L’uomo più ricco del mondo (secondo Guareschi)

Il Progresso uccide la civiltà. Diceva Guareschi. Lo diceva con una favola, come sapeva fare lui, uomo di semplice genialità. Certo, ai suoi tempi i milioni si contavano in miliardi perché le lire non erano dollari. E oggi che gli euro non sono comunque dollari il Progresso dei tempi di Giovannino lo chiamiamo Scienza. Ma la sostanza non cambia, perché tutto il mondo è paese e persino l’America, epicentro del progresso e patria del dollaro, ha da qualche parte la sua fettaccia di terra benedetta da tenere in considerazione.

Per trovarla, Guareschi ci manda il suo alter ego narratore, che se ne torna con una storia sull’Uomo più ricco del mondo. Cronaca favolistica di un viaggio intrapreso per capire se c’è anche qualcosa di bello anche nella terra della libertà e della democrazia che ci hanno portato, ma senza troppe polemiche perché farsi scazzottare da un agricoltore del Michigan non va a genio né al turista né all’intellettuale.

Certo oggi, grazie alla Scienza tecnologica, tutti sanno tutto dell’America, senza magari esserci mai stati se non guardando dentro lo schermo di computer. Ma conta davvero? In fondo, anche a noi piace la vecchia America. Forse perché vi si respira un po’ l’aria della vecchia Europa. L’aria di quando gli uomini pesavano le parole con più attenzione di quanto pesassero le patate o il cotone. L’aria selvaggia che rinfresca immagini familiari, come la mano bruna, scarnita e robusta del nonno. O come la mano del contadino della favola di Guareschi, il contadino di Wolkys che mostra subito di avere idee chiare: «Wolkys, sporca città. E sporco chi non è del mio parere».

Nella favola, come nella vita, un problema si può rivelare una soluzione, un guasto al motore si può rivelare un acquerello che dal salotto della città ti riporta in campagna. Come accade al narratore/Giovannino, che si ritrova su un furgone scassato in compagnia di un campagnolo burbero e un frigorifero adagiato sulla paglia, una sorta di maiale tecnologico di cui non si dovrebbe buttare niente.

Il contadino al volante rompe il silenzio per primo:
– Wolkys, sporca città, abitata da un milione trecentosettantasettemila quattrocentoventi disgraziati, più quattro persone normali: io, mia moglie, mio figlio e il figlio di mio figlio.
Dovette accorgersi di non aver chiarito a sufficienza la situazione familiare perché aggiunse:
– La moglie di mio figlio fa parte del milione trecentosettantasettemila quattrocentoventi disgraziati. Anche lei si è resa conto di non poter più vivere senza quella porcheria.

Dice “porcheria” riferendosi col pollice al frigo nel cassone. Il pezzo di pregiato progresso made in USA – a quei tempi i problemi si fabbricavano ancora in casa – che sobbalza sotto al cielo del vecchio Michigan è stato comprato fresco fresco quella mattina a Dryburg, duecento miglia di andata e altrettante di ritorno, perché si spende magari qualcosa di più, ma almeno non si danno soldi alla gentaglia di Wolkys.

Perché «Wolkys era un paradiso e quei disgraziati hanno trasformato la città in un inferno di cemento, d’asfalto, di macchine, di fili elettrici, di tubature. Non vedono che i dollari». Commenta sconsolato il contadino americano.

«Da noi non pensano ai dollari, ma alle lire, e stanno rovinando tutto. Il Progresso uccide la civiltà», conferma l’ospite/contadino italiano.

Certo, tutto il mondo è paese, ma non tutti i sindaci sono Peppone. A Wolkys, per esempio, hanno il progresso vero, capitalistico, imprenditoriale. Quasi brianzolo. Se in più ci mettono la laurea, allora è proprio finita. Nel 1906 viene eletto sindaco l’architetto Perkinson, un genio urbanistico. Il sindaco Perkinson è il prototipo di quelle persone che andavano ostracizzate quando ancora avevamo gli ostraka nei pollai. Oggi non abbiamo più neanche il pollaio. Hanno la visione, hanno le conoscenze, hanno il credito economico degli amici banchieri e quello fiduciario della bella gente. In entrambi i casi, gli interessi li paga la gente normale.

