Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) / IX – di Dario Pasero

Le figure dei grandi Santi della chiesa presenti nei cieli del Paradiso dantesco. Partiamo dal canto XI con la figura di San Francesco d’Assisi.

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di Dario Pasero

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Vorrei, a far capo da questo appuntamento con i lettori, iniziare – seguendo l’ordine del testo poetico – una ricognizione delle figure dei grandi Santi della chiesa presenti nei cieli del Paradiso dantesco. Partiamo quindi dal canto XI con la figura di San Francesco d’Assisi.

Dante e Beatrice si trovano nel quarto cielo, quello del Sole, il primo in cui gli spiriti dei beati compaiono sotto forma di luci, senza più alcun ricordo fenomenico, seppur sottilissimo e diafano, del loro aspetto terreno. In questo spazio orbitale percorso dal Sole (ricordiamo, incidentalmente, che Dante vive in tempo di sistema tolemaico, in cui il sole, come tutti i corpi celesti, ruota intorno alla terra, vero centro dell’Universo) il Poeta incontra, in due momenti successivi, 24 beati, disposti in due cerchi concentrici di 12 luci ciascuno. Il cerchio simboleggia la perfezione della Sapienza divina e le anime disposte secondo tale figura geometrica sono i rappresentanti di quella sapienza che, occupandosi della scienza divina, ha acquisito la beatitudine eterna. Una delle anime del primo cerchio di 12 è quella di San Tommaso d’Aquino, su cui lo spazio ci impedisce di diffonderci come egli meriterebbe: ci limitiamo a ricordare che viene considerato – a ragione – il più grande teologo e filosofo del cristianesimo medievale. L’anima di Tommaso è l’unica che dialoghi con Dante: presenta se stessa e le altre 11 anime, dopo di che dichiara di voler sciogliere due dubbi che Dante ha concepito (e Tommaso lo sa poiché vede in Dio i pensieri di Dante stesso) relativi ad alcune parole da lui dette nella presentazione degli spiriti beati.

In particolare, a noi interessa uno dei due dubia (a quel tempo si usava consigliare i dubbiosi, e quindi rispondere per chiarire i dubbi…), quello cioè relativo all’ordine domenicano, a cui San Tommaso apparteneva, del quale il Santo ha affermato, presentando se stesso, che in esso “u’ ben s’impingua se non si vaneggia” (c. X, v. 96), cioè in cui ci si arricchisce (ovviamente nella spiritualità) se non si è folli.

La presentazione delle anime avviene a conclusione del canto X, mentre l’XI, dopo una introduzione di carattere moralistico da parte del Dante-poeta (da distinguere dal Dante-viaggiatore) ai vv. 1-18, inizia con San Tommaso che rivela appunto i due dubbi di Dante e la sua volontà di chiarirli (vv. 19-27). A questo punto, come prolessi al chiarimento del dubbio relativo all’ordine dei Predicatori, il Santo procede ad una distinzione. Ecco lo schema logico dell’intervento che Dante fa pronunciare a San Tommaso, rispettando ovviamente il poeta l’abitudine logico-consequenziale nella distinzione dell’argomento tipica del procedere aristotelico-tomistico.

L’obiettivo cui si vuole giungere è chiarire il perché dell’attuale (dei tempi di Dante) decadenza dell’ordine domenicano. Dio, tra la fine del secolo XII e gli inizi del XIII, visto lo stato di debolezza della Sua chiesa, ha inviato in suo aiuto due “soccorritori” (Francesco e Domenico). Essi lavorarono talmente all’unisono che parlare di uno equivale esattamente a parlare dell’altro: dunque egli, San Tommaso, dirà sì di essi, tuttavia, per opportunità, non parlerà del fondatore dell’ordine cui egli appartenne, bensì dell’altro (Francesco), per arrivare poi, nella conclusione, a stigmatizzare appunto le colpe del suo proprio ordine, cioè quello domenicano.

