Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Hans Kung e il suicidio assistito – di Carla D’Agostino Ungaretti

di Carla D’Agostino Ungaretti

TORELLO LATINI CONSEGNA IL PREMIO LATINI AL REGISTA CARLO LIZZANIE’ inequivocabile che viviamo in un periodo di profonda confusione antropologica, umana, morale, politica, sociale. Le leggi pendenti nel Parlamento italiano – che si affretta sempre a ricalcare pedissequamente le impronte lasciate dai Parlamenti europei e americano anche quando rasentano il ridicolo, come nel caso del matrimonio tra gay – sembrano fatte apposta per diffondere e rendere sempre più spessa la coltre di incertezza esistenziale che ormai ricopre tutti, compresi coloro (come i cattolici) che credono fermamente nei valori incarnati nel diritto naturale e ritenuti perciò non negoziabili, il più importante dei quali, NON UCCIDERE, sembra subire oggi un pericoloso svuotamento di significato.

      Io, cattolica “bambina” legata a filo doppio a quei valori, sono rimasta profondamente turbata e rattristata alla notizia del suicidio di Carlo Lizzani, come lo fui a suo tempo per il suicidio di Mario Monicelli. Mi addolora che, arrivati ai 90 anni, due artisti e intellettuali della loro levatura non siano riusciti a trovare, nella loro esperienza di vita e nel fondo della loro coscienza, quel minimo barlume di sospetto che forse esiste  un Dio buono e provvidente che non rifiuta a nessuno la sua Grazia. Basta soltanto che l’uomo, con un atto di libera volontà, Gli apra un piccolo spiraglio e se trova la forza di dire : “Mi metto nelle Tue mani, sia fatta la Tua volontà”, allora i guai derivanti dall’età, dalla malattia, dalla disperazione esistenziale si ridimensionano enormemente e si va avanti.

        Ma questo atteggiamento di abbandono e accettazione presuppone umiltà,  riconoscimento dei propri limiti, profonda convinzione che la vita umana (anche la più infelice) abbia un “senso“, virtù  che oggigiorno non trovano più credito, perché il “mondo” le reputa piuttosto “difetti” e le disprezza. In un mondo in cui contano soltanto la bellezza, la gioventù, la prestanza fisica, la salute e in cui l’uomo è completamente autoreferenziale, la vecchiaia sconvolge e disturba perché si diventa brutti, deboli, spesso malati bisognosi di assistenza e i giovani non hanno né tempo né voglia di occuparsi di chi è nato prima di loro. Si è persa la certezza che la vita umana, anche nella vecchiaia estrema, meriti sempre di essere vissuta, e allora si parla di eutanasia, di suicidio assistito e si cerca di contrabbandare come diritto umano una  scelta che, invece, è altamente disumana perché trasgredisce, prima ancora che il V Comandamento dato da Dio a Mosè  sul Monte Sinai, quella legge morale innata nella coscienza dell’uomo di ogni tempo e di ogni paese.

       Molti commentatori dei due tristi eventi, tra i quali gli stessi figli dei due registi, hanno deplorato che i loro padri non abbiano potuto servirsi del suicidio assistito (ottima occasione per stigmatizzare l’inciviltà dell’ordinamento italiano rispetto a quello della maggior parte, e più illuminata, del mondo) il che mi ha stupito facendomi pensare che alcune correnti di opinione – evidentemente condivise da loro – approfittano di ogni occasione per portare avanti la loro disumana ideologia.

        Monicelli e Lizzani a quanto pare erano stanchi della vita, non accettavano la loro vecchiaia e non si rassegnavano alle inevitabili limitazioni imposte dalla loro età così avanzata. Tuttavia, erano ancora lucidissimi e relativamente agili nel loro fisico (condizioni che molte persone più giovani avrebbero sicuramente invidiato loro) tanto è vero che sono stati capaci di scavalcare da soli il davanzale di una finestra o la ringhiera di un terrazzo (cosa che, ripeto, già a 60 anni molti non possono più fare) per lanciarsi nel vuoto. Non intendo certo giudicarli per questa loro scelta tristissima, perché il loro grado di responsabilità morale lo decide solo Dio, ma perché nel loro caso si sarebbe dovuto praticare il suicidio assistito?

        Essi hanno fatto una scelta – deplorevole dal punto di vista cristiano, ma perfettamente lecita e rispettabile secondo la mentalità laica e forse anche coerente con la loro visione del mondo – e, avendo la capacità fisica di metterla in pratica, l’hanno attuata. Il suicida che agisce da solo compie un gesto esclusivamente personale,  che non coinvolge il resto del mondo se non dal punto di vista affettivo o emozionale, perché in genere procura un dolore a chi lo amava. Invece nel momento in cui si fa aiutare da altri a morire, egli non è più solo nella sua decisione, ma coinvolge familiari, amici, medici, infermieri, farmacisti, a seconda delle persone scelte per la bisogna. E perché costoro dovrebbero considerarsi obbligati ad assecondare quella volontà di morte,  caricandosi quindi la coscienza di quello che molti considererebbero ancora un omicidio?  Perché dovrebbe essere possibile legittimare l’uccisione di un essere umano anche se è lui che lo chiede per motivi esclusivamente personali, esistenziali, filosofici o di salute?

