È passato un secolo (1919-2019) dalla pubblicazione di quel memorabile libro di Marino Moretti, Poesie 1905-1914, e sono trascorsi quarant’anni dal giorno (6 luglio 1979) nel quale il poeta di Cesenatico morì.

Era arrivato fino al capolinea della vita nella quiete della sua Cesenatico, circondato dall’amore della sorella Ines, dall’affetto e dalla stima di un mondo letterario che, oltre alla… letteratura, aveva un’anima e un cuore: don Francesco Fuschini, scrittore, don Giovanni Zanella, musicista, inseparabili amici “pretini” di Ravenna, e poi Giuseppe Longo, Geno Pampaloni, Massimo Grillandi, Carlo Betocchi, Alberto Frasson, Giuseppe Prezzolini, Ezio Raimondi, Claudio Marabini, Walter Della Monica (per fare un po’ di nomi) e, beninteso, lo staff della Mondadori, casa editrice storica di Marino.

Se ne andava in quel caldo giorno estivo del 1979 l’ultimo dei “crepuscolari”, aggettivo col quale si intende genericamente indicare poeti quali Gozzano, Govoni, Corazzini, Aldo Palazzeschi, ma che per la prima volta venne inventato e usato da Giuseppe Antonio Borgese a proposito proprio della poetica di Marino Moretti. Che in quel lontano 1914 aveva cessato, momentaneamente, di poetare, per dedicarsi alla prosa: novelle, romanzi, memorialistica.

E, fra liriche e narrazioni, ecco, più tardi, un’altra definizione che reca la firma di un eccellente critico oggi dimenticato, quale Francesco Casnati: “il laico della misericordia”, emblematica definizione che noi, nel nostro piccolo, trovammo veramente attagliata sia per le poesie (soprattutto le ultime), sia per due emblematici romanzi: La vedova Fioravanti, I puri di cuore. La vedova Fioravanti fu letta in anteprima da don Giuseppe De Luca, autorità massima nel campo delle patrie “lettere cattoliche” e profondo conoscitore (a sua volta conosciuto e stimatissimo da tanti laici) anche della cultura in partibus infidelium, per così dire.

Quella prima produzione poetica morettiana, dalle liriche di Fraternità al classico Poesie scritte col lapis fino al Giardino dei frutti e poi a seguire altre raccolte, erano maturate nella giovinezza di Marino nella natìa Cesenatico e poi fra Ravenna e Firenze, e ancora Cesenatico, luogo del sempre felice ritorno dai temporanei soggiorni soprattutto romani e parigini, del Nostro.

Finché si giunse a un momento in cui i giorni di Marino (e ci riferiamo ovviamente al secondo dopoguerra) si dipanarono quasi completamente fra la natìa dimora in riva all’Adriatico e il “quartierino” che aveva acquistato a Firenze in quel di “Santa Felicita” dove aveva avuto coinquilina, poi dirimpettaia, al di là della piazzetta, Dolores, la prima moglie di Prezzolini, e successivamente il tenore Mirto Picchi.

A Firenze, Marino e Ines (rimasta vedova era andata ad abitare con l’amato fratello) conducevano una vita appartata, pur non disdegnando serate teatrali, conferenze, corsi di cultura italiana in istituzioni riservate agli stranieri, come nel caso di una lezione tenuta da chi scrive all’Eurocentro della professoressa Mastrelli su “Prezzolini e la Voce”, presenti anche, fra gli invitati, il figlio dello scrittore quasi centenario, Giuliano, Nicola e Margherita Lisi, la pittrice Isabella Vezzani, le sorelle Detti, una delle quali, Emma, aveva tradotto per Vallecchi, col titolo L’Italia finisce ecco quel che resta, il libro apparso (scritto direttamente in inglese) a New York: The Legacy of Italy (L’eredità dell’Italia).

Un inciso. Giuseppe Prezzolini stimava molto Marino, e si rammaricava (testimone chi scrive) di non averne trattato abbastanza… troppo poco nei suoi interventi letterari.

Marino, dunque, un classico del Novecento, è una presenza a Cesenatico, di Cesenatico, dove veramente è considerato “profeta in patria”, non foss’altro che per quella realtà materiale e ideale insieme rappresentata dalla antica casa sul porto canale, lasciata al Comune e che il Comune tutela attraverso anche la costante, sollecita, appassionata studiosa Manuela Ricci.