L’esposizione della prolessi occupa i vv. 28-42, mentre dal v. 43 inizia il vero e proprio elogio di San Francesco, e dal v. 118 la polemica sulla condizione di decadenza dell’ordine dei Predicatori.

E noi iniziamo la nostra analisi proprio dal v. 43, col quale si apre l’elogio dell’Assisiate. Tale elogio, a sua volta, si suddivide in vari segmenti, che ritroveremo analoghi nell’elogio di San Domenico presente nel canto successivo: dapprima la descrizione geografica del luogo di nascita del Santo (vv. 43-54), giovinezza di Francesco (vv. 55-75), fase che si conclude (metaforicamente) con le nozze tra Francesco e la Povertà, primi seguaci di Francesco e quindi primi inizi dell’ordine (vv. 76-87), le approvazioni papali della Regola (vv. 88-99), infine la missione presso gli infedeli, il ritorno in Italia, l’eremo della Verna, le stigmate e la morte (vv. 100-117). Segue poi, come detto, la sezione conclusiva di critica alla corruzione dell’ordine domenicano, anch’essa suddivisa in tre parti: si ribadisce l’unità di intenti tra i due Santi (vv. 118-123), la decadenza attuale dell’ordine domenicano (vv. 124-132), il conseguente e conclusivo chiarimento del dubbio dantesco (vv. 133-139).

Partiamo ora dalla prima sezione: la descrizione dei luoghi in cui Francesco nacque ed iniziò la sua missione, ricordando che tutti gli episodi citati si fondano sulla lettura delle più antiche fonti agiografiche francescane, in particolare, ma non solo, San Bonaventura, che (e non è certo un caso) prenderà la parola nel canto seguente del poema.

Il Poeta intraprende la sua descrizione avendo già in animo una metafora, per altro già presente nella Vita beati Francisci di San Bonaventura: San Francesco è il sole che ai suoi tempi ha illuminato il mondo. Pertanto, dopo i primi otto versi puramente geografici, descriventi la posizione di Assisi, nella sua collocazione tra i fiumi Tupino e Chiascio, individuata ma non ancora chiamata per nome, si dice che in questa località nacque, per il mondo, un Sole (v. 50). Conseguenza di ciò è che la località in cui questo Sole nacque non dovrà più chiamarsi Assisi (ma Dante preferisce la forma arcaica Ascesi, che ha un valore chiaramente simbolico), che sarebbe ormai forma troppo “corta”, cioè insufficiente, ma sic et simpliciter Oriente (vv. 52-54). Da rimarcare, in questi primi 12 versi anche l’accenno al beato Ubaldo (v. 44), vale a dire Ubaldo Baldassini, poi vescovo di Gubbio tra il 1129 e il 1160, che in giovinezza si era ritirato appunto in eremitaggio sul monte Ausciano sopra Gubbio. Oltre al suo valore geografico il rimando al beato sembra voler rimarcare la “vocazione” dell’Umbria alla vita eremitica.

