Nicolás Gómez Dávila: ombre sacre sulle colline dell’eternità

I Vangeli e il Manifesto del partito comunista sbiadiscono: il futuro del mondo appartiene alla Coca Cola e alla pornografia.

Gli esiti nichilistici del rachitismo morale e intellettuale dei nostri tempi non potrebbero essere sintetizzati in modo più magistrale. Questo perché “Il progressista trionfa sempre, il reazionario ha sempre ragione”“in politica avere ragione non consiste nell’occupare la scena, ma nell’annunciare fin dal primo atto i cadaveri del quinto”.

Sentenze inappellabili dello scrittore antimodernista colombiano Nicolás Gómez Dávila, ancora oggi “ilustre desconocido” sia in Europa che in America. “Luminescente e scandalosamente trascurata è l’opera di Nicolás Gómez Dávila… i cui irresistibili aforismi presentano… assonanze stilistiche con la grande tradizione dei moralisti francesi da Montagne a Pascal… Qualche tagliente proposizione evoca persino… l’immagine di un Nietzsche colombiano” (Franco Volpi, Un angelo prigioniero nel tempo).

Pensatore reazionario, aristocratico dello spirito, rimasto a lungo ignorato e scoperto in Italia dall’editore Adelphi solo una ventina di anni fa, Gómez Dávila è autore di una fra le più singolari e neglette opere del XX secolo: un’imponente raccolta (cinque tomi) di aforismi dal titolo Escolios a un texto implícito, apparsa quasi clandestinamente nel 1977. In Europa le prime traduzioni avvengono in Austria e in Germania solo verso la fine degli anni ’80, suscitando scarso interesse. In Italia il primo volume compare nel 2001 nella Piccola biblioteca Adelphi col titolo In margine ad un testo implicito, seguito nel 2007 da una seconda edizione intitolata “Tra poche parole”. Più recentemente, l’editrice Ar ha pubblicato la silloge Pensieri anti-moderni, mentre per l’editore Gog sono usciti due volumi di Escolios nel 2017.

“Grande scrittore è quello che intinge nell’inchiostro infernale la penna che strappa dall’ala di un arcangelo”.

“Quid est veritas? Est vir qui adest”. Il misterioso anagramma della risposta comprova la tautologia e l’inanità della domanda. Se la forma letteraria scelta da Gómez Dávila e il gusto per il paradosso fulminante e  dissacrante richiamano subito alla mente i “Sillogismi dell’amarezza” e “Lacrime e santi” di  Emil Cioran, l’affinità con lo scrittore romeno, quasi coetaneo e contemporaneo, è solo esteriore. 

L’incompatibilità tra i due è rappresentata dai modi, inconciliabili tra loro, di porsi di fronte al problema della verità. Quello di Cioran è il medesimo di Pilato. Approda quindi necessariamente a uno scetticismo nichilista  che implica la negazione di ogni reale conoscenza e di qualunque principio universale e trascendente. Per Gómez Dávila, al contrario, lo scetticismo è una forma di igiene mentale propedeutica alla riappropriazione della verità platonicamente intesa, ovvero come entità assoluta e divina, che si cala nella storia ma non è la storia ( “la verità è nella storia, ma la storia non è la verità”) e, nella sua atemporalità, esiste anche se non la riconosciamo. È la reazione più radicale possibile al modernismo, essendo sostanzialmente “il mondo moderno una sollevazione contro Platone”.

“Gómez Dávila non è politicamente scorretto, ma di più, è metafisicamente scorretto” (Marcello Veneziani). Se infatti “la verità per essere certa non ha bisogno dell’adesione dell’uomo”, i valori a essa connessi non possono, per definizione, essere mai “in crisi”.  In crisi può essere solo chi (come l’uomo moderno), avendo perso il senso della direzione (“oggi l’uomo è libero come il viandante nel deserto”), non li riconosce più. “La trascendenza non può essere il corollario di nessuna immanenza. Ma solo verticale irruzione del Divino”. Quello della “crisi dei valori” è  il primo osceno ossimoro, la prima truffa semantica della Modernità a essere smantellata.  

“La vita non è un criterio di valori, ma un fatto che i valori giudicano”.

