L’eredità di Renzi e l’urgenza di rinunciarvi – di Patrizia Fermani

Gli eventi elettorali di primavera hanno indotto nella gran parte delle persone il senso della liberazione dall’incubo di un regime politico che sembrava avere avuto come unico obiettivo lo scardinamento economico, etico e culturale della intera compagine nazionale.

Siamo oggi nella condizione di chi, dopo il bombardamento, cerca tra le macerie qualcosa da ricomporre, ma deve fare anche i conti non solo con la minaccia di nuove incursioni ma anche con le cariche esplosive lasciate sul terreno. Dobbiamo fare i conti, cioè, con la damnosa hereditas delle leggi che hanno avvelenato il pozzo dell’ordinamento giuridico e che, se non rimosse, continueranno a svolgere indisturbate il loro ruolo distruttivo.

Per fronteggiare le forze avverse che governano questi tempi infelici dobbiamo anzitutto liberarci delle leggi che hanno legittimato lo stravolgimento di ogni aspetto della vita individuale e collettiva attraverso uno strumento che dovrebbe essere la espressione migliore di un qualunque assetto democratico.

Se una legge ingiusta viene imposta da un tiranno, tutti se ne dolgono ma nessuno se ne stupisce, e anzi essa offre agli oppositori la conferma di una sudditanza infelice. Dovrebbe invece stupire il fatto che certe leggi immorali, nocive e insidiose per l’intera collettività siano state approvate a maggioranza parlamentare nei paradisi democratici. Ci si dovrebbe chiedere perché solo esigue minoranze si siano opposte ai deliri legislativi di una stagione politica dominata, dopo la sciagura bocconiana, dai Renzi, dalle Cirinnà, dalle Fedeli, dalle Lorenzin, nonché dalle lobby eutanasiche catto-radicali care anche queste al Vaticano. Deliri vantati ancora di recente, con commossa soddisfazione, da una protagonista di quella stagione alla quale era stata riconosciuta a suo tempo persino la statura politica e culturale per mettere mano nientemeno che alla riforma costituzionale. E questo la diceva lunga sulla qualità di tutte le parti in causa.

Ma è innegabile che, accanto al consenso parlamentare offerto a pseudoleggi in contrasto con il diritto stesso, con la ragione e col buon senso, sta la sorprendente capacità del suddito di adattarvisi forse senza neppure una adeguata percezione della gravità dell’attacco portato a colpi di leggi aberranti all’equilibrio stesso della vita collettiva. E qui occorre entrare nel cuore di un problema antico.

Di recente abbiamo sentito Paolo Savona parlare con l’eleganza e la chiarezza incomparabili che lo distinguono, dell’appannarsi, nella attuale coscienza comune, del dovere di obbedire le leggi, dovere che è presupposto irrinunciabile di ogni civile convivenza, e dunque conditio sine qua non per una generale rinascita morale e civile. Osservazione ineccepibile in via di principio, e giustificata dal fatto, altrettanto ineccepibile, che, se le leggi erano già per Omero segno distintivo di civilizzazione e la mancanza di esse misurava la bestialità dei Ciclopi, la loro inosservanza produce l’anarchia, e l’anarchia apre le porte ad ogni arbitrio.

Tuttavia quella affermazione di principio, in sé evidente, acquista vero significato soltanto se si precisano i limiti ineludibili in cui va contenuta e anche contraddetta.

Infatti, il dogma della obbedienza alla legge è anche messo fatalmente in discussione dal problema della sua giustizia. In altre parole, il dovere sacrosanto di osservare le leggi non cancella il fatto che le leggi possono essere ingiuste, cervellotiche e persino scellerate e che in questi casi prestare loro ossequio indiscriminato diventa esso stesso iniquo, cervellotico e scellerato.

Non per nulla, soltanto su questo presupposto la politica ha potuto giustificare anche l’anomalia giuridica di Norimberga, e non per nulla quella vicenda storicamente inedita ha rimesso in primo piano l’eterno problema della eticità della legge e della necessità che essa sia ancorata a principi superiori che la guidino e da cui essa deve trarre quella vera autorevolezza che giustifichi il dovere di obbedienza.