Seconda fase: la giovinezza. Proseguendo nella metafora solare (tanto più incisiva in quanto presente nel canto del cielo del Sole), il Poeta ci dice che l’opera di Francesco iniziò prestissimo, “non era ancor molto lontan da l’orto” (v. 55) in cui “orto” è ovviamente un latinismo, dal verbo orior, nel senso di “nascita” (così come poco prima, al v. 54, Assisi si dovrebbe chiamare “Oriente”, cioè “luogo in cui il Sole sorge”, sempre dal latino orior), se è vero che ancora “giovinetto” (v. 58) non esitò ad entrare in conflitto col padre per poter sposare la donna di cui era innamorato. Qui si apre un’altra metafora, molto estesa (vv. 58-72), quella in cui Francesco sposa una donna di cui non si fa il nome, ma se ne cantano semplicemente le lodi (quasi – se me lo permettete – una sorta di Cantico dei Cantici dantesco), fino al suo disvelamento (vv. 73-75): è la Povertà. Per essa Francesco abbandonò la famiglia (e la sua ricchezza) davanti al vescovo ed alla sua curia (ecco, metaforicamente, le “nozze”) e di essa amò la sua stessa natura, cioè tutto ciò che nessun altro uomo avrebbe mai potuto amare (“a cui, come a la morte,/ la porta del piacer nessun diserra”; vv. 59-60). Non solo, ma la metafora continua nella figura della sposa, vedova da circa mille e cento anni del primo marito, cioè Cristo, istituendo così un paragone diretto tra Cristo e Francesco. A questo punto Dante inserisce, come è sua abitudine, la citazione classicamente dotta (l’episodio di Cesare ed Amiclate, citato da Lucano in Phars. c. V, vv. 519sgg. a cui rimando per la sua disamina, che ora ci porterebbe troppo lontano), a cui – sempre come d’abitudine – si accosta la memoria evangelica della fedeltà e della coerenza (v. 70: “costante… feroce”: ancora due latinismi per “coerente e fiera del suo amore”) della Sposa, che, mentre la madre stette ai piedi della Croce del Figlio, salì su di essa col suo sposo (simbolicamente: Cristo morì “nudo” ed offeso, quindi in compagnia solamente della Povertà). Giungiamo così alla conclusione esplicita, anche se già da noi intuita: gli sposi sono il Santo e la Povertà (“Francesco e Povertà per questi amanti/ prendi oramai nel mio parlar diffuso”:vv. 74-75).

La metafora delle nozze tra Francesco e Povertà apre anche la terza parte della narrazione, quella relativa agli inizi dell’Ordine. Infatti è proprio l’esempio di amore e letizia dato dai due sposi ad attrarre i primi discepoli, il cui accostarsi alla disciplina francescana è sintetizzato in un gesto icasticamente felice: lo scalzarsi, il camminare scalzi, a sottolineare la completa ed immediata dedizione dei primi discepoli all’aspetto più innovativo ed insieme antico della vita del Santo, cioè la ricerca e l’accettazione della povertà come unico possibile stile di vita. Ecco allora che “si scalza” per primo il “venerabile Bernardo” (v. 79), cioè Bernardo di Quintavalle di nobile ed antica famiglia di Assisi (ricordiamo che invece Francesco, pur di famiglia ricca, non era nobile: un particolare che tra breve Dante utilizzerà in elogio del Santo), poi “scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro/ dietro a lo sposo, sì la sposa piace” (vv. 83-84), vale a dire altri due assisiati, il giovane e poco colto Egidio ed il prete Silvestro, dei quali non si hanno molti altri particolari. La sezione si conclude, in perfetto equilibrio con la “scalzarsi” iniziale, con un altro accenno all’umiltà ed alla povertà dei primi francescani: quella che è detta una “famiglia” (si continua ovviamente, ma anche si conclude la metafora: dagli “sposi” nascono “figli”, cioè i discepoli della Regola) portava già come segno distintivo “l’umile capestro” (v. 87), cioè il cordone in luogo della cintura a legare il saio.

Il richiamo al non essere Francesco di famiglia aristocratica (suo padre, Pietro Bernardone, era infatti un ricco, ma non nobile, mercante) apre la sezione successiva della biografia, quella dedicata alle prime due approvazioni papali della Regola. Infatti, la prima approvazione, cioè quella verbale di Innocenzo III, avviene dopo che Francesco rivelò “regalmente” (v. 91) al pontefice la sua regola. Proprio l’avverbio regalmente è particolarmente significativo, e non solo nel suo valore intrinseco (Francesco parla da re a re col papa, non dimenticando che la vulgata sul Santo, ancora fino a buona parte del secolo XX tendeva a darci di lui un’immagine che, oltre all’umiltà ed alla povertà, ne metteva anche in luce una scarsa preparazione culturale, cosa assolutamente non vera), ma tanto più significativo in quanto dal Poeta è molto abilmente messo in contrapposizione con “viltà di cuor” del v. 88. Non solo quindi Francesco non si vergognò, abbassando lo sguardo, di essere figlio di mercante, e di apparire in sovrappiù “dispetto a maraviglia” (v. 90), cioè talmente umile e dimesso (il latinismo “dispetto” vale anche qualcosa di più: “degno di disprezzo”) da destare meraviglia in chi lo guardasse, ma addirittura parla regalmente, da pari a pari, con un altro re.