In altre parole, per Gómez Dávila “Le verità ci sono, verità di sangue, e sono univoche, nonostante siano cresciute le schiere dei loro nemici (anche se già da due millenni Giovanni lamenta: ‘e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce’). La musica delle sfere resta, oltre ogni brusio e rumore di fondo, anche oltre il chiasso petulante della modernità” (Anna K. Valerio). A generare smarrimento non è l’oscurità della verità, è, se mai, l’eccesso di luce e di evidenza che da essa promana.

“L’intensità di luce di certe verità le rende invisibili”.

“Le verità non sono relative. Relative sono soltanto le opinioni sulla verità”.

“La verità non si può dimostrare: si può solo mostrare” perché “di ciò che ha davvero importanza non ci sono prove, ma testimoni”.  Così  “l”importante non è che l’uomo creda nell’esistenza di Dio, l’importante è che Dio esista”.

“Quella convinzione che non poggi su palafitte scettiche sprofonda”: Mentre la vis dissacratoria di Cioran  si arrotola su se stessa finendo per sgonfiarsi in un nichilismo generalizzato – “sbeffeggio Dio, la vita, tutti” (François Fejtö) – che è in ultima analisi un tributo alla cultura del sospetto degli epigoni dell’illuminismo, proprio questa cultura, in cui agonizza, nella sua demenza senile, la modernità, è il bersaglio dello scetticismo degli Escolios, di segno algebrico opposto a quello cioraniano.

L’arma dello scetticismo, strappata dalle mani dei maestri del sospetto, è rivolta contro la loro vacillante impalcatura ideologica. “In moltissimi luoghi il filosofo di Bogotá elogia esplicitamente lo scetticismo e arriva al punto di affermare: ‘sensuale, scettico e religioso, forse non sarebbe una brutta definizione di quello che sono’,  Ma in che senso scettico?… Skèpsis (in greco, n.d.a.) significa sì dubbio, ma non dubbio che s’arresta al proprio momento negativo, fermo alla negazione di ogni certezza… è proprio perché si dubita che si va alla ricerca delle ragioni che confermino la validità di ciò che è messo in dubbio” (Antonio Lombardi-Gabriele Zuppa, Nicolás Gómez Dávila e la Modernità). Lo scetticismo va inteso, secondo lo scrittore colombiano, non come “tomba” ma come  “umiltà dell’intelligenza” e fra le due facce dello scetticismo, “la faccia dogmatica che presuppone l’inaccessibilità della verità e la faccia propedeutica che rivela semplicemente la sua indimostrabilità” (Lombardi-Zuppa), Gómez Dávila sceglie la seconda. Questo fa di lui il grande maestro del sospetto sul sospetto.     

“Le frasi sono pietruzze che lo scrittore  getta nell’animo del lettore. Il diametro delle onde concentriche che esse formano dipende dalla dimensione dello stagno”.

Parafrasando il titolo della sua opera, potremmo definire quella di Nicolás Gómez Dávila, per l’assenza di fatti esteriormente significativi, una biografia implicita. Nasce a Santafé de Bogotá il 18 maggio 1913, primo di tre fratelli, da famiglia dell’alta società colombiana. Il padre, che ha accumulato una notevole fortuna nel ramo tessile, è proprietario terriero e banchiere, e quando il ragazzo raggiunge l’età scolare decide di trasferire la famiglia a Parigi per permettere al figlio di studiare in Europa.  

Nicolás vi rimane diciassette anni e frequenta un collegio benedettino (di cui non rivelerà mai il nome) dove approfondisce lo studio della letteratura classica e medievale senza trascurare quella moderna e il pensiero filosofico dalle origini ai suoi tempi. Durante l’estate studia inglese in Inghilterra e in seguito apprenderà perfettamente, oltre al francese, anche l’italiano, il portoghese, il tedesco e il russo, acquisendo la possibilità di leggere gran parte della letteratura occidentale in lingua originale. Di salute malferma, per i postumi di una grave polmonite, è costretto per lunghi periodi a studiare da solo a casa, sotto la guida di precettori privati e in seguito non frequenterà l’università.