       “E’ così difficile pensare che la solidarietà sia anche aiutare chi voglia uscire da una vita diventata un calvario fisico e psicologico?” si è domandato Corrado Augias[1]. Sì, è difficile pensarlo, secondo me, perché giudico umanamente preferibile offrire questa solidarietà  a chi ne ha bisogno per continuare a vivere piuttosto che per morire. L’ottica laica invece è profondamente egoista, perché rifiuta di prestare aiuto psicologico, affettivo, esistenziale , sociale a chi, raggiunta la quarta o anche la quinta età, ha visto svanire le capacità e le forze della gioventù e per questo si sente, a torto, umiliato,  ma non rifiuta affatto di aiutarlo a morire ed anzi spesso quasi lo incoraggia istituendo, come è avvenuto in Svizzera, apposite cliniche  per gli aspiranti morituri.

      Da principio vedevo una strana incoerenza in questa posizione radical – laicista, ma poi ho capito che invece essa è perfettamente coerente con la mentalità del mondo.  Chi vuole suicidarsi spesso è costretto a farlo in maniera poco “elegante”, lanciandosi nel vuoto, come hanno fatto Monicelli e Lizzani, o in qualche altra maniera altrettanto cruenta, turbando la delicata sensibilità di chi ha la sfortuna di assistere all’evento o di ritrovare la salma perciò, sempre secondo la mentalità laicista, è preferibile lasciare questo compito ai medici di famiglia, abolendo il diritto all’obiezione di coscienza, e alle cliniche private e pubbliche che svolgeranno il loro compito in maniera asettica e “pulita”, consentendo al resto del mondo di voltarsi tranquillamente dall’altra parte, come fece Lucio Magri.

        Questa opinione, decisamente anticristiana, è condivisa anche da un teologo che in passato ammiravo molto (ora non più) per la sua grande dottrina e per la chiarezza della sua scrittura, Hans Kung il quale , però, a causa delle posizioni dottrinarie assunte negli ultimi decenni, non può più definirsi un teologo cattolico[2]. Il professore di Tubinga, giunto a 85 anni, è affetto da tempo del morbo di Parkinson e “non voglio sopravvivere come una larva di me stesso” scrive nelle sue memorie.  “Mettere in scena la mia morte” continua, con uno stile, a mio giudizio, un po’ troppo teatrale “sarà la mia ultima protesta contro la burocrazia del Vaticano”. Kung sa di essere destinato alla cecità e non accetta la sua condizione. “E’ stato uno shock” confessa “Uno studioso che non può né leggere né scrivere? Che cosa fare?”

       “Può pregare, e mettersi nelle mani di Dio e della Sua Santa Madre“, gli risponde sommessamente una cattolica “bambina“, ma sembra che la possibilità della preghiera sia estranea alla mente del dottissimo teologo che il troppo studio del problema di Dio – condotto tutto sul versante della razionalità, ma lontano dal cuore – ha fatto cadere nel peccato di Lucifero, la superbia. Infatti egli progetta, quando sarà il momento, di rivolgersi all’organizzazione svizzera che procura “la buona morte” in modo scientifico.

          Che sia un uomo di Dio a pensarla così mi raggela: che ci sia qualcuno che pensi di protestare in questo modo contro i “soprusi” del Vaticano mi richiama alla mente il grido che, secondo l’antica Tradizione, proprio Lucifero lanciò al suo Creatore: “Non serviam!”. Il diavolo ha avuto dei volenterosi e obbedienti allievi ai quali ha dato l’incarico di mettere in pratica l’etimologia greca del suo nome (dià – ballo = getto in mezzo, divido) e cioè, come dicevo all’inizio, dividere e gettare il dubbio e la confusione nella fede nel popolo di Dio.



[1] Cfr. LA REPUBBLICA, 9.10.2013, pag. 28.

[2] Cfr. ItaliaOggi, 8.10.2013, pag. 14.

2 commenti su “Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Hans Kung e il suicidio assistito – di Carla D’Agostino Ungaretti”

  1. stupendo scritto! e dimostrazione che il fumo di satana (l’odio contro la vita e i disprezzo del Creatore) è entrato anche nella mente di un protagonista del Vaticano 2. complimenti alla amabile autrice! piero vassallo.

  2. Oltrechè il disprezzo alla vita per un protagonista del Concilio Vat.II, si è aggiunto in modalità più sottile, ma non meno insidiosa pure la “rinuncia” sempre per cause inerenti la salute e la vecchiaia, in un altro protagonista del Concilio Vat.II !
    Forse che questi due esempi emblematici di figure carismatiche, ppssono indicare ai lettori la gravità di quanto uscito da quel Concilio ?
    Se due figure eminenti trovano due soluzioni se pur differenti,bensì unite dal sottile filo del “non servirò” forse qualche distorsione pesante c’è in quel Concilio.
    Se , nel sunto della vita, due personaggi applicano, coerentemente così, i loro suggerimenti nel Concilio, ahinoi !
    Qualcosa di sbagliato, ma di profondamente sbagliato, ne è uscito !
    De Mattei ne ha parlato, mons Gherardini pure ne ha parlato, ma i frutti si vedono pure, a mio parere, anche nei fedeli “servitori” di quel Concilio, che lo confermano sano ad ogni frase, lo ribadiscono fino a beatificare, mistificando le regole secolari, personaggi artefici della rovina post-concilio.

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