La narrazione della seconda approvazione, quella scritta firmata da Onorio III, ma che in realtà proveniva da Dio (v. 98: “fu per Onorio da l’Etterno Spiro”; ed al lettore accorto non sfugge il “per” con valore strumentale: Onorio fu il “mezzo”, ma ispiratore fu Dio) ci porta nei suoi versi ad un’atmosfera già paradisiaca: lo attestano la dichiarazione che la vita del Santo, definita “mirabile” (degna di ammirazione), meriterebbe di essere cantata “in gloria del ciel” (v. 96), l’uso di due termini dotti quali il latinismo “redimita” (cioè incoronata, v. 97) ed il grecismo “archimandrita” del v. 99, che vale “pastore, capo spirituale di un ordine”, e infine l’uso del sostantivo “corona” (v. 97), che ci colloca nell’ambito della vittoria e del martirio, e dell’aggettivo “santa”, riferito all’intenzione (“voglia”) del Santo di vedere la sua Regola approvata in modo definitivo, cioè con l’autorità di una bolla papale. Anticipiamo ora che questa sezione, che pure qui si conclude, avrà una sorta di appendice/ripresa più avanti nella narrazione della vita di Francesco (v. 107), ma procediamo con ordine.

Si passa dunque alla parte conclusiva della biografia del Santo, in cui in meno di 20 versi, si raccontano, prima, la sua missione in Egitto nel tentativo di convertire il Soldano (al quale si riserva l’aggettivo “superbo”) e la sua gente, missione iniziata per desiderio di “testimonianza” (così va inteso il “martiro” del v. 100) interrotta poi, vista l’impossibilità di convertire gli infedeli ancora “acerbi”, per non sprecare il suo tempo e dedicarsi così al “frutto de l’italica erba” (v. 105), cioè ai buoni risultati che si potevano conseguire in Italia. Abbiamo poi il ritirarsi nel duro eremitaggio del monte della Verna (“crudo sasso”, cioè monte inospitale), posto tra la valle del Tevere e quella dell’Arno, durante il quale ricevette il terzo ed ultimo “sigillo” (v. 107), cioè approvazione alla propria Regola (e sigillo è la stessa parola già usata al v. 93 per indicare la prima approvazione papale), cioè le stigmate, ricevute non da un rappresentante (il papa) ma direttamente da Cristo e che egli portò nel suo corpo per due anni (1224-1226). Si chiude poi con la morte del Santo, vista come il giusto premio da Dio, premio ottenuto grazie alla sua umiltà (v. 111 “nel suo farsi pusillo”, cioè “piccolo”), raccomandando ai suoi eredi, i suoi frati, la sua sposa (v. 113: “la donna sua più cara”, la Povertà), affinché l’amassero fedelmente. Nel canto successivo per bocca di San Bonaventura si sentirà come questa eredità non fosse stata conservata nel suo giusto valore… L’ultima immagine che il poeta ci consegna del Santo ci rappresenta in modo mirabile l’idea cristiana dell’uomo come unione perfetta (Aristotele avrebbe parlato di sinolo) di anima e di corpo: l’anima di Francesco (“preclara”, hapax dantesco per tradurre praefulgida e praenitida delle biografie bonaventuriane) vola direttamente in cielo, mentre il corpo, per volere del Santo stesso, viene inumato direttamente nella terra (v. 117: “e al suo corpo non volle altra bara”).

Dopo i versi 118-120 in cui Dante ribadisce l’eguale valore ed importanza dei due Santi (Francesco e Domenico), per il loro lavoro parallelo in favore della Chiesa, si passa all’ordine domenicano ed alla sua attuale corruzione.