Così, alla fine di ogni discorso intorno alla legge si finisce sempre per dovere ammettere che essa non può non appoggiarsi su principi che la sovrastano e la precedono.

Quei principi sono come le bricole, i robusti pali di legno che in laguna indicano le vie d’acqua e negli approdi servono ad ancorare le imbarcazioni. Riferimenti solidi contro i fondali insidiosi e il capriccio delle onde.

Se si oscurano i principi può prendere il sopravvento anche ogni sorta di idee fasulle senza copertura di pensiero, magari accompagnate da buoni sentimenti a basso costo in groppa ai quali cavalca senza troppi impacci l’arbitrio. È quel naufragio del buon senso e della ragione che si è tradotto appunto in questi ultimi anni in follia legislativa. E di fronte a questa non resta che la disobbedienza.

Né vale, in senso contrario, l’esempio di Socrate che rinuncia a fuggire e beve la cicuta, Egli non aveva a che fare con la ingiustizia della legge bensì con la ingiustizia della accusa di avere corrotto i giovani. Da questa si difese senza successo e si adeguò poi alla sentenza ingiusta rispondendo a una esigenza personale di coerenza pedagogica, ma senza mettere in discussione la norma che puniva la corruzione dei giovani. E a questo proposito occorre ricordare come vada tenuto distinto il problema della giustizia della legge da quello della sua applicazione da parte del giudice, perché anche la legge giusta può risultare ingiusta in concreto se applicata arbitrariamente.

Insomma, come la bontà del vino non dipende dalla bottiglia, anche il vino buono all’origine può diventare pessimo a causa delle manipolazioni successive.

Ma tornando al tema della obbedienza, occorre osservare come vi siano leggi, e sono la maggior parte, che lo stesso cittadino non è nella condizione di trasgredire, perché non ne è il destinatario immediato, ma che sono insidiose anche per lui in quanto minano la vita stessa della intera comunità nei suoi fondamenti etici, o stravolgono arbitrariamente i capisaldi dello stesso sistema giuridico.

Allora non si tratta più tanto neppure di esercitare il sacrosanto dovere di disobbedienza, ma di smascherare e denunciare la profonda iniquità della legge e il nocumento che essa porta alla società tutta. Non bisogna dimenticare infatti che la legge, una volta entrata in vigore, al di là del proprio contenuto, recupera nel comune sentire la suggestione della propria antica origine sacrale, e diventa nell’inconscio collettivo una realtà irreversibile. É più facile disobbedire alla legge che ci impone direttamente un sacrificio ingiusto che combattere per l’abrogazione della legge oggettivamente ingiusta.

Non vale la pena di tornare a questo proposito sulla Cirinnà, cioè sulla legge che continuiamo a chiamare così in omaggio alla sua indimenticabile promotrice avvezza a giurare sui propri cani. Né sulla edificante versione della scuola renziana che ha inteso dare un nuovo definitivo contributo alla globalizzazione egualitaria della ignoranza e del pervertimento sessuale precoce, per non perdere il confronto con le avanguardie euroamericane. A lungo si è poi parlato, anche su queste pagine, di quell’ultimo lascito delle dat, sulle cui aberranti ricadute ci proponiamo di tornare presto.

Ma il fortunato popolo italico, non si è avvalso gratuitamente, forse senza neppure rendersene conto del tutto, soltanto di tutta questa ricchezza. Infatti è stato beneficato anche delle altrettanto dissennate leggi di depenalizzazione di cui finora si è parlato troppo poco, e sulle quali è necessario richiamare tutta l’attenzione che meritano.

Le norme penali mirano a prevenire e reprimere, attraverso la pena, i comportamenti che ledono interessi di rilievo collettivo, come la vita, l’onore, la proprietà, la incolumità personale, la pubblica decenza, la fede pubblica ecc. mettendo in pericolo la convivenza comune, anche quando colpiscono direttamente l’interesse individuale.