Per farla breve, l’architetto suddivide la città in una scacchiera d’asfalto e cemento, con al centro la Città del Sole, le strade, gli edifici (scatoloni tutti uguali) ordinati con riferimento astrologico d’uopo. Tutti gli scienziati sulla cresta dell’onda credono agli oroscopi. Ma, in questa astrologica Utopia yankee style, qualcosa ha inceppato il calendario del sindaco, della fattucchiera e del cantiere.

Il visitatore italiano scopre dunque che la cittadina perfetta ha sì il monumento più bello del mondo, ma scopre anche che da questa meraviglia non è scaturita la politica illuminata del sindaco architetto. Va oltre il bronzo e l’acciaio, va perfino oltre il calcestruzzo. Anzi, viene prima. Sta dietro una siepe.

Il monumento più bello del mondo è dietro il frascame, per chi riesce a sbirciarvi. Si chiama Tom Gorth, ha cinquantacinque anni e vive in una casetta. «Il suo bisnonno comprò quel pezzo di terra nel 1856 e ci seppellì dentro tutta la vita per renderlo produttivo. Ci riuscì, e cinquant’anni dopo, quando, nel 1906, vennero a dirgli se voleva vendere la sua terra come area fabbricabile li cacciò via in malo modo». Fecero altrettanto col figlio e con il figlio di suo figlio, Tom, per l’appunto, l’uomo che considera il frigorifero una “porcheria”.

Il riquadro in cui vive Tom Gorth è l’unico che non risponde ai criteri di quella immensa porcheria che è la Città del Sole, proprio al centro della città di Wolkys. Sono cinque ettari e mezzo di terra fertilissima. Dopo tutto «L’estetica di un campo di grano è molto migliore di quella di un baraccone di cemento armato». L’opera d’arte della natura vivente è un acquerello dal punto di vista di Dio.

Tom Gorth, ora, se ne sta sotto il portichetto di casa. Tranquillo e certo di aver agito bene quando ha rifiutato di cedere la sua terra agli architetti del Progresso neppure ventisei milioni di dollari, diciassette miliardi di vecchie lire. Se ne conterebbero probabilmente molti di più in nuovi euro, con le accise del Progresso e tutta la baracca della finanza da mantenere.

Sembra di sentirlo, il vecchio Tom, “take a seat”, come se fosse nel Vecchio Sud. A tavola parla con il suo ospite di terra e di raccolti. Delle cose importanti, insomma. Ovvero delle cinquanta sfumature di metafisica, che si devono riconoscere durante una vita intera di schiena a pezzi, di manici lisciati dai calli e dal tempo galantuomo.

Finché a un certo punto il discorso piega dal piano gnoseologico a quello teologico, un campo in cui i contadini di tutto il mondo e di tutti i paesi sono imbattibili, quasi quanto il campo meteorologico e quello che hanno sotto le scarpe.

«Il ghiaccio ci vuole, altrimenti il Padreterno non lo avrebbe creato», sostiene l’italiano, e ne ha motivo diremmo. «Però il Padreterno il ghiaccio non lo fa a macchina», sentenzia Tom con un incedere analitico, diremmo adamantino. Perché il ghiaccio è un fatto normale, il frigo è un fatto da disgraziati. Quando dall’uscio entra il Progresso, che oggi chiamiamo Scienza, dalla finestra esce la Grazia. E la casa diventa un inferno.

La favola, naturalmente, ha una sua morale: «Il grano biondeggiava in un campetto lì vicino, e colsi una spiga: – questa è per me, voglio portarmi a casa qualcosa di veramente bello, dall’America», dice il visitatore italiano. «Tutto attorno, era il cemento rovente del Progresso e l’orrendo lindore della Città del Sole artificiale». Al centro di tutto, sotto il suo portichetto, restava come uno zenith Tom Groth. Era L’uomo più ricco del mondo.

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