Dopo l’analisi della parte del canto XI contenente l’elogio di San Francesco, vedremo, leggendo il canto seguente, come l’eredità del santo di Assisi sia stata mantenuta dai suoi successori dei tempi di Dante. Piuttosto, vediamo ora in breve come San Tommaso giunga alla conclusione del suo discorso, che – lo ricordiamo – è partito dalla precisa volontà dell’aquinate di spiegare uno dei due dubia di Dante. Pertanto, a partire dal v. 121, fino alla fine del canto, si fa, nell’attesa di parlarne più diffusamente nel canto successivo, un brevissimo elogio di San Domenico, equiparato, per la grandezza della sua azione, a San Francesco. Dunque, chi segue rettamente la regola domenicana non può che trarne buon frutto (“per che qual segue lui, com’el comanda,/ discerner puoi che buone merce carca”; vv. 122-123). Purtroppo, però, i suoi discepoli, definiti metaforicamente “pecuglio”, cioè “gregge”, attualmente è desideroso di “nova vivanda” (v. 124), cioè, secondo l’interpretazione di Pietro di Dante, di scienza mondana, invece che quella teologica. Per questo motivo, continuando la metafora “pastorale”, essi vanno a cercare il loro cibo in pascoli diversi e lontani (“diversi salti”, v. 126), ritornando così meno ricchi di latte all’ovile dal loro pastore. Fuor di metafora i domenicani del tempo di Dante si danno a studi ed interessi mondani, ricavando così dalla loro vita e dai loro studi minori vantaggi spirituali. Ovviamente non si fa di ogni erba fascio e quindi, distinguendo, si sottolinea che alcuni (pochi) continuano ad essere fedeli alla regola del Santo fondatore. Talmente pochi, però, che, con un passaggio improvviso dal linguaggio figurato a quello reale, “le cappe fornisce poco panno” (v. 132), cioè basta poca stoffa per confezionare le loro cappe.

A questo punto siamo alla conclusione del discorso, conclusione che San Tommaso trae con la logica stringente che gli è propria e con un procedimento stilistico consequenzialmente serrato. Il v. 133 si apre con un “Or”, col valore di “ricapitolando”, che dà inizio ad ogni logica conclusione di ragionamento; seguono poi, ad inizio di tre versi consecutivi (133, 134, 135), tre “se”, non con valore dubitativo ma ricapitolativi, a cui tiene dietro la ovvia e ragionevole conclusione esplicativa di tutto il discorso tomista sul dubbio dantesco. Dunque, Tommaso pone tre fatti: se le sue parole non sono state oscure, non adeguate cioè alla certezza del pensiero del Santo, se Dante è stato un ascoltatore attento, se il Poeta rievoca e ricapitola nella sua mente tutto ciò che ha udito, a questo punto egli, Dante, non può non capire come la “pianta” dell’ordine domenicano “si scheggia”, cioè si rovina, ma capirà anche come sia proprio la “correzione” limitativa (“se non si vaneggia”, v. 139, cioè se non si esce dalla tradizione) a chiarire come nell’ordine si possa continuare a “ben impinguarsi” di beni spirituali che nascono dalla sapienza delle cose divine.

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Paradiso, c. XI, vv. 43-139

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Intra Tupino e l’acqua che discende

del colle eletto dal beato Ubaldo,

fertile costa d’alto monte pende,

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onde Perugina sente freddo e caldo

da Porta Sole; e di rietro le piange

per grave giogo Nocera con Gualdo.

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Di questa costa, là dov’ella frange

più sua rattezza, nacque al mondo un sole,

come fa questo tal volta di Gange.

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Però chi d’esso loco fa parole,

non dica Ascesi, ché direbbe corto,

ma Oriente, se proprio dir vuole.

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Non era ancor molto lontan da l’orto,

ch’el cominciò a far sentir la terra

de la sua gran virtute alcun conforto;

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ché per tal donna, giovinetto, in guerra

del padre corse, a cui, come a la morte,

la porta del piacer nessun diserra;

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e dinanzi a la sua spirital corte

et coram patre le si fece unito;

poscia di dì in dì l’amò più forte.