Gli interessi che la legge intende proteggere attraverso la minaccia della pena sono detti, in senso tecnico, beni giuridici.

Il concetto di bene giuridico, ovvero di interesse penalmente tutelato, ha una importanza fondamentale perché ci aiuta a comprendere non solo il senso della legge penale in generale, ma anche il modo in cui essa rispecchia, in un determinato momento storico, la struttura stessa di una certa società politicamente ordinata. Così il sistema penale, in cui vengono configurati i reati e previste le pene relative, riflette non solo una certa cultura giuridica ma anche il pensiero filosofico, politico e religioso che la domina. E appare chiaro che, se la legge penale non può essere confusa né con l’etica né con la morale, è tuttavia un fattore che incide potentemente su entrambe. Così, in una concezione creaturale dell’uomo, la vita sarà difesa dalla legge in ogni stadio della sua evoluzione, dal concepimento fino alla morte naturale, mentre sullo sfondo di un ottuso materialismo saranno l’aborto e l’eutanasia a trovare adeguata tutela.

Infine va osservato che proprio in virtù della afflittività della sanzione penale, quello dei reati e delle pene è un sistema inderogabile apprestato direttamente dallo Stato, che se ne fa amministratore unico. In questo senso il diritto penale è essenzialmente Diritto Pubblico. Ma questa posizione monopolistica dello Stato pone anche l’esigenza che esso non abusi della propria forza utilizzando la sanzione come un’arma di oppressione politica.

Per questo la civiltà giuridica è approdata alla elaborazione del principio di legalità del reato e della pena consacrato anche dall’articolo 25 della Costituzione, per il quale nessuno può essere punito per un fatto che non sia stato previsto dalla legge come reato e nessuno può essere punito con una pena non prevista per quel reato.

E si tratta di un principio antico che mette al riparo anche dall’arbitrio del giudice, il quale è tenuto ad applicare la legge e non a crearla e che può giudicare soltanto entro i binari tracciatigli dalla legge.

Dunque, il principio di legalità da un lato è una garanzia per il soggetto che viene messo al riparo dal rischio di essere giudicato per un fatto non previsto come reato, e dall’altro segna il limite dei poteri del giudice.

Questi principi sono stati una conquista fondamentale di civiltà e il punto di arrivo di una evoluzione politica e sociale. Eppure anche un tale patrimonio sembra essere messo in pericolo da un forte processo dissolutorio.

Nell’epoca di tutti gli evoluzionismi, infatti, ci troviamo davanti ad una involuzione inquietante del diritto, che tocca i contenuti normativi come la tecnica giuridica, la coerenza del sistema come i suoi principi portanti, e ha cominciato a manifestarsi da tempo in una serie di interventi legislativi isolati o di riforme del sistema tutte molto discutibili, ma che impallidiscono di fronte al piano di depenalizzazione della relativa legge delega del 2014, affidato a magnanimi lombi accademici e approdato nei decreti legislativi del 2015 e 2016.

Questo pacchetto rappresenta, come dicevamo, uno dei lasciti peggiori di una devastante stagione politica.

L’acume giornalistico si è spinto ad attribuire a questi interventi legislativi lo scopo di favorire lo svuotamento degli istituti carcerari per risolvere il problema del loro sovraffollamento. Cosa che, se fosse vera, dovrebbe venire ascritta ad una forma pericolosa di demenza politica, dal momento che il sovraffollamento è evidentemente un problema edilizio risolvibile a colpi di cazzuola senza scomodare il sistema “dei delitti e delle pene”.

Ma c’è anche da dire come la non logica che ha sorretto questa riforma, capace di scardinare i principi essenziali del sistema e di intaccare così, come vedremo, la sua stessa struttura, potrebbe risultare in ultima analisi ancora più preoccupante.

Conviene considerare anzitutto i due decreti del 2016 e andare poi a ritroso per un motivo che apparirà chiaro in seguito.

