneutica della rottura; oggi trova larga diffusione perfino nei seminari e negli studi teologici). Essa segnerebbe la commistione negativa di religione e politica e la legittimazione di un’organizzazione autoritaria, gerarchica e contro la libertà, in opposizione a un originario popolo di Dio in cammino e la cui vita comunitaria sarebbe stata democratica. Perciò si dovrebbe tornare alla purezza della Chiesa primitiva, apostolica e dei primi secoli, rimproverando al cattolicesimo di avere strumentalizzato e distorto ai suoi fini la vera tradizione classica. La cristianizzazione dell’Impero sarebbe stata, lungi dal prolungarne l’esistenza in forme più adeguate ai tempi, la causa della sua fine, secondo una tesi inaugurata dall’illuminista inglese Gibbon nel Settecento e giunta in varie forme fino a noi. Il cattolicesimo democratico e progressista del Novecento accettava tale critica storica e politica, ma peraltro rimaneva fermo nella difesa delle radici culturali ed etiche impostesi dopo Costantino.

In realtà storicamente l’Impero era già in crisi dal III secolo e l’affermarsi del cristianesimo si ebbe anche perché il paganesimo tradizionale non soddisfaceva più; l’elaborata e affascinante filosofia neoplatonica poteva coinvolgere l’elite colta ma per la gente comune era troppo impegnativa. La storiografia più aggiornata non situa più da tempo la fine della romanità nelle invasioni del V secolo (il cui trionfo sarebbe piuttosto l’effetto) o nel cristianesimo, ma parla di un lento “scivolamento” del mondo antico in quello medievale attraverso il progressivo passaggio a un’economia curtense e a una società rurale; ciò avvenne perché i liberi si posero sempre più alle dipendenze di un patrono latifondista, così sfuggendo alla pesantissima tassazione richiesta da un esercito sempre più incapace di respingere le intrusioni avversarie. Il collasso delle istituzioni romane fu esso pure progressivo e non causato dal cristianesimo, la Chiesa semmai dovendo e potendo sopperire con la sua struttura a quella statale. Non è un caso che sarà solo quest’ultima a sopravvivere e a conservare quella parte di patrimonio culturale romano-ellenico che le sarà confacente.

Anche la rappresentazione di una Chiesa del II e III secolo lontana dalla politica ma inserita nel mondo secolare è di comodo; quel cristianesimo era una fede disposta al martirio rispetto al mondo pagano e la prima patristica è tutta un’apologetica contro i pagani e la loro cultura (non si doveva militare nell’esercito imperiale, né accettare il culto imperiale). Di origine orientale, il cristianesimo cominciava ad assorbire gli aspetti giuridici e organizzativi del mondo romano ma il rapporto era in prevalenza vicendevolmente conflittuale. La presunta democraticità della Chiesa primitiva è poi appunto presunta perché il concetto era allora del tutto incomprensibile. Che questa tesi sia poi avanzata da chi ritiene che il cristianesimo debba sintonizzarsi sulle esigenze di un mondo secolarizzato è ancor di più contradditorio e storicamente infondato nei suoi riferimenti alla Chiesa prima di Costantino.

