L’esempio cristiano del commissario Luigi Calabresi – di Marco Toti

In un periodo in cui pare che la santità, e persino il desiderio di santità, scarseggino tra gli uomini di chiesa, proponiamo questa riflessione di Marco Toti sulla relazione tra virtù e doni dello Spirito Santo in un laico come il commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano il 17 maggio 1972 in un agguato organizzato da membri di Lotta Continua. Vogliamo in questo modo dare ai nostri lettori uno spunto per riflettere sulle giornate dedicate ai Santi e ai defunti. Il testo è stato pubblicato nel volume “Luigi Calabresi: il santo, il martire”, curato da don Ennio Innocenti e pubblicato da Sacra Fraternitas Aurigarum.

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Questo lavoro vuole essere un contributo, compendioso ma suscettibile di ulteriori approfondimenti, all’accertamento delle virtù eroiche manifestate in vita dal commissario L. Calabresi (m. 1972), con particolare attenzione alla relazione tra le virtù medesime (cardinali e teologali) ed i sette doni dello Spirito Santo. A questo fine, mi atterrò alla dottrina cattolica sicura, a testimonianze autorevoli, veraci e coerenti, di prima mano, oltre che a fatti ormai acclarati.

Anzitutto, una premessa. Le virtù cardinali, infuse ovvero acquisite, sono prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; quelle teologali, infuse, sono fede, speranza e carità (a quest’ultima è particolarmente connessa l’umiltà). I doni dello Spirito Santo, che culminano nella carità, sono indicati (con un significato pregnante, non usuale) come sapienza, intelletto, scienza, consiglio, pietà, fortezza e timore;[1] essi si fondano sulle tre virtù teologali appena menzionate. Questi doni – soprattutto i maggiori: sapienza ed intelletto – si manifestano in maniera notevole e con frequenza, presso i “perfetti”, con una modalità di grande “passività” (“dominio” dello Spirito Santo nell’anima): ciò che non esclude, comunque, l’“attività delle virtù”. A ciò si associano le “virtù eminenti” ed “eroiche” (terzo grado della carità, umiltà perfetta, grande spirito di fede, abbandono, pazienza quasi inalterabile).[2] Virtù, doni e, come vedremo, Beatitudini sono strettamente connessi.[3]

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  1. R. Garrigou-Lagrange definisce la vita interiore come “forma elevata della conversazione intima che ciascuno di noi fa con se stesso”, specialmente quando l’uomo si ritrova solo;[4] essa può divenire conversazione con Dio, ciò che costituisce l’”unum necessarium”: “la vita interiore è precisamente una elevazione ed una trasformazione della conversazione intima di ciascuno con se stesso, non appena questa tende a divenire conversazione con Dio”.[5] Essa è “una vita soprannaturale che, per mezzo di un vero spirito di abnegazione e di preghiera, ci fa tendere all’unione con Dio e ad essa ci conduce”;[6] non a caso, “poco a poco il pensiero del nostro io […] lascia il posto al pensiero abituale di Dio”.[7]

Tornando all’oggetto specifico del nostro lavoro, si può dire che la breve esistenza di Calabresi potrebbe essere riassunta nella Beatitudine: “Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male a causa mia: rallegratevi ed esultate, poiché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,10-11).

In un mondo il cui principe è Satana, il giusto è destinato a patire. La Beatitudine appena citata attesta non solo l’incomparabile “eccezionalità” della vita cristiana autentica, ma anche la sua possibilità, pure in mezzo a mille ostacoli, talora umanamente invalicabili. In Calabresi, la croce portata con pazienza,[8] sostenuta anche per mezzo di una profonda vita sacramentale ed interiore[9] che è stata – per quanto ciò sia “dimostrabile” – “vita eterna incominciata”,[10] espresse e trovò il suo apice nel fiducioso abbandono filiale alla Provvidenza;[11] non privo, tale abbandono – che è fondamentalmente docilità alle ispirazioni dello Spirito Santo,[12] umiltà ingenerata dal “vuoto” di sé, e offerta di sé fissa nella volontà di Dio e assimilazione al Redentore, cui ci si affida perché Egli ha infinite risorse – dell’umanamente inevitabile senso di “solitudine”.