La sua cultura è un oceano senza coste. Ciò che più lo affascina è lo studio del latino e del greco perché costituiscono il vaccino più sicuro contro la modernità: “leggere per un periodo null’altro che latino e greco è l’unico modo per disinfettare un poco l’anima”, “solo le lettere antiche curano la scabbia moderna”. Peraltro, dirà in seguito, “educare i giovani consiste non nel far sì che prendano confidenza con il loro tempo, ma che lo ignorino più a lungo possibile” e “l’Occidente morirà quando anche l’ultima presenza della Grecia cesserà di esistere in un’anima cristiana”.

Nel 1937 Nicolás torna in Colombia. Si sposa a 24 anni con Maria Emilia Nieto dalla quale avrà tre figli. Tornerà in Europa nel 1949 per un viaggio in automobile di alcuni mesi con la moglie negli stati occidentali, ricavandone un’impressione deprimente: “Viaggiare per l’Europa è come visitare un palazzo dove i domestici ci mostrano le sale vuote in cui vi furono feste meravigliose”. Poi non lascerà più il suo Paese.  Non si tratta però di amor di patria. “In realtà rimanere in Colombia significava per lui rimanere semplicemente a casa propria, anche perché con i suoi compatrioti colombiani diceva di avere in comune soltanto il passaporto” (F. Volpi ).

“L’uomo comune vive tra fantasmi, il solitario è l’unico a muoversi tra cose reali”.

Profondo ammiratore del paganesimo (“è un perfetto cattolico solo chi edifica la cattedrale della sua anima su cripte pagane” / “il paganesimo è l’altro Antico Testamento della Chiesa”), nonostante la fede incrollabile nelle verità del cattolicesimo  (“il cattolicesimo insegna quello che un uomo vorrebbe credere e non osa”), Gómez Dávila impronterà la sua vita alla massima epicurea del “λάθε βιώσας” (vivi nascosto), chiudendosi in un “esilio volontario al riparo da ogni pubblicità e dalla vita pubblica della società moderna” (Lombardi-Zuppa).

Le agiate condizioni economiche gli consentono di demandare ad altri la gestione della hacienda ereditata dal padre e di coltivare la smisurata passione per la lettura, spesso protratta fino a notte fonda, nel “kῆπoς” (il Giardino) della sua biblioteca, in cui ha raccolto qualcosa come quasi 40.000 volumi. Per nulla interessato alla diffusione dei suoi scritti, lascerà che sia il fratello, “il quale rubò letteralmente i manoscritti di Nicolas” (Lombardi-Zuppa), a pubblicare, all’inizio degli anni ’50, le prime raccolte di aforismi, riservate a un pubblico ristretto di amici selezionati e conoscenti.   

La figura di Gómez Dávila è stata a buon diritto inserita, dai suoi ammiratori, nel filone di pensiero dei grandi detrattori della modernità liberale,  da Josef De Maistre a Donoso Cortéz, De Bonald, fino a Spengler, Guenon, Evola e De Benoist. Noi ci permettiamo di aggiungere a questi anche Massimo Fini, ancora ingiustamente sottovalutato. Discussa e discutibile la definizione di “Nietzsche colombiano” (più appropriata, se mai, quella di “Nietzsche cattolico”).  Rispetto al filosofo di Röcken, definito dallo scrittore “un Saulo rapito dalla demenza sulla via di Damasco”, il capovolgimento di prospettiva, nonostante la comune ripugnanza per la democrazia, è copernicano: “La morte di Dio è un’opinione interessante ma che non interessa Dio”“L’Übermensch è l’espediente di un ateismo insoddisfatto. Nietzsche inventa una consolazione umana alla morte di Dio” e ancora “l’unico ambizioso serio è il mistico”…

“L’umanità è caduta nella storia moderna come un animale nella trappola”. Venuti meno il teocentrismo e il “sacramentum fidelitatis” su cui si è retta, per quasi un millennio, la civiltà medievale, materialismo, progressismo, egalitarismo trovano la loro suprema sintesi nel dogma della democrazia come il migliore dei regimi possibili che si salda con quello della modernità come migliore dei mondi possibile.

