Pastores dabo vobis – racconto di Domenico Rosa

Riceviamo e pubblichiamo il racconto con cui il nostro amico Domenico Rosa ha vinto il Fiorino d’oro per la sezione racconti inediti del XXXV Premio Firenze, indetto dall’associazione culturale Firenze-Europa “Mario Conti”.

Riportiamo in calce l’articolo pubblicato ieri sul Messaggero.it . A Domenico Rosa facciamo le più vive congratulazioni, in attesa di avere ancora il piacere di pubblicare la sua firma su Riscossa Cristiana.

PD

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Padre Renato era seduto in ufficio con il libro della Liturgia delle Ore aperto sulla scrivania. L’occhio chiaro tradiva una profonda commozione, la sorella Noemi, come aveva comunicato lui stesso ai giovani in formazione, “era volata in Paradiso”. In quel momento entrò Marco, strinse la mano al vecchio missionario e disse: “Padre, adesso siamo noi la sua famiglia”. Noemi era l’ultimo legame di sangue per quell’uomo di Dio itinerante, sempre in giro tra il nord e il sud dell’Italia e le remote province brasiliane. Il fratello Carlo, anch’egli sacerdote, era morto quattro anni prima tra le braccia dell’amata sorella che, pur avendo avuto tanti pretendenti, non si era mai sposata per prendersi cura di lui. Come una profetessa dell’Antico Testamento si era dedicata anima e corpo al Tempio e ai suoi sacerdoti.

Padre Renato, 85 anni compiuti a luglio, ringraziò Marco. “E’ vero. Siete voi la mia famiglia”. Poi pensò al giovane seminarista fiorentino e alla sua preoccupazione manifestatagli due giorni prima riguardo al nuovo padre formatore arrivato da Palermo. “Legge Repubblica, – disse l’aspirante missionario del Sacro Cuore – veste come un metalmeccanico, si vanta di aver fatto il ’68 che di buono ci ha portato solo la minigonna”. Il prete di fronte a quelle parole così dirette non riuscì a trattenere il sorriso. Dopo un attimo di silenzio rispose però con decisione: “Negli anni ’50 i sacerdoti formati nei seminari erano tutti bigotti, fissati col sesso. Quelli formati negli anni ‘70 invece tutti comunisti. Figlio, la Chiesa è fatta di uomini, ma se nemmeno noi preti riusciamo a distruggerla è proprio perché c’è lo Spirito Santo. Pensa a fare il tuo cammino”. Presero poi gli accordi per la mattina seguente, Marco avrebbe saltato le lodi per accompagnare il Superiore alla stazione Termini in vista del triste viaggio verso la salma.

Il giovane sanguigno piaceva molto al vecchio padre, era stato proprio il ragazzo proveniente dalle rive dell’Arno a difenderlo nel Santuario di Nostra Signora da un ubriaco in cerca di soldi che subito dopo il vespro lo aveva preso per un braccio minacciandolo con un coltello. Marco, accortosi del pericolo, arrivò spedito e prima che l’ultraottuagenario prete potesse porgere l’altra guancia buttò il prepotente fuori dalla chiesa. Il giovane in cammino verso la vita consacrata sapeva bene che giustizia e misericordia sono la stessa cosa e l’una non può esistere senza l’altra.

Nella vita di un superiore di una comunità religiosa non c’è mai spazio per restare soli con i propri pensieri nemmeno quando si è sconvolti dal dolore, infatti anche quella mattina padre Renato doveva adempiere ai doveri quotidiani (messa, confessioni, pagamenti vari) e mandare le offerte ricevute da tanti fedeli ai confratelli rimasti a svolgere un perenne apostolato in Brasile. Ah il Brasile! In quegli istanti la mente tornò al passato, a quella terra lontana in cui era vissuto per venti anni. Rivide la natura incantevole, la meraviglia provata alla vista del coccodrillo, immaginò sotto al palato la deliziosa tartaruga in umido e le fettine di serpente più buone del nostro capitone, ma soprattutto ripensò a quella gente dal grande cuore in attesa di Cristo. Quando partì in quel lontano febbraio del 1959 da Genova a bordo della corazzata Coriente – donata dagli americani alla marina argentina per ricompensare la patria di san Benito de Jesus per il suo sforzo bellico – aveva 27 anni. Indimenticabile e commovente il primo scalo a Napoli. Seicento migranti saliti a bordo tra le lacrime dei parenti rimasti al molo. Ad un certo punto più di un disperato minacciando di tornare indietro gridava: “M’aggia ittà” (Mi devo buttare) e da giù “No, statt n’cop” (No, resta a bordo). In quei volti si vedeva la disperazione più totale, sintesi dell’Italia del dopoguerra. Per tanti ormai l’unica soluzione era quella di abbandonare il suolo patrio e cercare di vivere una vita dignitosa oltreoceano.

Dopodiché la grossa imbarcazione proseguì alla volta di Lisbona dove salirono altri mille disperati portoghesi. Un viaggio di 15 giorni, prima di sbarcare a Rio, tutt’altro che confortevole, tra pessimo cibo, porte rotte, brande scomode e bagni impraticabili. Ma in quei giorni per Renato nessuno sconforto, il pensiero era fisso alla sua missione, alla fiamma apostolica accesa da Monsignor Enrico Verjus – missionario del Sacro Cuore, piemontese come lui – nel 1884 per evangelizzare la Papua-Nuova Guinea. Il giovane Enrico nominato vescovo a soli 29 anni nel 1889, morì, dopo aver dato tutte le forze per i fratelli papuani, tre anni dopo. Anche Renato, come l’illustre predecessore, fin da ragazzo aveva in testa e nel cuore la missione, un sentimento che piano piano era diventato realtà. Alla Piccola Opera di Narni, dove studiavano i ragazzi aspiranti religiosi, si respirava a pieni polmoni la voglia di evangelizzare. I piccoli missionari ricevevano ogni mese un aggiornamento sotto forma di lettera dai sacerdoti lontani pubblicato sulla storica rivista Annali di Nostra Signora.

