Paola Cortellesi, la fiaba & la trappola dello stereotipo

Questo articolo esce in ritardo rispetto ai tempi in cui è stato consegnato, diciamo per motivi tecnici, e me ne scuso con l’autore. Però mantiene tutta la sua attualità: per la capacità di Matteo Donadoni di cogliere il cuore della questione e, purtroppo, per la permanente degenerazione di ciò che mi risulta ostico chiamare cultura. Se la signora Cortellesi Paola si fosse presa la briga, non dico di studiare ma almeno di annusare quello che Cristina Campo, una donna, ha scritto sulla fiaba, magari si sarebbe trattenuta dal cadere in quelle povere e stereotipate battute su Biancaneve e Cenerentola. D’altra parte, questi innovatori non si rendono conto di perpetuare il solito, vecchio, banale moto della ruota del potere buttando nella macina ciò che serve al momento. È sempre così, la chiacchiera che piace alla gente che piace si ingozza di stereotipi: mentre la fiaba si alimenta di archetipi. Ma gli archetipi, uno, se non li ha, mica se li può dare. P.S. “uno” in senso omnicomprensivo. (alessandro gnocchi)

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La Cortellesi non fa più ridere. Grossa delusione l’inarrestabile deriva ideologica di una straordinaria comica, che ci porta a rivalutare Sabrina Salerno quando con Jo Squillo, senza fare troppo la sostenuta, cantava “Siamo Donne”. Paola Cortellesi è stata invitata a tenere un monologo contro il sessismo nelle fiabe nientemeno che all’inaugurazione dell’anno accademico della LUISS. Trattandosi di prestigiosa università, non sono riusciti a trovare laureati in letteratura tedesca adatti al compito e nemmeno, pare, cantastorie genovesi. Non sappiamo se avessero chiamato il signor Carlo, invece, il quale, non si divertendosi più, ha lasciato la Gialappa’s Band.

L’accusa mossa all’impianto fiabesco si fonda sostanzialmente sul fatto che le donne delle fiabe spesso sono personaggi negativi, come la strega di Biancaneve. Inoltre, polemicuccia veterofemminista riciclata: «Biancaneve faceva la colf ai sette nani». Unica nota originale è una battuta, spacciata dai giornali per provocazione: «Siamo sicuri che se Biancaneve fosse stata una cozza il cacciatore l’avrebbe salvata lo stesso?».

Lo vuol sapere la Cortellesi, chi piace al Principe, basandosi su una visione del mondo in cui non ci sono principi, né princìpi, il marito è uno di passaggio e l’amore eterno è una fiaba, come la fede, del resto, definita nelle università “ciò che si sa non essere vero”. E, “siccome Biancaneve lo gradì”, questo amore principesco, di qui il fastidio della Cortellesi, che forse non vuol vedere principi che promettano di rispettare e onorare principesse. Solo gente scevra da assoluti, che si piglia e si lascia come cambia il vento, professionisti sempre di corsa nella sporcizia di piatti non lavati, calzini che puzzano e nessuno che rassetti casa.

La attrice, regista, comica e sceneggiatrice italiana se la prende anche con Cenerentola: «Perché il principe ha bisogno di una scarpetta per riconoscere Cenerentola, non poteva guardarla in faccia?». Intende forse che i principi siano soliti guardare altro che non la faccia? Ci saranno pure tutti i “Diritti, inclusione e sostegno al merito”, come ha commentato il presidente della Luiss, Luigi Gubitosi, e “apertura alle sfide del mondo reale”, ma non apertura di libri. Nella storia dei Fratelli Grimm, Cenerentola non viene riconosciuta nemmeno dalle sorellastre, “brutte e nere di cuore”, se si può dire, ma poco importa: “Il ruolo del nostro ateneo – ha dichiarato il rettore Andrea Prencipe – è educare alla diversità i futuri leader globali che gestiranno la complessità delle sfide geopolitiche, economiche, giuridiche e tecnologiche che accelerano e trasformano il mondo. Studentesse e studenti, infatti, dovranno acquisire nuove competenze, allenandosi a formulare domande, a risolvere problemi e ad esplorare soluzioni innovative. Imparare a disimparare: sarà questa la capacità che consentirà loro di reinventarsi nel corso di carriere non più lineari e convenzionali”.

Sull’imparare a disimparare ciò che si apprende a scuola credo siamo tutti d’accordo, perfino i non educati o diversamente educati alla diversità come noi. Per quanto riguarda il formulare domande, giunti a questo punto, proviamo: “Se Biancaneve fosse stata africana, la madre l’avrebbe chiamata Faccettanera?”.

Le fiabe hanno sempre avuto un intento pedagogico in secoli in cui le scuole non erano per tutti, ma soprattutto, in cui le insegnanti non si credevano di essere tutte la Montessori. Esse a volte sono, come nel caso di Biancaneve, ricordo di vicende reali: secondo la ricerca di uno storico, la ragazza, al secolo Margaretha von Waldek, nella realtà venne avvelenata, mentre i nani non sono che la trasposizione mitica di reali bambini impiegati nell’industria mineraria. Il significato della fiaba è invito al mantenimento delle virtù e monito a non cedere alle “male erbe invidia e superbia che non danno pace né giorno né notte”. La bambina viene ingannata ben tre volte: con un bel laccio nuovo del corpetto, un pettine e una mela avvelenati, evidenti simboli delle vanità e del peccato, mentre Biancaneve è ingenua, perché innocenza fatta persona.

Ora, mi rendo conto che la parola innocenza non abbia più alcun significato fuori dall’accezione giuridica per un certo modo di pensare proprio di una certa cultura. “Tientela la tua bellezza, per te è finita”, così vomita la regina cattiva. Finita come è finito il tempo delle fiabe e dell’innocenza. Non è finito invece il costume antico di ingannare con le parole, vendere “merce fina”, troppo fina, che avvelena. Tutto ciò continuerà fin quando le Brigate Grimm non torneranno sulle cattedre di letteratura, per ricordare ai bambini che i draghi esistono, ma possono essere sconfitti. E ricordare ai grandi che, per quanto nichilisticamente possono essere disillusi e disperati, prima o poi i conti sempre tornano sul piatto della giustizia. Per ricordare soprattutto alle regine cattive che, per quanto forte possano strillare i loro diktat applauditi oggi, un bel giorno, dopo essersi reinventate le carriere non convenzionali, finiranno per strillare le proprie colpe ballando strette in scarpette di ferro ben arroventate.

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