Tra le disposizioni e scelte meditate che emergono ad una prima analisi dell’esistenza di Calabresi, sarà qui necessario citare almeno la scelta della castità nel matrimonio,[13] espressione della temperanza, la carità mostrata fin dall’infanzia,[14] soprattutto la totale assenza di rancore nei confronti dei suoi nemici, germe della carità eroica verso il prossimo,[15] peraltro manifestata in una situazione umanamente difficilissima.[16] Ciò che colpisce immediatamente del “carattere” di Calabresi è la pazienza, “specificazione” della fortezza,[17] che è caratterizzata da attesa fiduciosa nella sofferenza;[18] la fortezza è poi virtù tipica della cosiddetta “via dell’infanzia spirituale”.[19] Questa via, splendidamente descritta da Santa Teresa di Gesù Bambino,[20] si fonda su di una fede “ordinaria” – appunto “infantile” – ma profondamente radicata, che dà luogo ad una eroica perseveranza, come attestò una volta, “di sfuggita”, lo stesso Calabresi: “Se non fossi cristiano non so proprio come potrei resistere!”.[21] Pure, la via appena menzionata ha antecedenti significativi in S. Agostino e nel Concilio di Trento, con particolare riguardo al rapporto tra doni e meriti/virtù.[22]

Dalle fonti cui mi è stato possibile attingere risulta che la pazienza ha costituito una costante nella vita del commissario, e va strettamente connessa allo stabile orientamento della sua vita terrena verso il fine supremo: come scrisse P. C. Pera in altro contesto – ciò che senza dubbio si può dire anche per Calabresi –, “la vita tutta è organizzata in funzione del fine supremo, che diviene regola e norma del costante esercizio delle virtù morali e dispone l’anima a un sempre più fedele servizio di Dio”.[23] Sarebbero altrimenti inspiegabili gli atti che caratterizzarono con costanza la vita del commissario: un’esistenza in cui non vi fu alcun “imborghesimento” – ben presente, viceversa, in alcune derive “cattoliche” contemporanee, derive che peraltro imperversavano nell’epoca postconciliare in cui agiva Calabresi, e da cui il commissario fu sostanzialmente immune –, che risolve l’orizzonte della vita nella pura immanenza.[24] Ciononostante, tali disposizioni non implicarono alcuna affettata “seriosità” in Calabresi: oltre alla sua disponibile affabilità, risulta chiaramente attestato – a conferma del carattere “infantile” delle proprie disposizioni – il suo temperamento “ludico”, anche negli ultimi tre, terribili, anni della sua vita.[25]

Sulla “fanciullezza” del santo, Garrigou-Lagrange ha scritto con particolare pregnanza: “S. Francesco di Sales nota in più luoghi che mentre l’uomo col crescere basta a se stesso e dipende sempre meno dalla madre, la quale gli diviene meno necessaria quando giunge all’età adulta e soprattutto nella piena maturità, al contrario l’uomo interiore, quando cresce prende ogni giorno più conoscenza della sua filiazione divina che lo rende figlio di Dio, e diventa sempre più bambino di fronte a Lui, fino a rientrare per così dire, nel seno di Dio; i beati poi in cielo restano sempre in questo seno divino”.[26] In ultima analisi, la santità cattolica consiste, da questo punto di vista, in una sorta di “semplificazione” che è un consapevole “ritorno” alla fanciullezza;[27] la coscienza della propria debolezza – che si accompagna ad un’attitudine di “saggia ignoranza”, di cui la Vergine è la manifestazione eccelsa, oltre che di linearità e di profondità – determina quindi la “pratica semplice delle virtù teologali”.[28] Si badi, comunque, che “ciò che distingue l’‘infanzia spirituale’ da quella ‘naturale’ è la maturità del giudizio”,[29] ossia la prudenza,[30] auriga virtutum; inoltre, come nota ancora S. Francesco di Sales in merito al rapporto tra doni e virtù, lo “[…] Spirito Santo … [che] supplisce coi suoi sette doni alle imperfezioni delle [sue] virtù, tanto che alfine è più passivo sotto l’azione divina che attivo della propria attività personale, e giunto al termine stabilito entrerà nel seno del Padre dove troverà la sua beatitudine”.[31]

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Ad integrazione di quanto detto, si deve anche ricordare che la virtù, per essere tale, deve avere un certo carattere di “stabilità” (habitus), acquisita grazie alla ripetizione degli atti; anche i doni, a loro volta, sono habitus, ma distinti dalla virtù e connessi organicamente con la carità, “disposizioni infuse permanenti” che inducono alla docilità alle ispirazioni divine, non scisse, ovviamente, dalle opere buone,[32] che ne sono un’espressione “esteriore”, un “segno”. Questa docilità – che, in certo senso, “rovescia” i ragionamenti e le attitudini naturali dell’uomo – parrebbe riscontrabile in particolare nella decisione di Calabresi di rifiutare scorta e trasferimento, come verrà detto oltre,[33] entrambi consigliatigli per impellenti e gravi motivi di sicurezza nell’ultimo periodo della sua vita.

