Macron (a parole) si è pentito. E i macronisti italiani? – di Mario Bozzi Sentieri

Mentre Emmanuel Macron, è stato costretto a chiedere scusa, in Tv, ai francesi, rimangiandosi (a parole) parte delle sue scelte economiche, che fine hanno fatto i macronisti all’italiana, che, poco più di un anno fa, ne tessevano le lodi, immaginando le sorti (progressive…) del fenomeno a livello europeo?  Basta sfogliare i giornali del maggio 2017 per raccogliere, fior da fiore, una cascata di celebrazioni a dir poco pompieristiche.

“Questa del 7 maggio 2017 resterà una notte storica – concludeva il suo pezzo Aldo Cazzullo, sul “Corriere della sera” – perché ha dimostrato che l’Europa, in fondo esiste, crede in se stessa, passa la fiaccola alle nuove generazioni; e ha ancora una chance per evitare l’autodistruzione”. Mario Calabresi, direttore de “la Repubblica”, con un occhio all’Italia, dava la linea: “Fare politica ad occhi chiusi significa pensare che gli europei e gli italiani siano tutti contro l’Europa, siano tutti terrorizzati dai migranti, siano tutti per politiche ‘legge e ordine’ e vogliano il porto d’armi per sparare liberamente la notte. L’elezione di Macron ci mostra invece che bisogna avere il coraggio di proporre con convinzione una visione diversa, che è inutile per la sinistra italiana rincorrere i populisti (togliere la bandiera europea per metterne sei italiane), perché quella parte del campo è già sufficientemente affollata e soprattutto perché i cittadini diffidano delle imitazioni. Meglio essere se stessi”. Rassicurante l’analisi di Mario Ajello (“Il Messaggero”) che la buttava in filosofia: “Il Ciclone Emmanuel è quello che per ora ha rimesso a posto gli schemi. I francesi, che sembravano essere diventati passionali, si scoprono invece razionali, secondo la loro tradizione che viene dall’illuminismo”.

Anche Silvio Berlusconi c’era cascato, giudicando il neopresidente francese un “brillante tecnocrate”, innovatore dello stile e del linguaggio della sinistra, mentre il Pd sarebbe sempre in ritardo sui tempi; ancora qualche mese fa, con encomiabile autolesionismo, ha continuato a guardare al fondatore di En Marche come ad un possibile leader di un’“alleanza vasta”, in grado di andare da Tsipras allo stesso Macron. Tutto questo malgrado i risultati, i sondaggi in caduta libera e le prime avvisaglie di una protesta, che poi è dilagata.

Che cosa fosse in realtà e già in partenza questo giovane virgulto della sinistra europea (subito salutato come il “nuovo Renzi”) era ben evidente nel suo percorso professionale e culturale: dall’Ecole Nationale d’Administration al suo passaggio alla Banca Rothschild (in grado di accreditarlo presso una destra liberale e globalista); dalla sua aura intellettuale, per essere stato il segretario del filosofo Paul Ricoeur, teorico di un umanismo e di un personalismo progressista, al ruolo di draconiano ministro dell’economia nel secondo Governo Valls;  dal suo antinovecentismo (con il distacco dai ceti intermedi) al suo caratteriale (e un po’ cinico) disincanto. Un mix perfetto per questa idea, tutta francese, di repubblicanesimo monarchico, che quando non ha solide basi popolari e un vero consenso elettorale (l’elezione di Macron – non dimentichiamolo – è stata segnata dal record di astensioni e di schede bianche) è però un invito alla rivolta di piazza.

Tutto questo l’inossidabile intellighenzia italiana non l’ha neppure paventato, trovandosi – dopo la retorica della celebrazione – a contemplare le macerie del suo ennesimo sogno infranto, mentre l’illusione illuminista, tecnocratica, eurocentrica, globalista e progressista lasciava il campo alla cruda realtà di un lumpenproletariat, un “proletariato cencioso”, escluso dagli orizzonti della sinistra macronista, in Francia e anche in Italia, ma con cui è inderogabile fare i conti.

 

 

 

 

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