Con il decreto n. 8 del 2016 si stabilisce la trasformazione di tutti i reati previsti da leggi speciali e puniti con la sola pena pecuniaria, ovvero con la multa o l’ammenda, in illeciti amministrativi, per i quali è prevista una sanzione pecuniaria amministrativa che va da un minimo di 5000 ad un massimo di 50000 euro. Misura che può risultare di fatto insostenibile per chi ha poco e diventa del tutto inutile per chi, non avendo nulla, non avrà di che pagare e non pagherà. D’altra parte va anche ricordato che, con la conversione del reato in illecito amministraivo, si perdono in ogni caso le garanzie di difesa offerte dal processo penale.

Fra questi nuovi illeciti finisce ad esempio quello di aborto “clandestino” perché compiuto dalla donna al di fuori delle formalità previste dalla legge 194. le cose non cambiano di molto in concreto, dato quello che era già il valore marginale della norma penale, ma resta l’indubbio significato simbolico di questa depenalizzazione.

Qualche robusta perplessità nasce dal vedere, fra i reati depenalizzati, anche la guida senza patente e il mancato versamento di contributi previdenziali.

Ma ancora più allarmante è la trasformazione in illeciti amministrativi di alcuni reati previsti dal codice penale, quali i quali spiccano gli atti osceni previsti dall’articolo 527, e già puniti con la pena detentiva, e gli atti contrari alla pubblica decenza. Scompare evidentemente dalla rosa dei beni giuridici tutelati il normale senso del pudore che ha sempre comunemente protetto la sfera sessuale e appare in modo eloquente quale sia la prospettiva etica e culturale di questo legislatore disinvolto e aggiornato. E come la vera grande conquista delle masse sia stata davvero quella del diritto alla volgarità.

È vero che viene ostentata forte attenzione verso la sensibilità dei fanciulli e punito ancora con una notevole pena detentiva l’osceno che si consumi nei pressi di una scuola, ma è anche vero che, come vedremo presto, la minaccia di quella pena potrà dissolversi nel nulla ad opera del giudice.

Tuttavia, ancora più significativa appare la abrogazione di singoli reati previsti dal codice penale, declassati ad illeciti civili ai quali verrà applicata dal giudice civile una sanzione pecuniaria in aggiunta all’eventuale risarcimento del danno, ma destinata alla cassa delle ammende. Dunque, lo Stato democratico e progressista ha vestito i panni di chi tiene il banco al tavolo da gioco e, come si sa, il banco vince sempre lucrando sui vizi altrui.

Fra questi reati abrogati spicca in primo luogo l’ingiuria, cioè quello che è per eccellenza il reato contro l’onore.

Che l’onore non goda oggi buona letteratura è cosa risaputa, anche perché forse se ne è persa la nozione originaria a vantaggio di una nota personificazione antropologica. Ma rimane qualche dubbio sulla portata educativa di questa scelta e sulla sua necessità filosofica.

A meno che il governo, assillato dai limiti di bilancio, non abbia ritenuto, per il bene comune, di trasformare la crescente attitudine del popolo all’insulto libero in una fonte nuova di guadagno, al motto di “tutto è perduto fuorché la cassa”.

Del resto anche l’abrogazione del danneggiamento doloso, della appropriazione di cose smarrite o avute per errore, del falso in scrittura privata, dimostrano il superamento di ogni ingombrante scrupolo educativo da parte di un evoluto legislatore.

A questo proposito varrebbe la pena di ricordare come da tempo si sia perseguito lo svilimento di certi valori attraverso lo svilimento delle sanzioni. Basti pensare a quei reati di vilipendio (alla nazione, alla bandiera, ecc.) che hanno visto passare alla valutazione in denari del bene che avevano inteso tutelare. Ma qui dovremmo aprire un discorso che andrebbe troppo oltre i limiti della pazienza chiesta al lettore.

In ogni caso resta fermo che, con la depenalizzazione, lo Stato abdica alla tutela dell’interesse fino ad allora protetto e che esso non viene più considerato un interesse pubblico di rilievo. Si dimentica che gli interessi pubblici tutelati dalla norma penale, o anche quelli privati che però vengono assunti quali interessi dello Stato, interessano tutta la collettività. Si offusca l’idea che il diritto tuteli le condizioni indispensabili ad una ordinata e pacifica convivenza sociale, e garantisca una reazione certa verso chi mette in pericolo quelle condizioni.