Abbiamo prima citato le Beatitudini: a tal riguardo, è fondamentale notare come i sette doni dello Spirito Santo rimandino ad esse (povertà di spirito, fame e sete di giustizia, mansuetudine, misericordia, pentimento per le proprie colpe, purezza di cuore, pace), che costituiscono ed attestano il sublime compendio della nuova Legge, quella della carità, che “ordina gli atti di tutte le altre virtù a Dio, amato al di sopra di ogni cosa e li rende meritori”;[34] esse sono “atti che procedono dai doni dello Spirito Santo, ossia virtù perfezionate dai doni”,[35] cioè “gli atti più perfetti delle virtù infuse e dei doni”.[36]

Pertanto, vi è da notare come la virtù sia definita nel contesto di un’antropologia che non svaluta l’umanità, come avviene nel protestantesimo “classico” – ove l’uomo è considerato irrimediabilmente corrotto –, pur nella considerazione della sua condizione profondamente ferita in ragione del peccato di origine. La relazione tra virtù e doni è stata descritta, in maniera abbastanza sistematica, da P. S. Tognetti, figlio spirituale di Don D. Barsotti; questa descrizione, riteniamo, si attaglia bene all’esperienza di Calabresi: “[Ma] è attraverso la pratica delle virtù che l’uomo acquista la somiglianza a Cristo. Lo Spirito Santo infonde in noi le sue stesse perfezioni (la Grazia) perché noi viviamo nello Spirito Santo compiendo atti spirituali, conducendo una vita spirituale pur negli atti comuni”.[37] Virtù come atti, doni dello Spirito Santo come grazie infuse liberamente ed opere ordinarie ed allo stesso tempo sante costituiscono gli “ingredienti” di una “teoantropologia” che ha trovato in Calabresi una manifestazione esemplare.

Da tutto ciò, si comprende bene come il fine della vita cristiana, appunto “preludio di quella celeste”, sia l’unione con Dio nella carità, e non semplicemente la “quiete”, che ne è uno stadio – per quanto “progredito” – ed un mezzo orientato all’“unione trasformante”; ciò non toglie, come già messo in luce, il carattere eminentemente “passivo” (da non intendersi in senso quietistico!)[38] del cammino stesso, in specie nelle sue fasi più elevate. Calabresi significa molto efficacemente la sua ferma volontà di giungere a tal fine con la bella preghiera composta dal suo amico P. V. Rotondi, da lui recitata ogni giorno sino alla morte: “O Gesù, per le mani di Maria,/Tua e mia madre,/Ti offro la mia mente per i Tuoi pensieri,/la mia volontà per i Tuoi voleri,/i miei sensi per le Tue opere./Fa’ che vivendo di Te/operando per Te/Io mi trasformi in Te./O Gesù, re Divino,/che, patendo e morendo in Croce,/salvasti il mondo”.[39]

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Uno dei punti salienti della vicenda umana e cristiana di Calabresi è costituito, come accennato, dal rifiuto sia della scorta sia del trasferimento a Roma: rifiuto implicante l’accettazione di un martirio probabile, poi effettivamente verificatosi. Le testimonianze di Don E. Innocenti a questo proposito sono probanti.[40] Questo “abbandono” alla volontà di Dio è noto nel cattolicesimo come “rassegnazione” – termine così avversato dalla mentalità corrente –, e dovrebbe essere monito per molti cristiani moderni, che amano la vita in sé (e non come dono di Dio) ed inclinano all’attivismo antropocentrico. A nostro parere, tale “rassegnazione”, fondata sulla pazienza e soprattutto sulla “speranza eroica”,[41] è forse l’atto di fede più significativo – anche se vissuto nella discrezione più “ordinaria”, senza artifici, eccessi o forzature –, che ha sublimato, con l’aiuto della Grazia, un eroismo di tratto tipicamente “romano”; esso ricorda l’attesa paziente della morte del soldato in guerra, quando tutto sembra esser perduto, nella quale attesa si trova Dio.[42]

In effetti, il “perfetto abbandono alla volontà di Dio” costituisce una delle “virtù eminenti ed anche eroiche” propria dei “perfetti”,[43] che mostra la purificazione del fondo della volontà[44] dall’“amor proprio” che vi alligna,[45] per far posto all’umiltà,[46] radice della carità.[47] In questa purificazione ha un ruolo fondamentale il dono d’intelletto,[48] che è luce che illumina e fa penetrare le cose, attraendo a Dio:[49] lume sovrannaturale, che fa conoscere intuitivamente l’oggetto della fede.[50]

