L’industria dell’olocausto pellerossa – di Roberto Dal Bosco

4 dicembre 2016. ll rabbino Jonah Dov Pesner si esaltò quando seppe che il Corpo degli ingegneri dell’esercito aveva annunciato che avrebbe cercato un percorso alternativo per la North Dakota Access Pipeline, un oleodotto che avrebbe attraversato la riserva Sioux di Rock Standing. «Abbiamo ricevuto una chiara richiesta dal Reform Movement [ossia dalla denominazione detta anche «giudaismo liberale», «ebraismo progressista», NdR] dopo che il gasdotto è stato giudicato insicuro (…) È un caso classico di ingiustizia ambientale» proclamò con sicumera il rabbino.

SCOPPIA L’AMICIZIA INDIO-EBRAICA Il rabbino ricostruzionista Linda Holtzman dichiarò con semplicità: «è nostro dovere stare con gli indigeni di Standing Rock». Ebrei e nativi americani uniti contro l’oleodotto. Un po’ come avviene da noi per la TAP degli amici del ciellino azerbaigianofilo Luca «CitizenGo» Volonté, anche in USA è oggidì difficile costruire tuboni per gli idrocarburi. Le proteste, a Standing Rock, furon violente: i poliziotti usarono i lacrimogeni. In un’occasione, la polizia spruzzò la gente con un cannone ad acqua mentre le temperature scendevano sotto lo zero. In un altro scontro tra polizia e manifestanti, l’attivista ebrea Sophia Wilansky fu  ferita in un’esplosione che, scrive il Times of Israel, potrebbe costarle un braccio.

«Così come ebrei siamo stati disturbati dalla violenza nei luoghi di protesta, dai cannoni ad acqua sparati sui manifestanti a temperature gelide e sparando proiettili di gomma. E siamo stati profondamente turbati dalla potenziale distruzione di luoghi sacri e cimiteri sacri. Come ebrei, siamo dolorosamente consapevoli di ciò che significa» ha detto aiuto Rabbi Jill Jacobs, direttore esecutivo di T’ruah: The Rabbinic Call for Human Rights.

Il lettore magari si starà chiedendo come mai in questa questione, che dovrebbe riguardare i pellerossa, gli ebrei siano stati così in prima linea. Il fenomeno di fatto è curioso: in pratica, gli ebrei americani – anche e soprattutto quelli liberal, che di fatto riempiono le colonie illegali in Israele – proiettano sui «nativi americani» il loro etnonazionalismo? L’irrinunciabile idea della «Terra Santa» inviolabile? Oppure la purezza razziale di una etnia che raramente si è preservata endogamicamente?

Questo strano amore pare anche corrisposto. L’attivista per i diritti degli «indigeni» Ryan Bellerose, della tribù dei Métis, dopo un viaggietto a Tel Aviv arriva a proclamarsi «sionista» e a produrre video in cui esorta gli ebrei a convincersi del proprio status di «indigeni» in Israele. «È ora che il mondo – e gli stessi ebrei – identifichi il Popolo del Libro come popolo indigeno».

POPOLI ELETTI, CON WELFARE Si insinua, anche nei pellerossa la strisciante ipotesi di un etnonazionalismo di matrice razziale, persino genetico. Non siamo distanti dallo Stato vagheggiato dal pittore austriaco Adolfo Hitler (1889-1945). I nazisti, che pure impararono l’eugenetica e la legislazione di segregazione razziale dagli USA dei bianchi, non senza contraddizione avviarono una romanticizzazione tutta tedesca dei nativi americani. Fu idea di Giuseppe Goebbels (1897-1945) quella di conferire lo status di «Ariani onorari» alle tribù native americane.

Un altro popolo eletto? Del resto essere riconosciuto genealogicamente come «native american» di fatto è difficile, se non impossibile. Un’amica americana, che è pellerossa da parte di padre (e le forme incongrue, ma fascinose, del suo volto lo rivelano) mi ha confermato che è per lei quasi impossibile ottenere lo status di «indiana» (parola proibita dal Politicamente Corretto, così come «pellerossa», al punto che hanno costretto pazzescamente la squadra di Football dei Washington Redskins a cambiare nome, perché le tribù si offendevano, e i liberal forse persino di più) e con esso i benefit relativi.

Considerando come l’America sia Paese nemico dell’idea del welfare state, il crasso assistenzialismo di cui godono ad abundatiam i nativi imbarazza un po’ tutti, tanto che sui siti internet ufficiali si possono leggere formidabili excusationes non petitae: «Contrariamente alla credenza popolare – scrive il sito del Native American Rights Fund (NARF), una grande organizzazione no profit che si occupa di assistenza alle tribù – gli indiani non ricevono pagamenti dal governo federale semplicemente perché hanno sangue indiano».