Insomma, con queste depenalizzazioni a casaccio, sembra proprio che il legislatore si sia messo in piena sintonia con il depauperamento etico e culturale della società e con il suo progressivo imbarbarimento, ma anche abbia fiutato l’opportunità di ottenere, insieme all’auspicato alleggerimento degli uffici giudiziari, anche il vantaggio economico derivante dagli introiti delle sanzioni pecuniarie, versate tutte alla cassa delle ammende. Dobbiamo riconoscere di essere forse di fronte ad una espressione del più avanzato spirito capitalistico.

Ma l’innovazione se possibile ancora più preoccupante, che potremmo definire rivoluzionaria, anche se non sembra essere stata avvertita come tale, è quella che ha preceduto di un anno i due decreti del 2016 ed è consistita nella introduzione, col d. lgs n. 28 del 2015, dell’articolo 131 bis del codice penale.

Con esso viene stravolto il principio basilare della separazione tra attività legislativa e attività giurisdizionale, quello per cui il giudice accerta i reati previsti dalla legge e applica le pene relative pur potendole graduare secondo i criteri dell’articolo 133 del codice penale. La novità è invece che ora il giudice può dichiarare non punibili i reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore a cinque anni se “l’offesa è di particolare tenuità”.

Si staglia così la figura del giudice legislatore, di cui peraltro la immaginifica giurisprudenza della Corte di Cassazione ha fornito da tempo preoccupanti anteprima.

Ed è significativo ricordare ora come anche l’eccezione prevista ad esempio dall’articolo 527 sopra citato, in difesa dei fanciulli, possa essere neutralizzata dal giudice che dichiari il fatto non punibile per la particolare tenuità dell’offesa.

Per tornare ora da dove eravamo partiti, e cioè alla damnosa hereditas di una infausta stagione politica, occorre riprendere piena coscienza dei danni che essa ha prodotto e tentare di intraprendere il cammino inverso, prima che l’abitudine e la rassegnazione ce la faccia vedere con contorni sempre più sfumati.

Tornare indietro per superare il presente vuol dire certo disfarci di un ciarpame legislativo senza precedenti, ma prima di tutto ritrovare il senso, la memoria e l’orgoglio di un patrimonio di principi irrinunciabili che dobbiamo considerare come la sola eredità inalienabile, e trasmissibile alle altre generazioni.

 

 

8 commenti su “L’eredità di Renzi e l’urgenza di rinunciarvi – di Patrizia Fermani”

  1. Eravamo arrivati al delirio totale.
    Le rampantissime signorine con un bel faccino e tanta parentela (babbi, mariti e conviventi per lo più) assurte ai più alti scranni per dare a capire al popolino bue l’inutilità ormai della funzione ministeriale nazionale (oltre alla permissione di maneggi legislativi a favor di parentela, come si è visto).

    E l’incubo degli annunci del piazzista di aspirapolvere A RETI RAI UNIFICATE, come nelle migliori dittature…
    Da non credere ai propri occhi e alle proprie orecchie…
    Il popolo italiano, arrivato alla misura colma, si è ribellato nelle urne di fronte a tanta impudenza.
    Oltre a nyove leggi inique e contro l’uomo, rimane l’eterna mina vagante di una frangia politicizzata della magistratura a fare da catenaccio contro il ristabilirsi di un vivere sano e finalmente normale

  2. Personalmente sono piu’ preoccupato dell’operato dei giudici che dalle depenalizzazioni fatte dal precedente governo. Bisogna anche dire che sono vent’anni ormai che le leggi sono scritte piu’ con i piedi che con la testa rendendo difficile il compito stesso dei giudici. Forse e’ pretestuoso cercare sempre di regolamentare ogni aspetto della convivenza civile. Ai tempi del fascismo venivano esposti cartelli del tipo “la persona per bene non bestemmia e non sputa in terra” , e bastava.