Il fermo rispetto delle “consegne” ricevute non è però solo “senso del dovere”, né, tantomeno, volontà di “autoannichilimento”. Questo è un altro punto da chiarire, per il fatto che si presta a facili confusioni: l’“ego” si può affermare con massima protervia sia nel suicidio – ovviamente in quello dovuto a “disperazione”, ma anche in quello ritualistico-letterario, più o meno “estetizzante” – che nell’attaccamento smisurato alla vita, entrambi negando l’amore e la volontà di Dio. Come giustamente afferma Brunettin, “egli [Calabresi] sapeva di essere nel mirino del nemico e poiché non si è voluto sottrarre (con nobile valutazione) all’ostile proposito omicida è stato detto un ‘volontario della morte’, non nel senso che desiderasse la morte ma nel senso che affrontava liberamente quell’imminente pericolo minacciato […], rinunciando perfino alla propria legittima difesa armata, ma affidandosi solo a Dio e alla sua accettata imperscrutabile volontà […]. Come l’antico martire sant’Apollinare egli avrebbe potuto ripetere: ‘Ho gusto della vita, ma non temo certo la morte per amore della vita”.[51] Sembrerebbe qui risplendere la “libertà dei figli di Dio” (Rm 8,21), che è liberazione dalle passioni e dal peccato, ed ultimamente anche dall’attaccamento alla propria vita, e promana dall’amore per la Verità, che è Dio. Il “desidero andarmene ed essere col Cristo” è attestato in S. Paolo (Fil 1,23), che afferma pure che “il morire [è] un guadagno” (Fil 1,21), mentre S. Gregorio di Nazianzo dice: “Quando penso che l’eternità deve ricevermi, mi persuado allora che il nascere è morire, il morire è la vita”. Il Cristianesimo non è certo un’“evasione nirvanica”, né una “estetica della morte”: ma questo non ci deve portare ad affermare l’estremo opposto, ossia l’“idolatria della vita”,[52] con le sue propaggini quali, ad esempio, il culto della tecnica e del lavoro, oggi imperanti, o il culto della vita stessa per un vantaggio proprio, o anche “comunitario”, e comunque chiuso nell’orizzonte del tempo profano.

Un altro segno della fortezza di Calabresi è la mancanza (ovvero, in un certo senso, lo “sradicamento”) della paura,[53] frutto della quiete, e quindi di un “equilibrio”, di un ordine che va connesso alla virtù della giustizia e che va applicato non solo all’individuo, ma anche alla società.[54] A ben guardare, uno dei maggiori freni all’amore è proprio questa paura: non a caso, nel Vangelo Gesù, oltre ad esortare all’amore dei nemici (Lc 6,27) ed al “porgere l’altra guancia” al proprio carnefice (Lc 6,29), incoraggia gli apostoli: “Non abbiate paura” (Mt 10,26). Ancor più significativamente, il Signore ricorda: “Non vi spaventate inoltre per quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima” (Mt 10,28), che va legato al passo quasi immediatamente successivo: “Chi non prende la sua croce dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua vita a causa mia, la ritroverà” (Mt 10,38-39). Decisiva, su questo aspetto del “carattere” di Calabresi, è la testimonianza della moglie di Calabresi: “No, non ebbe mai paura. E non girò mai armato, così come, nei servizi di ordine pubblico, non indossò mai l’elmetto […] ‘Perché non la [la pistola] tieni indosso, come i tuoi colleghi?’, gli domandai. ‘No, non la porto, perché non avranno mai il coraggio di spararmi guardandomi negli occhi. Se dovessero decidere di spararmi, lo faranno alle spalle. E allora la pistola non mi servirebbe a niente”.[55]

In ciò, purtroppo, Calabresi fu buon profeta. Ad ogni modo, questa sovrumana fortezza (la fortezza, oltre ad essere una virtù cardinale, è anche un dono dello Spirito Santo, che a sua volta rimanda alla speranza teologale),[56] che è pure pazienza, fu tanto più eroica perché esperita nella solitudine più desolante,[57] ed anzi nel disprezzo diffuso ed artificiosamente montato da molti cosiddetti “mezzi d’informazione”. Rende bene l’idea di questa situazione umanamente insostenibile quanto scrive P. Tognetti, con particolare riguardo alla relazione tra fede eroica ed altre virtù: “Calabresi visse tre anni di isolamento, di solitudine, e dovette superare la prova da solo […] egli non diceva niente a nessuno […]. L’unico su cui poter appoggiare, per resistere […], era Dio. Da qui si misurano le virtù”.[58] L’ultima riflessione, ci pare, dovrebbe essere adeguatamente vagliata, in specie nelle sue implicazioni “esistenziali”, nell’ambito dell’iter di accertamento delle “virtù eroiche” di Calabresi.

Non priva di agganci con l’“indifferenza” di cui parla S. Ignazio[59] (cfr. greco apátheia), crediamo anche che la fortezza manifestata da Calabresi fosse legata al senso della propria vocazione ed all’oblio di sé, fondato sulla “riconversione” delle proprie passioni, che apre all’amore di Dio; a tal proposito, eloquenti sono le parole di Cristo, ancor più pregnanti perché da riferire alla semitica società “tradizionale”, in cui la famiglia deteneva un ruolo assolutamente centrale: “Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me; chi ama il figlio e la figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37). Queste parole, certamente “ruminate” a fondo dal commissario, non lo condussero a facili (ed assolutamente improvvide) evasioni antisociali e/o antimondane, ma anzi furono lo spunto per un abbandono al Signore che non escludeva una certa connotazione “politica” e “sociale” della fortezza di Calabresi: secondo lui lo stato, infatti, non poteva fuggire di fronte alla sovversione minacciata, anche perché l’amore di Dio, che deve essere al di sopra di ogni cosa, è amore della giustizia, e quindi dell’ordine nell’ambito politico; pure, ai figli (affidati al nonno) si doveva per l’appunto un esempio di fortezza. Non è un caso, pure, che “questo dono [della fortezza] ci fa conservare nonostante tutto ‘la fame e la sete della giustizia di Dio’”.[60] Il “dovere di stato” – altro termine cattolico caduto nell’oblio – fu quindi rispettato fino in fondo e addirittura “sublimato”, consapevolmente usque ad effusionem sanguinis.

