Nello scrigno segreto del C’era una volta… – rubrica quindicinale di fiabe, curata e illustrata da Elena Manetti

Parte seconda: le fiabe regionali del Piemonte

Giudicare le anime delle persone non è mai una cosa buona e non rientra nei principi morali e, soprattutto spirituali. Giudicare l’anima delle persone non è e non potrà mai essere una virtù.

Cari bambini, a volte le critiche fatte nei confronti di una persona, risultano esatte?  Sì, ma questo non significa niente, perché il nostro giudizio si può basare unicamente sui gesti della persona in questione e ci è impossibile vedere cosa c’è nel profondo della sua anima, solo Dio Onnipotente lo può sapere. Forse le azioni che compie sono meschine e/o orribili, ma questo non significa debba per forza essere un povero di spirito e un duro di cuore. Un bell’esempio è l’uomo di cui narra questa leggenda.

 

In paese quell’uomo grande e grosso, con la sua barba nera come il carbone e gli occhi che ti trafiggevano, era guardato con diffidenza, e anche con paura, ma per lui tutto andava per il verso buono: egli, da un’estensione di terreno arido, dove neppure l’erba ci cresceva, era riuscito a cavare in pochi anni una delle più fertili terre della regione.

Vero è che aveva faticato e lottato, sì, con un’energia che gli altri non avevano. Quel pezzo di terra tanto sterile, il padrone glielo aveva dato in affitto per pochi quattrini pensando: “Anche tu te ne stancherai presto, come gli altri”.

E invece l’uomo ci ricavò i raccolti più opulenti. La brina non gli rovinava mai la fioritura della frutta, l’acqua eccessiva non gli faceva mai danno, gli insetti non gli mandavano mai a male il raccolto. Insomma la gente, che è maligna e invidiosa, andava mormorando che quell’uomo doveva aver fatto un patto col diavolo, ed era inutile che egli protestasse, dicendo ch’era nella sue mani e nella sua fatica il segreto di tutta quella prosperità!

Ma il segreto vero venne fuori una volta per caso: si doveva celebrare, il giorno dopo, la festa grande per il paese, ed in chiesa erano tutti costernati, perché non erano ancora arrivati certi pacchi di roba che il prevosto aveva ordinato in città qualche giorno prima: tutto necessario per rendere solenne l’apparato della chiesa. S’era atteso con fiducia proprio fino alla sera della vigilia, ma purtroppo niente era stato recapitato, e così la festa rischiava di risultare assai meschina.

Per andare in città ci volevano parecchie ore di cavallo, e i cavalli disponibili non ce n’erano. Finalmente al sagrestano venne in mente l’uomo che aveva fatto miracoli in quella terra arida e sterile: era così attivo e infaticabile che forse l’avrebbe trovato lui il rimedio: a piedi per andare in città ci volevano ben più di quella decina di ore che restavano ancora prima dell’inizio della festa in chiesa, ma forse, chissà, lui ce l’avrebbe fatta.

Un po’ di scrupolo l’avevano, il prete e il sagrestano, perché quell’uomo pareva sospetto, ma lo scopo era buono e lo chiamarono:

«Ti sentiresti di andare a prendere certi pacchi in città ed essere qui di ritorno per domattina all’alba? Con l’aiuto di Dio, s’intende, forse ce la faresti, mentre questi altri zoticoni ci metterebbero troppo tempo.»

L’uomo non dice né sì, né no; solo chiede se è sufficiente uno solo per portare quei pacchi e dove andarli a prendere; avuta la risposta se ne va, promettendo che farà il possibile per accontentare il parroco.

Intanto viene la sera, e il prete va a dormire un poco, perché il giorno seguente avrà molto da fare; ma ecco che a mezzanotte sente battere la porta. Il sagrestano scende ad aprire e vede quell’uomo. Ha indosso i vestiti abituali, quelli di quando va per i boschi.

«Perbacco!» lo investe malamente il sagrestano «Se non ci volete andare, dovevate dircelo subito.»

«Ecco i vostri pacchi.» ribatte l’altro, e sorride con un sorriso che gli fa sgranare i denti bianchi in mezzo alla barba nera.

Anche il prete scende, guarda, trasecola: svolgono i pacchi e trovano proprio quello che aspettavano. Il prevosto medita un istante, poi afferra il Crocifisso e brandendolo in alto affronta l’uomo con tono concitato: «In nome di Dio, confessa con quali arti hai potuto ottenere quello che non è possibile all’umana potenza, confessa, confessa!»