«I fondi distribuiti a una persona di origine indiana possono rappresentare un reddito da locazione mineraria su beni detenuti in trust dagli Stati Uniti o compensi per terreni espropriato per lo sviluppo di progetti governativi».

«Alcune tribù indiane ricevono benefici dal governo federale in adempimento degli obblighi del trattato o per l’estrazione di risorse naturali tribali – una percentuale delle quali può essere distribuita come pro capite tra l’appartenenza della tribù».

Come dicono gli indigeni veneti, «el tacòn pezo del buzo», la toppa peggio del buco. Intanto però i soldi arrivano, e con essi i singolari permessi di aprire casinò nelle riserve tribali. Il senso di colpa della civiltà crea cortocircuiti semantici: in quella che è la loro Terra Santa, gli indiani ci piazzano la roulette e il Black Jack. Sì, il senso di colpa della superpotenza, come sempre, fa miracoli.

I PELLEROSSA NON VOGLIONO LA SENATRICE POCAHONTAS C’è qui forse un’altra similitudine indio-ebraica. Qualche anno fa Rizzoli pubblicava un libro che si chiamava L’Industria dell’Olocausto: l’idea del suo autore, Norman G. Finkelstein era di raccontare lo sfruttamento da parte degli ebrei americani della memoria della persecuzione tedesca. Si può allora dire che anche il senso di colpa nei confronti del massacro pellerossa ha generato le sue laute rendite per i «sopravvissuti»?

Essere indiani in USA significa entrare in club esclusivo, impenetrabile, cool. Solo che bisogna fare molta attenzione, soprattutto adesso che il test del DNA si può fare per pochi dollari. Di recente, la senatrice americana Elizabeth Warren ha fatto uno di quei nuovi  test di genomica di consumo che spopolano in USA: è risultato che una piccola porzione del suo DNA sarebbe native american, lei lo ha comunicato raggiante, perché il corredo genetico di una famiglia dell’Oklahoma non suona benissimo per un papavero del Partito Democratico.

Il presidente Donaldo Trump (1946-) ha trovato subito un nome per lei: «Pocahontas». Pure gli indiani incazzaronsi colla Warren, e parecchio. I grandi giornali dovettero scrivere articoli per spiegare perché: di fatto, se Putin un giorno confermasse di aver origini vicentine (di Costabissara, per l’esattezza) io mica mi offenderei; e nemmeno i russi, son sicuro.

Gli indiani d’America invece hanno una sensibilità diversa: l’annuncio della senatrice Warren «ha irritato molti nativi americani, tra cui la Nazione Cherokee, la più grande delle tre tribù Cherokee riconosciute a livello federale» scrisse il New York Times.

Spiega la professoressa Kim TallBear («Kim Orsa Alta») che mentre molte persone vedono i «nativi americani» semplicemente come una categoria razziale, «noi abbiamo ulteriori idee su come identificare quando uno è nativo americano che non sono è in linea con il modo in cui la maggior parte degli americani pensa. Le nostre definizioni sono importanti per noi».

Per aggiungere chiarezza al già lucidissimo discorso di esoterismo razzista, la professoressa Orsa Alta, che è un membro della tribù Sisseton-Wahpeton Oyate nel Sud Dakota e tiene un blog che magnifica la promiscuità sessuale alla indiana in cui definisce la monogamia come «sesso dei colonizzatori», enuclea con coraggio l’analisi: «quello che ci stanno dicendo è che stanno privilegiando le definizioni non indigene dell’essere indigeni».

Nazionalismo genetico, ossessione della «Terra Santa»: ebrei e pellerossa sembrano corrispondersi in amorosi sensi. Tuttavia qualcos’altro li accomuna: la passione per la gestione dei casinò, un business che li portò direttamente a scontrarsi, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, con un imprenditore nuovayorkese con ampli interessi ad Atlantic City, tale Donaldo Giovanni Trump.

 

 

 

1 commento su “L’industria dell’olocausto pellerossa – di Roberto Dal Bosco”

  1. Tante tribù ma nessun popolo. Un po’ come l’Italia: sono lombardo, sono fiorentino…..ma nessun italiano.
    Poi i sudamericani stanno riscoprendo la masticazione della foglia di coca per tornare all’identità precolombiana.
    Con un po’ di soldi passano i dolori.

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