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Per accertare l’“eroicità delle virtù” – fondamento della santità – disponiamo, fra l’altro, di un prezioso strumento: il De servorum Dei beatificatione di Benedetto XIV. In questo documento[61] si afferma che a tal fine sono necessari la materia o oggetto ardui e l’esercizio degli atti compiuti prontamente, con gioia[62] e con una certa frequenza (sempre, quando se ne presenta l’occasione).[63] In poche parole, la virtù deve essere, per l’appunto, “eroica”, ossia avere un oggetto, umanamente parlando, particolarmente difficile (talora impossibile, di fatto) da perseguire – a motivo della sua difficoltà intrinseca e degli ostacoli che si oppongono al suo stesso esercizio – ed in cui perseverare; essa deve anche costituire un habitus che sottostà alle ispirazioni dello Spirito Santo, cui si deve rispondere con un certo gaudio ed una certa decisione, ossia senza “ruminazione”.[64] Qui si precisa la forma specifica della virtù cristiana (e, in questo caso, di Calabresi): il consegnarsi al nemico inermi non costituisce un atto isolato di eroismo, che sarebbe stato pur ammirevole; al contrario, ci pare che Calabresi sia “martire” (in senso etimologico) di una continua, paziente sottomissione alla volontà di Dio che, come attestano la tradizione ed anche il semplice buon senso, è ben più arduo da perseguire di un gesto anche eroico, e che eventualmente può culminare (nel caso del commissario è culminata) nel martirio.[65]

A conclusione del nostro scritto, ci pare di poter affermare di aver indicato alcuni degli elementi più significativi a sostegno della spiritualità del commissario Calabresi, fondata sulla pratica della conformità con il modello offerto dal Redentore, massimamente espressa nella carità eroica verso Dio, ossia nell’amore della croce e nel desiderio costante di adempiere alla sua volontà.[66] L’”esercizio eminente della carità”, accompagnato “proporzionalmente” dal “dono di sapienza”, che “ci permette […] di conoscere in modo quasi sperimentale Dio presente in noi”, costituisce la autentica “vita mistica”.[67]

Sulla base di quanto detto, è anche possibile ipotizzare che gli ultimi, durissimi anni della vita del commissario abbiano segnato il passaggio dalla “via illuminativa” (“purificazione passiva dei sensi”, nella terminologia di S. Giovanni della Croce, ove già ha inizio l’eroicità delle virtù)[68] a quella “unitiva” (“purificazione passiva dello spirito”, ossia “morte mistica”, “notte oscura dello spirito” come “oscurità transluminosa”),[69] “sotto l’influsso soprattutto del dono d’intelletto” (qui si manifestano con particolare efficacia, non a caso, i doni di fortezza e di consiglio). Considerati questi terribili anni anche nel contesto delle tempeste sociali ed ecclesiali allora imperanti (ma non certo svanite nel nulla!), non è neppure da escludere un certo carattere “riparatore”[70] del martirio di Calabresi.

La santità è, per l’appunto, la piena sottomissione e l’accordo della nostra volontà con la volontà di Dio, spesso espressa in forme “discrete”, non appariscenti e, agli occhi del mondo, “infantili”, ovvero pure nell’intenzione e nello spirito: “‘Mi compiaccio con te, o Padre, Signore del cielo e della terra, che hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai saggi e le hai rivelate ai semplici’” (Mt 11,25). Calabresi, martire innocente che avrebbe potuto difendersi senza compiere peccato alcuno, ha eroicamente resistito con cristiano abbandono e fede perfetta al fuoco dell’umiliazione, consegnandosi ai suoi empi, ideologizzati carnefici: e questa durissima prova, analoga alla “solitudine” sperimentata da Cristo in croce, ha costituito il preludio alla visione beatifica di quel Dio che egli ha tanto amato nel corso della sua breve e ammirevole esistenza.

 

 

 


[1] Cfr. Is 11,2.