“Con il termine democrazia designiamo una perversione metafisica più che una versione politica”.L’aforisma colpisce per la profondità e la lucidità. Che ancora oggi  la democrazia sia ritenuta come il migliore dei regimi possibile è avvertito come un problema di ordine superiore a quello politico: “la sopravvivenza degli ideali democratici è la prova che la storia non insegna nulla”. La civiltà occidentale post illuministica, sorta dalla rivoluzione francese e industriale, è la sola che, in 5000 anni, abbia concepito un sistema  caratterizzato dalla scissione tra sacro e politico e dalla cancellazione di ogni principio naturale di autorità e gerarchia: “essenzialmente la democrazia è relativismo assiologico” e “un popolo consultato può, a rigore, dire quale forma di governo gli piaccia, ma non quale sia quella di cui ha bisogno”. “Celesti sono le gerarchie. È all’inferno che tutti sono uguali… Solo la morte è democratica”.

Certamente siamo di fronte al sintomo più caratteristico di una sindrome da fine ciclo. “Sempre di nuovo vediamo riapparire nella storia il tipo dell’uomo ametafisico. Nelle sue mani sta il destino spirituale e materiale di ogni epoca ultima” ( Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente).

È nella “demonìa dell’economia”, senza dubbio alcuno, che va colto il tratto più distinguente della perversione democratica. “L’ascesa progressiva del danaro è intrecciata al declino progressivo delle idee… Chi crede che l’umanità  si esprima soprattutto attraverso l’esercizio del pensiero, considererà il potere regale del danaro come un impoverimento della vita personale e comunitaria… Le democrazie occidentali assegnano oggi un’importanza centrale al potere del danaro e un ruolo principe al ruolo del mercato… L’elevazione del mercato a paradigma fondamentale per la società produce e legittima il sorgere di una società senza cultura” (Marcello Veneziani, La sconfitta delle idee).

“Le aristocrazie sono i parti naturali della storia, le democrazie gli aborti”.

La vera radice del problema è teologica: “la democrazia proclama la sovranità dell’uomo, il Cristianesimo quella di Dio”. “La moderna democrazia è, per Gómez Dávila, una teologia dell’uomo-dio, in quanto essa assume l’uomo come Dio, derivando da questo principio i suoi comportamenti, le sue istituzioni e le sue realizzazioni” (F. Volpi). Nella sua essenza gnostica essa giustifica il “tutto è permesso” proclamato da Ivan Karamazov e il piacere della nostra società di andare a picco e avvilirsi sempre di più…  Ma il pensatore colombiano va ancora oltre: “Se Dio non esiste, tutto è permesso? No. Se Dio non esiste, nulla ha importanza. I permessi sono risibili quando i significati si annullano”. Per questo “oggi il termine ‘umano’, per come è usato, è semplicemente sinonimo di ‘bestiale’” (Joseph Ratzinger). 

Per questo “in democrazia per qualche euro o dollaro in più si vende anche la madre… Il pensiero e la pratica liberale e laica, che sono il substrato su cui è cresciuta la democrazia, mentre facevano tabula rasa dei valori preesistenti, non sono stati in grado di riempire il contenitore di contenuti se non quantitativi e mercantili… Le monarchie assolute, le teocrazie, il potere carismatico e persino le dittature propongono valori forti, buoni o cattivi che siano, in genere condivisi dalla popolazione” (Massimo Fini, Sudditi, manifesto contro la democrazia).  

Rispetto alle civiltà tradizionali, ai diritti del sangue e del merito, si sono sostituiti quelli del consenso elettorale e del carnevale parlamentare, ma “il voto non è libero e il consenso è truccato…  La democrazia – ci ricorda ancora Fini – nella sostanza è un sistema di mafie, alcune con attività principalmente legali, altre con attività principalmente criminali… La corruzione dei governati si intreccia fatalmente con quella dei governanti”.

Pertanto “cambiare un governo democratico con un altro governo democratico significa semplicemente mutare i beneficiari del saccheggio”. Siccome “il popolo non elegge chi lo cura ma chi lo droga”, insegnare  all’“homo democraticus”, inebetito a colpi di musica rock e Grande Fratello, è impossibile e inutile.

“Come ogni reazionario, Socrate sa che in democrazia non è permesso di insegnare: l’uomo democratico ha bisogno di credere che sta  inventando ciò che gli altri gli suggeriscono”.

“L’amore per il popolo è vocazione aristocratica. Il democratico lo ama soltanto in periodo elettorale”.

“Ciò che nessun adulatore oserebbe dire a un despota, il democratico lo dice al popolo”.