  3. Il decadimento è dovuto, in modo particolare, alla chiesa che è venuta meno al suo compito ed è in perenni effusioni con il mondo. Se la chiesa avesse tenuto, non avremmo giammai raggiunto questi livelli. Sono state tutte le aperture insipienti che hanno corrotto la chiesa e a seguire il mondo. Come dice Radaelli la chiesa insegna anche quando sbaglia.

    1. jb Mirabile-caruso

      Irina: “Il decadimento è dovuto, in modo particolare, alla chiesa che è
      ……….venuta meno al suo compito ed è in perenni effusioni con il mondo”.

      Se mi permette, signora Irina, vorrei chiamare la Sua attenzione al fatto – purtroppo comunemente mancato – che NON è stata la Chiesa cattolica ad essere venuta meno al Suo compito, bensì la falsa neo-chiesa – nata da un falso conciliabolo e implementato, questo, da un falso papato – che la Regia satanica, occultamente da dietro le quinte, ha ingannevolmente spacciato per la Chiesa cattolica.

      Tutto ciò è stato possibile – al Conclave del 1958 – con la diabolica sostituzione del Vero Papa Cattolico con un falso papa fantoccio nella persona di Roncalli. Rimasta la Vera Chiesa priva di Papa, da quel momento fino ai nostri giorni Essa è nell’impossibilità per così dire fisiologica di parlare e di agire come avrebbe fatto con il Suo Vero Papa.

      Nulla – effusioni con il mondo incluse – è quindi assegnabile ad Essa, in parole ed azioni, di quanto hanno detto e fatto tutti i papi fantocci da Roncalli a Bergoglio!

  4. Non deve stupire il mutarsi della democrazia in oclocrazia: è l’evoluzione naturale di un sistema basato sulla concorrenza delle fazioni e sulla ricerca del voto tramite la corruzione dell’elettorato (libertà e diritti abusivi). Per una volta la democrazia è servita a qualcosa, perché il popolo ha avvertito d’essere ingannato dalla classe politica dominante. Ora è aperta una sorta di guerra civile.

  5. Cesaremaria Glori

    Cara Patrizia,
    hai tutte le ragioni dettate da una coscienza retta ed informata ai principi immutabili della Ragione Umana, ma il prevalere dispotico di élite che si estendono oltre i confini nazionali e dirigono più o meno manifestamente il mondo intero rendono la ribellione dei popoli sempre più difficile e inefficace. Il denaro domina il mondo e detta gli ordini. Quel che manca è la presenza di un potere sostenuto da una potenza militare in grado di competere coi centri di potere del nemico che ha negli USA il centro suo nevralgico, nonostante certe sue reazioni in apparente senso contrario. L’Imperialismo americano non rinuncerà mai al suo primato anche a costo di andare a picco col mondo intero. Forse il contropotere è in fieri ma ancora non è visibile, tuttavia non mollare è d’obbligo se non altro per rispetto a se stessi e a ciò in cui crediamo, che è più della nostra vita.

  6. “… il diritto penale è essenzialmente Diritto Pubblico”, come il Diritto Costituzionale che riconosce quali elementi costitutivi dello Stato rispettivamente il Popolo, il territorio e la sovranità, oggi misconosciuti e considerati alla stregua di offese (se non di delitti). Di pari passo anche il concetto di bene giuridico viene svilito, assoggettato a valutazioni politiche contingenti e di comodo. Come egregiamente illustrato dall’Autrice un intero sistema di valori è ridiscusso e quasi stravolto ; la tutela giuridica già riconosciuta dall’Ordinamento giuridico nei casi di accertata violazione dello stesso bene diventa dunque superflua e può essere abrogata. Molte delle fattispecie un tempo perseguite dalla legge penale sono divenute ex abrupto socialmente irrilevanti. Trattasi di reati bagatellari, evidentemente. Forse non per le Vittime. Per loro il principio del minimo etico assume un diversa valenza.

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