L’indomani padre Renato avrebbe preso il treno veloce per Torino e poi il regionale per Novara dove si sarebbero tenute le esequie della cara sorella. Ci sarebbe stata tutta la città ad omaggiare quella santa donna e lui avrebbe dovuto presiedere la celebrazione. Che fatica non trattenere le lacrime e fare il proprio dovere di sacerdote in quelle occasioni. Alla morte non ci si abitua mai pur sapendo che il battezzato che muore in Cristo Gesù va in esilio dal corpo per abitare presso il Signore, ma il non vedere più una persona a cui si è voluto bene rimane straziante. Per farsi forza l’anziano missionario ripensò all’evento più bello della sua vita religiosa: il battesimo di 99 bambini a Capìn de Urubu, un villaggio sperduto nella diocesi di Pinheiro. All’epoca il rito prevedeva non solo l’aspersione con l’acqua sulla testa ma anche l’utilizzo del sale, simbolo di sapienza. Dalle tre del pomeriggio fino alle otto della sera si protrasse il lavoro del giovane missionario. Tutto quel sale sparso avrebbe sciolto un metro di neve. Alla fine della giornata, esausto ma felice, capì che la sua scelta di andare in missione era stata da sempre la sua grande vocazione. La popolazione indigena aspettava Cristo e lui era il tramite, il ponte su cui passare per accedere alla pienezza della vita.

Marco, per non rischiare figuracce e mantenere la parola data, mise la sveglia alle 5, l’appuntamento era alle 7. Una volta alzatosi, iniziò la giornata con le solite preghiere e dopo aver adempiuto ai riti quotidiani, si fece trovare all’ingresso all’orario prestabilito. Non fece colazione. Padre Renato scese qualche minuto dopo, con la talare cinta da un cordone nero, l’abito ormai in disuso dei Missionari del Sacro Cuore di Gesù. Il vecchio sacerdote era uno dei pochi che ancora indossava la veste che la maggior parte dei religiosi di tutte le congregazioni aveva smesso. Amava ripetere a chi lo provocava: “L’abito non fa il monaco ma aiuta ad esserlo. E’ come il suono delle campane, ricorda a un mondo che non crede, non spera e non ama che Dio esiste”. Marco prese la borsa del padre e insieme si diressero alla fermata dell’autobus in Corso Vittorio Emanuele. Nemmeno un minuto di attesa e il 40 arrivò. Mentre attraversavano le strade del centro di Roma, una signora seduta a poco più di un metro da loro cominciò a inveire contro la Chiesa, i preti “tutti pedofili e sporcaccioni”, il Papa e quant’altro. La provocazione era rivolta al padre. Al giovane seminarista cominciò a ribollire il sangue, avrebbe voluto tanto che quelle parole fossero state pronunciate da un uomo per potergli tirare quattro ceffoni. Ma poi di colpo ebbe l’illuminazione, tirò fuori la sua arma migliore, quella dell’ironia. Pane quotidiano dei toscani. Senza che il padre battesse ciglio, Marco guardò la donna e disse: “Oh signora!! Abbia pazienza preti e puttane son sempre esistiti”. L’intero autobus scoppiò in una allegra risata e più di un passeggero tributò un sonoro applauso al giovane. L’anziano uomo di Dio non batté ciglio e trattenne il sorriso. Marco cercava in quegli occhi chiari e luminosi uno sguardò d’approvazione che non arrivò. Una volta alla stazione, padre Renato salutò Marco ringraziandolo, prima di congedarlo però gli consegnò una cartolina con un’immagine di Sant’Agostino. Il giovane baciò l’effigie del vescovo di Ippona e poi lesse il virgolettato sul retro. “Non credere che tu possa apparir santo se nessuno ti metterà alla prova. Santo lo sei quando non ti turbi di fronte agli insulti, quando ti addolori per chi te li arreca, quando non ti preoccupi per ciò che soffri ma ti rammarichi per colui che ti fa soffrire, tutto in questo è misericordia”. In quel momento Marco provò un’infinita tristezza e capì quanto era lontano dall’essere il cuore di Dio sulla terra, il compito a cui i membri della sua congregazione erano chiamati. Padre Renato invece, ormai sul treno ad alta velocità, non ce l’aveva minimante col giovane, aveva solo fatto la sua parte di superiore. Così prima di tornare ai pensieri tristi e alle parole da dire per l’ultimo saluto alla ‘piccola’ Noemi, trovò la forza di sorridere ripensando alla scena dell’autobus. Quel toscanaccio sarebbe diventato il sorriso di Dio dopo essere stato per lungo tempo il cazzotto di Dio.

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3 commenti su “Pastores dabo vobis – racconto di Domenico Rosa”

  1. Goethe diceva che il termometro della bellezza literaria si è misurata nella ripetizione; ed è vero.
    Caro Domenico, hai fatto un bel lavoro.
    Il tuo testo è davvero bello che non mi stanco di leggerlo

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