Il circolo è vizioso: “più grande è un paese democratico più mediocri saranno quelli che lo governano: vengono eletti da un maggior numero di persone”.

Anche il mito della  presunta παρρησία (parresìa, libertà di parola) democratica è demolito a colpi d’ascia: “La società moderna si concede il lusso di tollerare che tutti dicano ciò che vogliono perchè oggi, in fondo, tutti pensano allo stesso modo”. Al massimo “La democrazia può tollerare due partiti: il portavoce delle idee stupide e il protettore delle brame sordide”.

Siamo di fronte alla scimmia della teocrazia. Si “accetta ogni idea purchè non sia antidemocratica… La convinzione dei teorici della democrazia è che tale regime possa essere riformato e perfezionato ma non abbia alternative” (M. Fini). Di conseguenza: “Quando a un democratico si incancrenisce un dito, gli basta reclamare una legge che ordini la cancrena per tutte le mani”. “il democratico non s’accontenta che rispettino quello che lui vuole fare della sua vita, ma esige pure che rispettiamo quello che vuole fare della nostra”.

Da parte sua il reazionario non è un misoneista a priori, “non aspira alla vana restaurazione del passato, ma all’improbabile rottura del futuro con questo  sordido presente”. La sua è una ricerca di paradigmi dell’eternità, senza il riferimento ai quali la politica si riduce ai sordidi, noti intrallazzi della “partitica”.

“Tutto nel Medioevo, da una chiesa romanica, a una relazione feudale, a una via crucis gotica, a un romitorio di Canterbury, è vigoroso sensuale e concreto. Perché l’uomo del Medioevo sentiva la trascendenza come un attributo possibile dell’oggetto”

“Il triangolo: villaggio, castello, monastero non è una miniatura medievale. È un paradigma eterno”.

“Il feudalesimo si fondò su sentimenti nobili: lealtà, protezione, servizio. Gli altri sistemi politici si fondano su sentimenti vili: egoismo, cupidigia,invidia, codardia”.

La decostruzione di senso seguita, in Occidente, alla rinuncia della trascendenza ha consegnato l’uomo alla tirannide dell’“hic et nunc”. “Confinato nella sua sola esistenza, l’individuo di oggi ignora quel prolungarsi della propria persona nello spazio e nel tempo che veniva dall’appartenere a una famiglia i cui anelli distinti si legavano tra sé attraverso l’identità ininterrotta nei secoli dal patrimonio rurale. Oggi l’individuo nasce più solo e muore più completamente”.

Con la democrazia il  processo di atomizzazione e autodistruzione  è irreversibile: “Il moderno distrugge più quando costruisce che quando distrugge”. Giacobini e i comunisti distruggevano le chiese e fucilavano i Crocifissi. Oggi contempliamo i mostri liturgici  di Renzo Piano e di Massimiliano Fuksas. Dove passò Attila, sorgono le pale eoliche… Così “I nostri contemporanei denigrano il passato per non suicidarsi di vergogna o di nostalgia”.

C’è almeno un motivo di conforto?  La certezza che tutto ciò avrà una fine. “L’uomo ancora non sa se la bomba atomica è l’orrore finale o l’ultima speranza”.

Il pansessualismo odierno è l’iniezione di morfina somministrata al malato terminale, con la quale il piacere stesso è trasformato nel suo sottoprodotto. “La promiscuità sessuale è il contentino con cui la società tiene buoni i suoi schiavi”. “Nulla di più disgustoso di ciò che lo sciocco definisce: ‘un’attività sessuale armoniosa ed equilibrata’. La sessualità igienica e metodica è l’unica perversione che aborrono i demoni e gli angeli”.

“Le epoche di liberazione sessuale riducono a pochi gridi spasmodici le saporose modulazioni della sensualità umana”. Quando, invece, “amare è sentire la pressione del corpo assente contro il proprio” e, soprattutto, “non avremo imparato a godere sensualmente il mondo se non quando il gesto che palpa si prolunga in un arabesco dell’intelligenza”.