[2] R. Garrigou-Lagrange, Le tre età della vita interiore. Preludio di quella del cielo. Trattato di teologia ascetica e mistica [1938], tr. it. Roma-Monopoli 20112, I vol., p. 305. Questo testo costituisce la base delle nostre argomentazioni; esso si fonda su S. Tommaso e su S. Giovanni della Croce. Da quest’ultimo l’A. trae (pp. 30-31) la classica tripartizione del cammino (cfr. greco méthodos) ascetico-mistico: via purgativa, o dei principianti, consistente nella purificazione attiva e passiva dei sensi che è preparazione immediata (“ascesi” propriamente detta: il dono corrispondente è il timore); via illuminativa, o dei proficienti, consistente nella contemplazione infusa e purificazione passiva dello spirito (vita attiva, preparazione remota: i doni corrispondenti sono fortezza, pietà, consiglio); via unitiva, o dei perfetti, consistente nella unione trasformante e nel conseguimento della carità (vita contemplativa; i doni corrispondenti sono intelletto, sapienza, scienza). Le prime due vie appartengono alla ascetica, e analogicamente si rapportano alla “croce” di Gesù Cristo, la terza, propriamente relativa alla mistica, riguarda una “parziale” resurrezione conseguita già nella vita terrena: è in questo senso che la vita interiore è preludio, “caparra” di quella celeste. I doni dello Spirito Santo si palesano fin dal secondo stadio; la purificazione passiva dei sensi dà luogo al passaggio dal primo al secondo stadio, ed i segni di questo passaggio sono aridità sensibile prolungata, vivo desiderio della perfezione e di Dio, incapacità quasi totale di applicarsi alla meditazione discorsiva, “sguardo amoroso ed attento” su Dio; la purificazione passiva dello spirito, che implica lo “sradicamento” del “compiacimento” dello spirito (cfr. greco philautía), ossia di quell’orgoglio sottile che vuole il bene da sé, apre alla via unitiva (su ciò v. quanto affermato infra).

[3] Cfr. quanto dirà P. S. Tognetti infra.

[4] Garrigou-Lagrange, op. cit., p. 18 (cfr., al proposito, il greco logos endiáthetos).

[5] Ibidem, p. 67. Cfr. IV vol., p. 76 (la preghiera, divenuta habitus, si trasforma in “contemplazione” dei misteri della fede: cfr. infra).

[6] Garrigou-Lagrange, I vol., op. cit., p. 69.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. Mt 10,38.

[9] V., sulla preghiera, Mt 6,6.

[10] Garrigou-Lagrange, I vol., op. cit., p. 185.

[11] Cfr. Lc 23,46: in manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.

[12] Cfr. Gv 3,8.

[13] S. Tognetti, La fama delle virtù di Luigi Calabresi è ben fondata, in G. Brunettin, Luigi Calabresi. Un profilo per la storia, Milano-Roma 20086, p. 301. Garrigou-Lagrange afferma: “la carità è l’anima della santa castità” (I vol., op. cit., 267); quest’ultima costituisce una delle 3 virtù religiose ed uno dei 3 consigli evangelici.

[14] Cfr. Brunettin, op. cit., pp. 35 ss.

[15] Cfr. Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 147.

[16] Brunettin, op. cit., p. 298.

[17] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 153. Inoltre, “il dono della fortezza viene ancora ad aggiungere una perfezione superiore alla virtù della fortezza; ci dispone a ricevere le ispirazioni speciali dello Spirito Santo, che vengono a sostenere il nostro coraggio di fronte al pericolo” (ibidem, p. 153).

[18] Cfr. latino patior, patiens.

[19] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 108.

[20] Ricordi e consigli, in Storia di un’anima (1923), p. 263 (riportato in Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 110 [corsivi miei]): “Restare piccoli è riconoscere il proprio nulla, aspettare tutto dal buon Dio, come un bambino aspetta tutto dal padre suo; è non inquietarsi di nulla […]”.

[21] Cit. in Brunettin, op. cit., p. 157 n. 31.

[22] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 111. L’A. afferma significativamente che “noi non possiamo offrigli che quello che riceviamo da Lui [Dio]; ma quello che riceviamo sotto forma di Grazia, glielo offriamo sotto forma di merito […] (ibidem).

[23] Riportato da P. I. Tubaldo, Presentazione, in P. C. Pera, La spiritualità missionaria nel pensiero del Servo di Dio Giuseppe Allamano, Torino 1973, p. 14. Cfr. infra sulla resistenza nella “solitudine” (in Dio) come “prova” delle virtù.

[24] Cfr. P. Tubaldo, cit., p. 16.

[25] Cfr. Brunettin, op. cit., pp. 139-179.

[26] Garrigou-Lagrange, I vol., op. cit., p. 71 n. 5 (corsivo mio); cfr. il caso eloquente di S. Luigi Gonzaga.

[27] Ad esempio, la tradizionale devozione al Bambino Gesù è finalizzata a facilitare una tale attitudine nel fedele.

[28] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., pp. 105-106. Cfr. Mt 8.

[29] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 110.

[30] Sulla “prudenza eroica” v. ibidem, p. 154-157.