Una tesi “liberale” o di compromesso è stata poi avanzata a seguito del Concilio Vaticano II e in stretta relazione con l’Enciclica “Dignitatis Humanae”, che pone la libertà religiosa a fondamento dei diritti umani fondamentali e strumento del cammino ecumenico. Per essa il termine “svolta costantiniana” conserva carattere positivo ma in un senso e con un’interpretazione nuovi: l’Editto avrebbe, restituendo la libertà di culto ai cristiani perseguitati, affermato il principio della libertà religiosa e del pluralismo religioso. Vi resta pure positivo il valore etico-culturale e sociale dell’esperienza postcostantiniana come inizio delle radici cristiane dell’Europa, spostando la caratterizzazione negativa della tesi precedente con il concetto di “svolta teodosiana”. In realtà la mentalità romana non avrebbe capito il concetto di libertà religiosa e di pluralismo religioso nel senso contemporaneo dei termini: c’era una religione maggioritaria e del tutto ufficiale (prima la pagana, con Costantino la cristiana) e le altre religioni erano ampiamente tollerate e godevano di libertà di culto, a patto che non si ponessero contro le istituzioni romane o non ne mettessero in discussione i fondamenti culturali e politici. Meno che mai avrebbero capito, i romani, i concetti di Stato neutrale in materia religiosa o, peggio, della libertà di coscienza, giacché per loro la religione non aveva una dimensione di interiorità e, salvo il culto privato dei Lari e dei Penati, era un fatto pubblico e comunitario. Perciò anche il passaggio da Costantino a Teodosio fu in realtà per i contemporanei meno netto o traumatico di quanto non appaia a chi parla di un cristianesimo perseguitato che diventa persecutore.

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2° Parte

 

L’anniversario dell’Editto cade però nel clima inaugurato dall’elezione di Papa Francesco; con quest’ultimo, piaccia o no ai “normalisti” e ai “continuisti” d’ogni tendenza, la percezione della Chiesa cattolica e della sua missione è rapidamente mutata. Il Pontefice ha cessato esplicitamente di porre i “principi non negoziabili” come cartina di tornasole dei rapporti Stato-Chiesa e della stessa identità cattolica; parimenti pare tramontata la difesa delle radici cristiane dell’Europa, che tanto aveva coinvolto i due immediati predecessori, come dato culturale e sociale oggettivo. Quella manifestatasi è una Chiesa “liquida”, come autorevolmente individuato dal professor De Mattei, anzi quasi proteiforme, dato che le diverse esperienze religiose di individui, comunità e movimenti non sembrano trovare un comune denominatore per l’unità che non sia il riferimento alla persona e al carisma del vescovo di Roma. La fede è vista come “esperienza personale”, sentimento, perfino “ricerca” o “cammino” (di cui la fede è semmai l’esito); perciò in ultima analisi diviene dato irrazionale e relativo, il che fa il gioco di laici e non credenti, che se ne appropriano con soddisfazione nelle loro argomentazioni. Il contenuto della fede sembra limitarsi all’amore del prossimo e a una misericordia accordata senza pentimento, mentre i valori non negoziabili sembrano essere una pace a tutti i costi cui tutto viene subordinato e una libertà individuale senza limitazioni e senza responsabilità. In questo quadro non stupisce che l’anniversario sia di imbarazzo, motivando reinterpretazioni dei fatti tra i moderati e il rinnovarsi dei mea culpa negli ambienti progressisti. Significativi sono infatti stati gli interventi del Cardinale Scola per un verso e una recensione apparsa il 26 settembre scorso sul quotidiano di ispirazione cattolico-democratica Europa.

Il discorso del Cardinale Scola ha trovato occasione nella visita del Patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo a Milano per l’anniversario; l’impianto generale della prolusione è coerente con la tesi “centrista” e si riconoscono subito i passaggi in cui ripropone concetti di Benedetto XVI. All’Editto “non è possibile negare un qualche significato epocale” perché vi si afferma la “libertà religiosa”. Evidente è la doppia preoccupazione perché essa si affermi nei paesi in cui i cristiani sono perseguitati (peraltro in maniera reticente non indicati, così come il termine persecuzione o intolleranza non vi compare esplicitamente) e perché la libertà religiosa superi la diffidenza verso lo stesso fenomeno religioso in Occidente. La citazione “alcune concezioni della laicità che generano un clima non certo favorevole a un’autentica libertà religiosa” fa chiaro riferimento al discusso concetto di “laicità positiva” di Benedetto XVI: un pluralismo religioso in uno Stato neutrale, dove Chiese e credenti possano e debbano impegnarsi con la propria identità nella vita pubblica. Egli vi indicò un modello negli USA, in opposizione alla “laicité” anticlericale alla francese, che persegue l’obiettivo di confinare la religione a dato strettamente privato. E molti tradizionalisti e conservatori storsero peraltro la bocca.