“Folle non è chi  ha perduto la ragione ma chi ha perduto tutto tranne la ragione” ( Gilbert Keith Chesterton). Anche per Gómez Dávila “la tragedia  moderna non è la tragedia della ragione vinta, ma della ragione trionfante”. Non la ragione di San Tommaso, bensì quella acefala, come la Nike di Samotracia, dell’età dei Lumi, che, con il mito del progresso, del guadagno e del consumo senza senso, ha asservito l’uomo, sempre più prigioniero delle sue “rovine cibernetiche” (J. Evola), a ritmi di lavoro degradanti, riducendo la sua esistenza da ilota senza identità alcuna, neppure sessuale, alle mere funzioni vegetative.  

“Il moderno è un prigioniero che si crede libero perché evita di toccare i muri del proprio carcere”. “La società moderna scredita l’evaso per evitare che qualcuno ascolti il resoconto dei suoi viaggi. L’arte o la storia, l’immaginazione dell’uomo o il suo tragico destino non sono criteri che la mediocrità moderna tolleri. Tale evasione è la fugace visione di splendori perduti e la probabilità di un verdetto implacabile sulla società attuale”.

L’evasione di Gómez Dávila è la medesima del prigioniero di Tolkien: “Perché  sarebbe più salutare, più normale e giusto preferire autostrade, catene di montaggio, supermarket, missili e gli squallidi prodotti della cultura materialistica o positivista ai luminosi paesaggi, al lavoro nei campi, ai castelli ed alle cattedrali, ai cavalieri ed alle loro gesta, ai re e ai sacerdoti? A un’umanità che pure è esistita su questo pianeta e che è reale come tutte le cose vere e belle che si ritirano nell’invisibile solo per riacquistare forza e giovinezza?… Vi è certamente differenza tra evasione come fuga del disertore ed evasione come ritorno cosciente e sacrificale alla bellezza per poter poi tornare qui, nel quotidiano campo di battaglia, con le forze ritemprate e la vista purificata” ( Mario Polia, Omaggio a J.R.R. Tolkien).

“Il mondo moderno non sarà punito: esso stesso è una punizione”. La gabbia del progresso (e la bruttezza che ci circonda e ci condanna) è la dura punizione che merita l’uomo di oggi, essendo lui il vero anticristo: “il progresso è il flagello che Dio ha scelto per noi” e, inevitabilmente, “l’umanità che il mondo moderno prepara si dividerà in criminali e deficienti”.

Pertanto “la massima immoralità sta nel contribuire in qualunque modo al progresso”.

“L’orrore del progresso può misurarlo chi abbia conosciuto un paesaggio prima e dopo che il progresso lo trasformasse”.

“Dubitare del progresso è l’unico progresso”.

“Il mondo è un’intenzione infranta che l’animo nobile tenta di restaurare”. 

L’anima del Progresso, in verità, è il Progresso dell’anima. Tale convinzione, e lo sforzo per concretizzarla, distingue l’aristocratico dal democratico. “La società aristocratica è quella in cui l’aspirazione alla perfezione personale è l’anima delle istituzioni sociali”.  “In tempi aristocratici ciò che ha valore non ha prezzo; in tempi democratici ciò che ha prezzo non ha valore”. Come per Julius Evola ( “Un artigiano che assolve perfettamente alla sua funzione è indubbiamente superiore ad un re che scarti e non sia all’altezza della sua dignità”), l’aristocrazia appartiene allo spirito, non al sangue né al danaro. “Aristocratico è chi meglio riesce a sintonizzarsi con i valori assoluti e attraverso la propria vita condotta in nome di essi dà prova della legge divina, informandone il resto degli uomini” ( Lombardi-Zuppa).

La volgarità borghese, invece, è matrice sia del capitalismo che del socialismo, “varianti storiche del principio democratico”.

“Non biasimiamo il capitalismo perché produce diseguaglianze, ma perché favorisce l’ascesa di tipi umani inferiori”.

“Chiunque giustifichi la propria abiezione dichiarandosi vittima delle circostanze è un teorico del socialismo. Il socialismo è la filosofia della colpa altrui”.

“Tre figure, nel nostro tempo, detestano per professione il borghese: l’intellettuale, questo tipico rappresentante della borghesia; il comunista, questo zelante esecutore dei propositi e degli ideali borghesi; il prelato progressista, questo trionfo finale della mente borghese sull’anima cristiana”.