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Questa, privata del primo marito,

millecent’anni e più dispetta e scura

fino a costui si stette sanza invito;

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né valse udir che la trovò sicura

con Amiclate, al suon de la sua voce,

colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;

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né valse esser costante né feroce,

sì che, dove Maria rimase giuso,

ella con Cristo pianse in su la croce.

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Ma perch’io non proceda troppo chiuso,

Francesco e Povertà per questi amanti

prendi oramai nel mio parlar diffuso.

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La lor concordia e i lor lieti sembianti,

amore e maraviglia e dolce sguardo

facieno esser cagion di pensier santi;

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tanto che ’l venerabile Bernardo

si scalzò prima, e dietro a tanta pace

corse e, correndo, li parve esser tardo.

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Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!

Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro

dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

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Indi sen va quel padre e quel maestro

con la sua donna e con quella famiglia

che già legava l’umile capestro.

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Né li gravò viltà di cuor le ciglia

per esser fi’ di Pietro Bernardone,

né per parer dispetto a maraviglia;

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ma regalmente sua dura intenzione

ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe

primo sigillo a sua religione.

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Poi che la gente poverella crebbe

dietro a costui, la cui mirabil vita

meglio in gloria del ciel si canterebbe,

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di seconda corona redimita

fu per Onorio da l’Etterno Spiro

la santa voglia d’esto archimandrita.

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E poi che, per la sete del martiro,

ne la presenza del Soldan superba

predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,

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e per trovare a conversione acerba

troppo la gente e per non stare indarno,

redissi al frutto de l’italica erba,

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nel crudo sasso intra Tevero e Arno

da Cristo prese l’ultimo sigillo,

che le sue membra due anni portarno.

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Quando a colui ch’a tanto ben sortillo

piacque di trarlo suso a la mercede

ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

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a’ frati suoi, sì com’a giuste rede,

raccomandò la donna sua più cara,

e comandò che l’amassero a fede;

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e del suo grembo l’anima preclara

mover si volle, tornando al suo regno,

e al suo corpo non volle altra bara.

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Pensa oramai qual fu colui che degno

collega fu a mantener la barca

di Pietro in alto mar per dritto segno;

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e questo fu il nostro patriarca;

per che qual segue lui, com’el comanda,

discerner puoi che buone merce carca.

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Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda

è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote

che per diversi salti non si spanda;

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e quanto le sue pecore remote

e vagabunde più da esso vanno,

più tornano a l’ovil di latte vòte.

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Ben son di quelle che temono ’l danno

e stringonsi al pastor; ma son sì poche,

che le cappe fornisce poco panno.

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Or, se le mie parole non son fioche,

se la tua audienza è stata attenta,

se ciò ch’è detto a la mente revoche,

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in parte fia la tua voglia contenta,

perché vedrai la pianta onde si scheggia,

e vedra’ il corrègger che argomenta

.

«U’ ben s’impingua, se non si vaneggia».

4 commenti su “Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) / IX – di Dario Pasero”

  1. Cesaremaria Glori

    Affascinante commento dell’intera cantica e attuale ammonimento per l’evidente analogia fra l’Ordine dei Predicatori al tempo di Dante e quello di tanti Ordini del giorno d’oggi. Grazie professor Pasero per questo suo regalo.

  2. Luciano Pranzetti

    Carissimo Pasero, non soltanto quel ‘dubium’ (u’ ben s’impingua se non si vaneggia) il poeta, per bocca di Tommaso, dissolve. L’intero poema, così denso di tomismo, è risposta a tutti i dubbi. Complimenti per quest’ulteriore non ‘minima’ ma vasta riflessione sulla Commedia ché ben si vede come la leggi, la comprendi e la vivi.

    1. Di questi tempi, purtroppo, vaneggiando di molto chi per primo dovrebbe impinguarsi, cosa accadrà al gregge che più che mai
      ha bisogno di camminare sulla retta via?

      1. Tornano all’ “ovil di latte vòte”? Nemmeno l’ovile esiste più…..
        Grazie a Dario Pasero. Restiamo in attesa del dodicesimo canto….

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