Leggendo il discorso si devono fare però alcune doverose sottolineature. “Pur tenendo in debita considerazione le diverse riletture storiche che hanno sopravvalutato, di volta in volta, o sottovalutato, il peso dell’Editto”e “ovviamente nel quadro della specifica e limitata teologia politica di quel momento storico”[…..] “emergono per la prima volta le due dimensioni che oggi chiamiamo libertà religiosa e in maniera indiretta quella che secoli dopo verrà chiamata laicità dello Stato. Sono due aspetti decisivi per la buona organizzazione politica”. Ancora “Tuttavia (l’Editto)[…] fu una sorta di “inizio mancato””. “Tale travaglio (quello verso la laicità dello Stato)[…]è lungi dall’essere concluso”. Si fa presente in sede storica, pur considerando il quadro e le diverse riletture storiche, in maniera semplice e piana, che questo riferimento alla laicità dello Stato è assurdo sotto tutti i profili: incomprensibile per i romani il concetto di laicità dello Stato, diverso concetto di Stato rispetto al nostro, che è nato in età moderna sotto tutt’altra temperie culturale. Già l’attribuzione all’Editto di un significato di libertà religiosa e pluralismo nel senso moderno è un po’ una forzatura della realtà di allora, ma attribuirgli la laicità è una manipolazione storica, tesa a rendere le cose comprensibili a un pubblico che troppo spesso ignora la propria storia. L’accenno all’inizio mancato sembra sottintendere che la storia cristiana sia una deviazione dalla retta via e costituisce cedimento culturale evidente alla mentalità laicista, oltreché storicamente assurdo. Singolare è del resto l’assenza di riferimenti alle radici culturali ed etiche del mondo europeo come conseguenza della libertà per i cristiani, tanto più perché sarebbe stato utile terreno comune di dialogo ecumenico con gli ortodossi. Di difficile interpretazione è pure l’accenno a un percorso verso la laicità non concluso; parrebbe che si riferisca all’Islam o alla Cina o all’India, o non è per caso la teorizzazione della separazione, con la Chiesa che rinuncia ad affermare la verità di fede e si sintonizza sui bisogni e desideri umani come principale obiettivo dell’azione pubblica?

La domanda non è del tutto oziosa se si legge l’intervista del 20 settembre al periodico della diocesi di Belgrado Blagovest, avvenuta dopo gli incontri e interviste del Papa con Scalfari e in piena querelle sul senso della libertà di coscienza. Se qualcuno pensasse ancora che la libertà trovi il suo limite logicamente e anche laicamente in un criterio di verità oggettiva e religiosamente nella Rivelazione di cui è custode la Chiesa, sappia che ciò forse è superato. Il potere e le istituzioni sembra non esistano per il bene comune, come si pensava fino a poco tempo fa, ma il loro “compito è il massimo rispetto della libertà religiosa, emblema della libertà di coscienza e fondamento di tutte le altre libertà e diritti”. Non è spiegato che intenda per libertà di coscienza (non è detto il suo rapporto con la Rivelazione o la morale naturale o se essa sia illimitata) e si subordinano i diritti e le altre libertà a essa (il diritto alla vita pure? Ciò porrebbe problemi morali molto delicati e bisognosi di approfondimento). Pare veramente eccessivo, ma in linea con la mentalità egemone. Ancora, con l’Editto il potere politico si riconobbe non competente a decidere al posto della coscienza dell’uomo e “secondario” rispetto a essa. Questa forzatura del testo è fuori luogo, Costantino era lungi dall’immaginare simili conclusioni; per lui allora si trattava di libertà di culto e l’obbedienza all’Imperatore doverosa, anche prescindendo dall’ideologia che lo voleva interprete e inviato di Dio a governare i popoli.