L’altro tremava, torceva il viso, si metteva le palme agli occhi, protestava: «Niente ho, cosa volete che confessi?…»

Ma il prete non abbandonava la preda, e quando si passò al collo la stola e venne, portata dal sacramento, l’acqua benedetta, quell’uomo si gettò a terra mugolando e dibattendosi come un indemoniato. Si torceva, piangeva; poi alla fine si strappò dal petto un libretto e lo scagliò entro le fiamme del fuoco ch’era ancora acceso: bisognava vederle le fiamme che ne vennero fuori e i fischi e gli schiocchi da legna verde!

Dopo che si fu rimesso alquanto, l’uomo confessò quello che gli era capitato quando era ancora un poveretto.

«Lavoravo a giornata» si mise a dire «da un contadino, quando mi si presentò una vecchia che non avevo mai visto. Si fermò con me a fare quattro chiacchere, ed io, che ero stanco di quella vita di fatica e di miseria, mi confidai con lei; quella mi confortò a sperare e mi mostrò quel libretto che ho buttato or ora nel fuoco. Mi disse ch’era il libro del comando e m’insegnò il modo di usarlo. Qualunque cosa desiderassi, il libro me l’avrebbe fatta conseguire: esso conteneva una serie di formule magiche, e la vecchia me le spiegò una per una. Giunta all’ultima pagina, quella strega fregò col dito le ultime righe che si misero a scintillare come il fuoco, poi mi passò le sue dita sulla fronte e svanì senza che io potessi dire una parola.»

L’uomo parlava e piangeva: pareva pentito e contrito. Aggiunse a sua discolpa che nel libro c’erano le formule per far male ai cristiani ed anche per farli morire, ma che lui non ne aveva mai fatto uso. Il libro del comando gli era servito soltanto per rendere fertile la terra.

E pensare che, proprio quand’egli gettava il libro nel fuoco, tutta quella bella terra coperta di messi e verdeggiante, ritornò come per incanto brulla, arida e deserta com’era prima!

Il pover’uomo ebbe tanto dolore e spavento che morì e di lui rimase in paese un ricordo pauroso.

4 commenti su “Nello scrigno segreto del C’era una volta… – rubrica quindicinale di fiabe, curata e illustrata da Elena Manetti”

  1. Gianfranco Monaca

    non capisco quale sia lo scopo educativo che si prefigge questo racconto destinato ai ragazzi (peraltro ben scritto)

  2. Gianfranco Monaca

    io credo che i giovani debbano essere educati alla fiducia non alla paura. Questo genere di racconti era fatto apposta per insegnare il terrore.

    1. Mi permetta di non essere d’accordo con lei. Quasi tutte le favole tradizionali, generano paura, che evoca in colui che ascolta, nel bambino, una sana conoscenza dei pericoli che ci sono nella vita reale. Inoltre sempre, insieme al personaggio negativo, nelle favole si incontra il personaggio buono, principe, fata, cacciatore etc, che inspira la fiducia, come lei definisce il sentimento positivo che la favola deve inspirare. nella favola tradizionale, che inspira paura, il bene sempre trionfa. Inoltre togliendo dalle favole la componente paura, facciamo si che i giovani non siano realmente preparati alla vita reale che poi dovranno incontrare. I risultati di questa educazione infantilmente iperprotettiva, purtroppo, sono sotto i nostri occhi tutti i giorni. La depressione é la malattia del nostro tempo, e le ragioni profonde di questa epidemia si trovano semplicemente nel suo commento. La invito ad ascoltare la conferenza della dott.Silvana De Mari Fantasy & Fiabe reperibile su you tube.
      La saluto.
      Massimo Scalsi

      1. gianfranco Monaca

        Ho parlato di terrore. La paura è funzionale alla prudenza, cioè alla responsabilizzazione, il terrore è paralizzante e nel caso della fiaba in oggetto non c’è via di scampo (l’esorcismo è un atto di magia del tutto estraneo alla responsabilità del protagonista. Conosco molte fiabe di questo genere che risalgono al sec XVII (il secolo della caccia alle streghe) e sono tutte finalizzate a deresponsabilizzare le persone per assuefarle in modo subliminale all’eterodirezione (psicologica, morale, politica, culturale). Grazie per l’attenzione.

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