[31] Ibidem, p. 110 (corsivo mio). Cfr. la bellissima immagine di S. Giovanni “chinato sul petto di Gesù” durante l’ultima cena (Gv 13,25).

[32] Garrigou-Lagrange, I vol., op. cit., p. 101.

[33] Infra.

[34] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 120.

[35] Garrigou-Lagrange, I vol., op. cit., p. 210 (corsivo mio).

[36] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 116.

[37] Tognetti, cit., p. 295 (corsivo mio).

[38] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 136-137, afferma: “Questo perfetto abbandono differisce dal quietismo perché è accompagnato dalla speranza e dalla fedeltà costante al dovere, sino nelle piccole cose, di momento in momento, secondo le parole del Signore: ‘Qui est fidelis in minimo, et in majori fidelis est’ (Lc 16,10). Egli, se sarà necessario, riceverà il divino aiuto per subire il martirio”. Queste parole si attagliano bene alla vita di Calabresi: come in ogni esistenza umana, Dio lo ha “toccato” con la Sua Grazia sufficiente; a questa Calabresi ha risposto, e Dio ha allora elargito la Sua Grazia sovrabbondante, fermentando soprannaturalmente il suo intero patrimonio psichico.

[39] Riportata in Brunettin, op. cit., p. 64 (corsivo mio). Impressionanti risultano le affinità con l’“unione trasformante” descritta da S. Giovanni della Croce (v. Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., pp. 215-268); significativo anche il riferimento alla Madre di Dio (sulla devozione a Maria nella via unitiva si veda anche ibidem, 165-168).

[40] Brunettin, op. cit., p. 286.

[41] Garrigou-Lagrange, vol. IV, op. cit., cap. XI, in specie pp. 133-136. È importante rilevare come l’A. affermi lo strettissimo nesso tra speranza eroica, fermezza (fortezza) e conseguente “abbandono”: ciò che attesta la raggiunta “perfezione” (ibidem, p. 133). Pure, “la speranza eroica per carattere una fermezza invincibile e l’abbandono confidente sostenuto da una fedeltà costante al dovere” (ibidem, p. 133, n. 1). Inoltre, “questa fermezza invincibile della speranza si manifesta […] nella purificazione passiva dello spirito quando, per farci sperare unicamente in lui, il Signore permette che si allontani da noi ogni soccorso umano. Accade allora che incontriamo insuccessi, talvolta calunnie […]. Si deve allora sperare eroicamente e soprannaturalmente, contro ogni speranza umana, come dice San Paolo a proposito di Abramo […]” (ibidem, p. 134; sulla “fortezza eroica”, i cui “atti principali” sono “intraprendere coraggiosamente […] e tener duro […] nelle cose difficili” [ibidem, p. 153], si veda ibidem, pp. 152-154). Inutile dire che tutto ciò, con particolare riferimento alla fedeltà al proprio dovere, alla solitudine ed alle calunnie, sembra essere stato scritto in relazione a Calabresi.

[42] Brunettin, op. cit., p. 32 n. 3.

[43] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 304.

[44] Ibidem, p. 16.

[45] Ibidem, p. 17.

[46] Ibidem, p. 19.

[47] Cfr. lo schema riportato ibidem, p. 23, ove la radice dell’albero è l’umiltà, i suoi rami inferiori le varie virtù cardinali (connesse ad un particolare dono), ed i suoi rami più alti le virtù teologali, tra cui spicca la carità (sola “realtà” a perdurare in eterno: 1Cor 13,8), insieme all’abbandono/unione contemplativa tendenzialmente continua. Questo schema è particolarmente utile alla delucidazione dei rapporti tra virtù e doni. La carità, come si può vedere, è connessa ai doni di intelletto e di sapienza (quest’ultimo consente la “conoscenza quasi sperimentale” di Dio (S. Tommaso, Summa, II,II, q. 45, a. 2, riportato in Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 146), ossia la contemplazione dei misteri della fede rischiarata dalla luce del Logos: ibidem, p. 97).

[48] Ibidem, p. 38.

[49] Ibidem.

[50] Ibidem, p. 39.

[51] Brunettin, op. cit., p. 286 (corsivi miei).

[52] Ad esempio, opporsi all’aborto in particolari situazioni con motivazioni semplicemente umanistiche (“non si risponde a violenza con violenza”) costituisce una manifestazione di tale “idolatria”, che è tanto più pronunciata quanto più è slegata dalle ragioni “metafisiche” di una tale opposizione, in sé ovviamente giusta.

[53] Tognetti, cit., p. 302.

[54] Cfr. infra. Sulla “giustizia eroica”, connessa anche alla “semplicità infantile”, v. Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., pp. 157-158.

[55] Riportato in Brunettin, op. cit., p. 168; v. anche ibidem, p. 169, e cfr. Tognetti, cit., p. 298.