A questo punto l’intervistatore ortodosso, ed è da sottolineare ortodosso, offre al Cardinale Scola un assist dialettico  imperdibile per chiarire il rapporto tra verità e libertà, denunciando la libertà senza limiti del mondo contemporaneo; in passato l’arcivescovo di Milano aveva del resto affermato che la libertà religiosa ha senso solo se rappresenta l’occasione di “orientarsi in direzione della verità ultima”, coerentemente col Magistero di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II e destando ironie e reazioni stizzite negli ambienti neomodernisti. Ma stavolta la risposta è meno logicamente conseguente; egli distingue 3 dimensioni della libertà, le inclinazioni naturali, il libero arbitrio e l’adesione alla verità e afferma che, forse giustamente, il problema contemporaneo è l’eccesso del secondo. Ora, sembra a logica che le inclinazioni naturali, non essendo riconducibili né a un atto di volontà, né di fede, né di intelletto, abbiano piuttosto a che fare con gli istinti o con l’eredità genetica e non possano essere considerati libertà. Che l’adesione alla verità possa costituire una forma perfezionata di libertà è possibile, ma ciò non toglie che i termini verità e libertà siano logicamente distinti. Invece la curiosa costruzione dialettica serve ad affermare, come sottolinea il titolo dell’intervista, che la verità non limita per niente la libertà; non è nemmeno esplicitamente affermato che ne sia l’espressione ultima, sebbene il tortuoso argomentare sembra a questa conclusione voglia condurre. Soggettivismo?

Nel affrontare il tema della collaborazione tra le religioni non poteva mancare la stigmatizzazione della “deriva ideologica dell’esperienza religiosa stessa”, richiamo ormai d’obbligo in cui non è chiaro se si riferisca al fondamentalismo islamico o indù o non piuttosto ai tradizionalisti cattolici (del resto tuttora i ciellini cui è vicino vengono tacciati di integralismo in tutte le università, nonostante i tentativi di adeguamento ai tempi). Ma il meglio dell’intervista è nella sua parte conclusiva. Intanto l’esperienza religiosa deve “sottomettersi al criterio del bene dell’uomo, cioè di rendere più umana la vita di tutti”. Qui ritorna l’eterno refrain della fede come esperienza caro ai carismatici, ma con la sottolineatura che anch’essa non ha valore di per sé, ma solo se subordinata a una concezione antropocentrica. Leggendo rapidamente il testo, suona bene all’orecchio, ma non è spiegato cosa significhi. Forse ciò è voluto.

Ma si chiude poi con un’altra chicca imperdibile sull’Editto di Milano; esso avrebbe insegnato che si deve insistere sul carattere di servizio al popolo e alla società da parte della politica e, perfino, “diede priorità alla vita reale del popolo”. Anche qui suona bene ai superficiali, non si capisce cosa significhi quest’ultima espressione ed è del tutto storicamente assurdo. Ritorna nell’intervista la significativa assenza della dimensione culturale ed etica del cristianesimo, sia in riferimento all’Impero sia ai fini del dialogo con gli ortodossi.

E la cosa non è affatto casuale, come spiega Lorenzo Biondi recensendo il libro “Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica” di Urbinati e Marzano (ed. Il Mulino). L’autore lodevolmente critica diversi punti qualificanti delle tesi laiciste del libro: il modello francese, tanto più dopo che ha proibito i simboli religiosi in pubblico; la pretese di ricondurre a sette tutte le espressioni nuove del cattolicesimo (qualcuna forse lo è); l’assurdo porre sullo stesso piano il recupero delle forme di devozione tradizionali ai rituali di fantasia o ai veri e propri abusi liturgici; la concezione della religione come “non dannosa solo se assorbita dal sistema democratico”. Tuttavia si prende atto con gli autori del libro della “deculturalizzazione” del cattolicesimo e anzi ci si compiace con leggerezza del fatto. Anzi il cristianesimo e il cattolicesimo come cultura non è più un dato storico plurisecolare ma un “progetto” degli anni ’90 del Cardinale Ruini e del Cardinale Scola, coinvolgente naturalmente CL e i famigerati Teocon. Esso è irreversibilmente fallito e se si volesse farlo tornare in auge, il libro e il recensore affermano con soddisfazione “i cattolici non lo seguirebbero”.