“Molti amano l’uomo solo per poter dimenticare Dio con la coscienza tranquilla”. Lo spirito borghese e la mentalità progressista hanno snaturato (è il “fumo di Satana” intravisto con resipiscenza tardiva da San Paolo VI?) anche la Chiesa Cattolica. Gli apoftegmi davilani sono schegge di Shrapnel:

“Il più grande errore moderno non è l’annuncio della morte di Dio, ma l’essersi persuasi della morte del diavolo”.

“Da quando la religione si secolarizza, come ultimo testimone di Dio rimane Satana”.

“Il dialogo tra comunisti e cattolici è diventato possibile da quando i comunisti falsificano Marx e i cattolici Cristo”.

“La religione non è nata dall’esigenza di assicurare la solidarietà sociale, come le cattedrali non sono state edificate per incentivare il turismo”.

“La più grande preoccupazione della teologia moderna è il ruolo del cristiano nel mondo. Preoccupazione singolare, visto che il cristianesimo insegna che il cristiano non ha alcun ruolo nel mondo”.

“Progressisti atei e progressisti cattolici hanno rinunciato, gli uni alla blasfemia, gli altri alla preghiera: per comunicarsi gli uni con gli altri, nel medesimo culto delle fogne suburbane”.

“Gesù Cristo, oggi, non potrebbe sperare di essere ascoltato in quanto figlio di Dio ma solo  in quanto figlio di un falegname”.

Anche il demonio è presente più quando costruisce che quando distrugge:

“Nel Faust, il diavolo è il servitore di Dio. Mi chiedo a volte se non sia vero il contrario, cioè se non sia Dio che serve il diavolo. Perché se è il demonio a governare il mondo, tutto si spiega facilmente. Se invece fosse Dio a prendere le redini, la storia si arresterebbe”.  

Con parole di  veggente, “Gómez Dávila disegna una visione tetra e disillusa, ma lucida e illuminante del desolato paesaggio della modernità… Non perché egli si compiaccia di naufragare in una ‘cupio dissolvi’, al contrario: egli intende testimoniare, tra le rovine, una verità imperitura alla cui esistenza si aggrappa: ‘Non faccio parte di un mondo che perisce. Io prolungo e trasmetto una verità che non muore’”. ( F. Volpi)

La bella “immagine di un uomo che cammina con sguardo fermo attorno a cumuli di macerie” (Andrea Bedetti) ci riconduce al monito evoliano, rivolto all’“uomo differenziato” di “tenersi in piedi in mezzo alle rovine”. Non c’è posto tuttavia per l’idealismo magico e l’esoterismo panteista del Barone Nero. In Gómez Dávila l’invulnerabilità interiore scaturisce dalla negazione di qualsiasi forma di panteismo e  autarchia stoica: “Dipendere solo dalla volontà di Dio è la nostra vera autonomia”.

È lecito a questo punto chiederci: che cos’è allora il “testo implicito” a cui allude enigmaticamente l’autore degli Escolios nel titolo dell’opera?  A noi, fra tutte, pare non solo seducente, ma decisamente convincente, l’opinione (riportata da Lombardi-Zuppa) di Francia Elena Goenaga Olivares, docente all’Università delle Ande di Bogotá: “Il testo implicito nientemeno sarebbe che Dio e, per estensione, la gerarchia ontologica e assiologica che da Egli si propaga; per cui gli Scoli non sarebbero che sentenze che si scagliano contro un mondo che non vuole più riconoscere tale gerarchia e che si muove contro di essa”.

“Se l’unico fine dell’uomo è l’uomo, deriva da questo principio una vana reciprocità come il mutuo riflettersi di due specchi vuoti”.

“ Perchè la storia ci riguardi, qualcosa in essa deve trascenderla”.

“Scrivere è l’unico modo di tenere le distanze dal secolo in cui ci è toccato vivere”.

Gómez Dávila si spegne il 17 maggio 1994, il giorno prima del suo ottantunesimo compleanno, a Santafé de Bogotá, dove era nato. Negli ultimi tempi era vissuto “da certosino in alta montagna (Bogotà è a 2600 metri, n.d.a.)…, allontanandosi solo per andare dai francescani alla Porciuncola” (M. Veneziani), presso il convento situato nelle vicinanze della sua villa. Pochi mesi prima aveva iniziato a studiare con passione il danese per poter leggere  Kierkegaard in lingua originale. Nel 1974 aveva rifiutato l’incarico di ambasciatore sia a Londra che a Parigi e si era sempre astenuto dalla politica attiva.