[56] Garrigou-Lagrange, vol. IV, op. cit., p. 133.

[57] Cfr. la testimonianza di Don Innocenti riportata in Brunettin, op. cit., p. 157 n. 31.

[58] Cit., p. 296 (corsivi miei).

[59] S. Ignazio afferma che “è necessario renderci indifferenti a tutte le cose create, in tutto quello che è lasciato alla libertà del nostro libero arbitrio, e non è proibito; di modo che non vogliamo da parte nostra salute piuttosto che infermità, ricchezza piuttosto che povertà, onore piuttosto che disonore, vita lunga piuttosto che breve, desiderando e scegliendo unicamente ciò che ci conduce più sicuramente al fine per cui siamo creati” (Esercizi spirituali, tr. it. 23 c). L’indifferenza è “la determinazione logica a ciò che è più perfetto, poiché siamo sulla terra innanzitutto per meritare il nostro destino eterno, che è il possesso di Dio, il Bene infinito”; a sostegno di ciò, si può ricordare quanto sosteneva S. Teresa d’Avila: “È necessario che voi diventiate indifferenti a tutto ciò che non è Dio, ecco come giungerete alla cima della perfezione alla quale Gesù vi ha chiamati”; inoltre, “È indifferente all’una o all’altra cosa colui che in realtà sacrifica tutto per Dio” (Vita, XVI [corsivo mio]) (Preghiere, canti, esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola, Albano Laziale [Rm] 2008, 156 n. 1).

[60] S. Tommaso, cit. in Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., 154.

[61] 1.3, cap. 21 (citato in Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 115 n. 1). Sulle “virtù eroiche” si vedano S. Tommaso, Summa I,II, q. 61, a. 5 e q. 69; S. Agostino, De sermone Domini in Monte I,I,4 (riportati in Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 116). Molto significativamente, in entrambi i casi ci si riferisce alle Beatitudini.

[62] La “santa allegrezza” non esclude il dolore, la tristezza e talora anche l’oppressione: “la gioia di soffrire per Nostro Signore aumenta anzi con la sofferenza” (ibidem, 118).

[63] Ibidem, 117.

[64] Cfr. il “colpo d’ascia” della volontà, consigliato da S. Ignazio in merito all’emendamento personale ed alla riforma nello stato di vita abbracciato (Esercizi spirituali, 189).

[65] Non è un caso che, con imbarazzanti e significativi ritardi, a Calabresi ci si riferisca oggi, da parte dello stato, con la categoria tutta laicizzata in senso umanistico-risorgimentale dell’eroe. Per sgombrare il campo dagli equivoci, egli dovrebbe essere definito “martire”, con la precisazione che il suo martirio è stato specificamente e irriducibilmente cristiano, e quindi del tutto incomprensibile a chi ora, forse strumentalmente, lo esalta.

[66] Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., p. 143 e 145. Sui “segni“ della carità eroica v. S. Bernardo, Comm. in Cant. 5,8; 8,6 (riportato in Garrigou-Lagrange, vol. IV, op. cit., p. 145).

[67] Ibidem, p. 146.

[68] Ibidem, p. 115.

[69] Ibidem, p. 19. Cfr. ibidem, cap. IV.

[70] V. al proposito Garrigou-Lagrange, IV vol., op. cit., pp. 184-187 (“La vita riparatrice in tutti quelli che hanno da portare una croce pesante”). Anche qui, si manifesta in maniera eminente la “carità eroica”.

4 commenti su “L’esempio cristiano del commissario Luigi Calabresi – di Marco Toti”

  1. anche se le virtù eroicamente espresse da calabresi non sono più “di moda” sono sicuro che la giustizia divina lo porterà presto all’onore degli altari.

  2. Oswald Penguin Cobblepot

    A quanto (lodevolmente) descritto nell’articolo, mi permetto alcune note. (1) don Ennio Innocenti è il sacerdote che cura il processo di beatificazione del servo di Dio Luigi Calabresi, ed è (se non erro) l’autore di una preghiera (ne possiedo il testo, che posso fornire a richiesta). (2) La notte in cui Pinelli cadde dalla finestra della Questura milanese (15.12.1969), il “commissario cavalcioni” NON era presente nella stanza. (3) Qualche ora prima, un suo collaboratore stava telefonando alla moglie dello sventurato frenatore delle FFSS, affinché essa consegnasse in Questura il libretto ferroviario del marito (dal quale ne emergeva l’innocenza del Pinelli, poiché era in viaggio mentre scoppiava Piazza Fontana). Queste due circostanze sono accertate da Montanelli (“L’Italia degli anni di piombo”, cap. VI), e dimostrano come le accuse della sinistra (Cederna, Fo, Feltrinelli etc.) rivolte contro il “commissario finestra” siano solo un mucchio di menzogne (smentite addirittura dalle Brigate Rosse). Un saluto da Gotham, il Pinguino.

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