E “Casa Moretti” ha un comitato scientifico di professori universitari promotore di convegni, incontri, nonché di un premio biennale. L’ultima iniziativa in ordine di tempo è la riedizione (fresca di stampa) di quel Poesie 1905-1914 (La nave di Teseo editore; pagine 285, euro 25,00) a cura del noto filologo, e componente del citato comitato scientifico, Renzo Cremante, docente universitario in Italia e all’estero, i cui campi di indagine spaziano dal Rinascimento alla contemporaneità, dal Settecento alla “teoria e analisi del racconto poliziesco”. Si deve allo stesso Cremante lo scritto introduttivo al volume: “Per una storia esterna di Poesie 1905-1914”, che un secolo fa aveva visto la luce per i tipi di Treves, casa editrice di alto livello.

Perché davvero, Marino, con quest’opera regala al lettore una visione semplice e malinconica della vita, fatta di cose senza tempo, di personaggi che si sfaldano e si sciupano, ma che non smettono di ribellarsi. Con una lingua modernissima, quasi sussurrata, Moretti crea nei suoi versi il ritratto di una provincia, quella romagnola, che diventa mondo: un mondo dove una natura uggiosa e ieratica, immutabile e indifferente, cede la scena a interni in cui gli elementi tradizionali si caricano di inediti valori simbolici di purezza, di novità”.

Le liriche che si leggono (o rileggono) in questo volume confermano l’ariosità, la freschezza di pagine lontane negli anni, ma assolutamente godibili anche di questi tempi non tanto (ci pare) favorevoli alla Poesia con l’iniziale maiuscola.

E questa rilettura riporta chi scrive a quel luglio di mezzo secolo fa in cui, fresco di “promozione” all’esame professionale di giornalismo, in vacanza nella natìa Ravenna, invitati il “direttore” Giuseppe Longo e gli amici preti Fuschini e Zanella a tavola dal mitico Zanni in quel di Villa Verucchio, concluso il pranzo ebbe a sua volta un invito: “andiamo a trovare Marino a Cesenatico”. Era un pomeriggio afoso, ma nel giardino di “suor Filomena” (così il poeta aveva nomato la mamma), tutto in ombra, respirava un venticello ristoratore portato dal mare.

Con Marino, c’erano Ines e la fedelissima Tonina, più che donna di servizio, vera figura di casa, di famiglia, come ce n’erano un tempo. E ogni tanto emergeva dalla verzura Cunegonda, il tortuco che sarebbe a lungo sopravvissuta al padrone di casa – morì infatti a 150 anni!

Ma questa, dell’amicizia con Marino e Ines, con Longo e con i due “pretini” è, come avrebbe detto Kipling, un’altra storia. Dove ci sono di mezzo la Romagna, il sentimento di questa terra, gli affetti, la stima, e, oltre alla letteratura, il giornalismo, quel giornalismo che negli ultimi tempi, Marino definiva “volgare”. Fosse vivo oggi, che direbbe?

3 commenti su “Marino Moretti, quando c’era Poesia”

  1. Atmosfere perdute, caro Lugaresi, ormai lontane anni luce. La neve, le lucciole, la mamma in cucina, il paiolo e i suoi profumi e l’acquaio e i tegami smaltati bianchi e blu, tutto passato, relegato in qualche angolo nascosto, credo per non tornare mai più. Un poeta apprezzato Moretti, che circolava anche nelle elementari di tanti anni fa. Ricordo bene il suo nome in fondo alle poesie che la nostra maestra ci proponeva; a pensarci, erano lo specchio di una vita vissuta godendo e soffrendo di ogni cosa, nella realtà vera dell’esistenza, senza bisogno di fronzoli o di stramberie. Tanto diversamente dal mondo di oggi dove si va avanti negli anni, però spesso senza vivere, trascinati come siamo da un vortice che ci ruba i giorni, persino certi attimi che darebbero senso e significato alla nostra umanità a cui non pensiamo più, convinti come ci hanno fatto diventare, che l’essenziale sia stare al passo coi tempi, altrimenti si è “fuori”, come si.usa dire. Dovremmo riappropiarci della vita vera e camminare davvero coi piedi per terra e non farci irretire dal mondo virtuale che ci inganna illudendoci di possedere il mondo, quando invece ci isola da tutto e da tutti e sopratutto ci allontana da noi stessi.

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