In realtà ciò cui assistiamo è più in generale ad una de-ellenizzazione della civiltà occidentale e ancora più del cristianesimo, sulla spinta di un’accelerata e non ancora digerita corsa tecnologica, che tende a mettere da parte la riflessione razionale e cancellare finanche la memoria di ciò che è visto incompatibile con la realtà propalata dai media. La scissione tra fede e ragione, contro la quale Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno per anni ammonito, sembra affacciarsi come realtà di fatto, in nome dell’eterno ritorno ai tempi apostolici. Nelle parole dell’autore si tratta di una fede depurata non solo dagli elementi politici ma anche esplicitamente da quelli culturali, concepiti come ad essa “estranei”. Il libro correttamente vede in ciò una manifestazione della secolarizzazione, che conduce alla personalizzazione della religione e, si potrebbe aggiungere, alla protestantizzazione del cattolicesimo.

Secondo Biondi Francesco indica invece una via alternativa, quella di una Chiesa “spirituale” che ritorna all’essenziale, opera attraverso la preghiera e nell’attività sociale impedisce la “privatizzazione” dell’esperienza religiosa. Così pare di capire e sarà il tempo a dirlo. Resta sintomatico che la sinistra cattolica, che della sua specificità etico-culturale aveva fatto motivo di distinzione e competizione con quella laicista, pur convergendo in molti campi con essa, ora vi rinunci apertamente e confluisca con essa in un fronte unificato.

2 commenti su “L’Editto di Costantino nella storia e oggi: a margine di nuove concezioni – di Jean-Michel-Emeric de Batz”

  1. Commento molto dettagliato ed esauriente sugli editti di Costantino, sono stati pure effettuati da don F.Ricossa in occasione di convegno svolto a Modena prima ed a Milano poi, recentemente. Sono pubblicati su “Centro Studi D.Albertario”

    1. pubblichiamo questo commento trasmessoci dall’Autore, che ci ha pregato di provvedere alla pubblicazione, avendo problemi tecnici con il suo PC:

      Una necessaria precisione. Jean-Michel-Eymeric de Batz ha fondato la ricostruzione storica su libri aggiornati di storia romana tardo-imperiale di ogni tendenza e se essa trova punti di contatto con quella di don Ricossa è perché questo avrà fatto lo stesso. Chi scrive non ha pregiudiziali verso nessuno e neanche verso don Ricossa, le cui tesi ha avuto modo di conoscere e tuttavia si considera piuttosto un conservatore che un intransigente e in realtà non condivide affatto alcuni punti qualificanti dell’interpretazione del sacerdote piemontese. A parte l’eccessiva caratterizzazione della religione pagana come un insieme di pratiche idolatriche e magiche di bassa cultura popolare e il ritratto senza sfumature positive di Giuliano, non può accogliere la piena giustificazione delle scelte di Teodosio, seppure storicamente comprensibili, perché la persecuzione di ebrei e pagani è insostenibile; la caratterizzazione spregiativa di Simmaco, nobile figura di intellettuale, seppure purtroppo legato alla religione pagana, parimenti non è qui condivisa. Ma soprattutto, a chi legga con accuratezza l’articolo, non sarà sfuggito il punto centrale: con Costantino non solo si ha la cristianizzazione dell’Impero ma anche simmetricamente la romanizzazione ed ellenizzazione del cristianesimo. Invece don Ricossa si è espresso in termini quasi liquidatori sulla cultura pagana, vedendo così solo il primo dei due fenomeni.

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