“Avere ragione è una ragione in più per non avere alcun successo”. I suoi scritti (oltre agli aforismi anche saggi brevi di contenuto filosofico) non hanno ottenuto né  popolarità né successo, che del resto egli non aveva mai cercato. Infatti “è più facile che i naufraghi perdonino il pilota scellerato responsabile dell’affondamento della nave, piuttosto che il passeggero profeta intelligente della sua deriva contro lo scoglio”.  

Da “católico, reaccionario y retardatario” (cattolico, reazionario, retrogrado), quale si definiva con orgoglio, aveva preso nettamente le distanze anche dai conservatori. “L’individuo di sinistra  è la caricatura del marxista, il conservatore del reazionario”. “Il reazionario è colui che è contro tutto perché non esiste più nulla che meriti di essere conservato”.

L’amara realtà è che “siamo ripiombati in una di quelle epoche che al filosofo non chiedono né di spiegare né di trasformare il mondo, ma unicamente di costruire rifugi contro l’inclemenza del tempo” e, purtroppo, “nessuno oggi può ribellarsi all’oscurantismo progressista democratico sperando di vincere. Ma solo perché sente il dovere di prestare testimonianza”. “ Sine metu ac sine spe”. “Se il progressista si volge al futuro, e il conservatore al passato, il reazionario non misura i propri desideri con la storia di ieri o con la storia di domani. Il reazionario non plaude a quanto porterà l’alba prossima, né si aggrappa alle ultime ombre della notte. La sua abitazione si leva nello spazio luminoso in cui le essenze lo chiamano con le loro presenze immortali”.

Il reazionario è un contemporaneo che dista millenni, è “un cacciatore di ombre sacre sulle colline dell’eternità”.

2 commenti su “Nicolás Gómez Dávila: ombre sacre sulle colline dell’eternità”

  1. Tiziano Lissandron

    Leggo e rileggo Gomez Davila da anni . Non c’è da stupirsi che sia praticamente
    sconosciuto : le sue parole fanno pensare , a volte fino a star male ; meglio una bella puntata
    del ” Grande Fratello ” o , meglio ancora , dell’ ” Isola dei famosi ” o , perché no , una di quelle trasmissioni in cui si va per la strada a intervistare ” la ggente ” .
    Don Milani sosteneva che non erano i portatori di pensiero che dovevano abbassarsi al livello degli sciocchi , ma che bisognava spronare questi ultimi verso l’ alto .
    Basta osservare la nostra società per capire che il destino del genio si incarna nell’ utopia .
    Vi immaginate cosa succederebbe se un insegnante di liceo consigliasse di leggere Gomez
    Davila ? Ĺ’unica speranza sarebbe che , essendo sconosciuto , passasse inosservato alla
    prodigiosa fertilità intellettuale non solo dei nostri politici , ma anche della stragrande maggioranza del corpo insegnante . Del resto , come sosteneva il Nostro , se lanci un sasso
    in uno stagno , l’ampiezza dei cerchi concentrici dipende dalla grandezza e dalla profondità dello stagno .
    Leggete Nicolas Gomez Davila , cari Amici : è vitamina per la mente .

  2. Se lo scopo dell’articolo era quello di presentare ai lettori l’opera di Nicolás Gómez Dávila e attirare su di essa la loro attenzione allora esso è stato raggiunto, almeno nel mio caso. Non conoscevo questo Autore ma, almeno a parziale discolpa della mia ignoranza, mi sia concesso appellarmi alla minima divulgazione che la sua opera ha avuto, probabilmente perché particolarmente indigesta per la cultura corrente e a dispetto del famoso ritornello: non condivido le tue idee, ma mi batterò etc, etc.
    Grazie.

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Ricognizioni è nato dalla consapevolezza che ci troviamo ormai oltre la linea, e proprio qui dobbiamo continuare a pensare e agire in obbedienza alla Legge di Dio, elaborando, secondo l’insegnamento di Solženicyn, idee per vivere senza menzogna.

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