Abbiamo parlato della sostituzione di popolo quale mezzo di annientamento identitario della cultura occidentale, diventata ormai scomoda per la prospettiva dei poteri globalizzanti. Tuttavia, la deculturazione non è soltanto un fine del fenomeno sostitutivo, non ne è soltanto un destino o un traguardo, perché ne è anzitutto un presupposto. Proprio alla luce del processo di decadimento culturale e identitario cominciato ben prima che si presentasse l’urto migratorio, è possibile spiegare perché di fronte a questo non ci si difenda adeguatamente, come sarebbe naturale, e perché non se ne mettano neppure in conto le conseguenze.

Si è parlato altrove della incapacità ormai diffusa di leggere le enormi anomalie, imposte anche in via normativa, in cui è immersa la nostra vita e tutto il nostro tempo, e i nessi causali che le governano, e come, davanti a qualunque fenomeno che ci coinvolga da vicino, rimanga quasi del tutto inesplorato il problema delle conseguenze. Eppure è compito elementare del pensiero proprio quello di guidare l’uomo nella conoscenza delle cose, come i segni scrutati in cielo e in mare aiutano il pilota a tenere la barca su una rotta sicura.

Insomma, il programma immigratorio assurdo e distruttivo con cui abbiamo a che fare non avrebbe potuto essere neppure ideato senza quella deculturazione interna, che ha già da tempo attaccato la società dalle sue radici culturali in senso lato. Perché soltanto un popolo già indebolito nel proprio radicamento identitario può farsi terreno di conquista o di rapina senza vendere cara la pelle.

L’Italia era nazione nel senso romano dell’insieme di quelli che abitano il territorio in cui sono nati e dunque hanno un legame forte con la terra, disegnata da confini più o meno naturali. Però l’idea di nazione nel senso politico di rapporto tra cittadino e stato, creata con la rivoluzione francese, non si era ancora sedimentata in virtù di una unificazione programmata altrove. C’era invece quella proiezione sentimentale e morale della appartenenza alla terra dove si è nati, che prende il nome di patria perché ospita le ossa dei padri ed è sentimento spontaneo, naturale e irriducibile.

La Rivoluzione francese aveva messo a morte col re tutti i padri di Francia perché, per creare cittadini uguali e senza passato, bisognava attaccare la famiglia, ma non aveva abolito la patria in nome della quale si marcia contro il nemico. Essa ha percorso ogni letteratura, sublimazione di ogni il primitivo legame con la terra che dal natio borgo selvaggio, dalle amate sponde, o dal Munastero e’ Santa Chiara, si allarga fino a quella idea superiore in cui vengono impegnate le risorse morali più profonde dell’individuo.

Se l’unificazione non aveva potuto creare anche il senso della nazione come concetto politico, il canto verdiano della patria bella e perduta che tanto commosse e ci commuove ancora, fu richiamo struggente per quei ragazzi del 99 che andarono a morire da ogni parte d’Italia sul Carso e altrove, in una guerra scatenata non per loro da altri e per altri interessi. Anche se i sopravvissuti si sentirono abbandonati dalla patria, i nomi infiniti di quei morti per la patria rimangono impressi in mille lapidi e monumenti che ci richiamano ancora alla sofferenza di quella memoria.

Mussolini volle creare la nazione come entità politica, come “vincolo che lega il cittadino allo Stato” da proiettare anche al di là dei confini naturali. Le diede anche una veste architettonica, uno stile, l’ultimo guizzo di una inclinazione artistica atavica propria del genio italico, ma destinata a essere inghiottita, di lì a qualche anno, dal caos estetico postmoderno.

Scriveva Baget Bozzo in L’Anticristo, un libricino che vale sempre la pena di riprendere in mano: “il fascismo aveva avuto il merito di nazionalizzare le masse portando al massimo livello l’unità tra popolo e Stato, e attingendo a tutte le culture, quella liberale, quella socialista e quella cattolica”. Tuttavia anche quella idea di nazione, caduto il regime, si infranse sotto le macerie della guerra. Allora “in un Paese violato nell’anima e nel corpo, la chiesa rappresentò l’unità del popolo italiano oltre ogni divisione, e le toccò rappresentare l’eredità risorgimentale a cui era stata contrapposta e si fece espressione dell’unità nazionale”.Ma durò poco. Ben presto, la radicalizzazione tra destra e sinistra introdotta dal mondo democristiano ha compromesso proprio quell’ideale unitario. Ne ha fatto le spese anzitutto l’idea di nazione. La sinistra l’ha messa subito al bando tradendo l’idea stessa di internazionale socialista, che non abolisce affatto le nazioni ma le presuppone. Con un salto logico ottuso quanto capzioso, l’idea della nazione è stata demonizzata perché fatta coincidere con la pretesa colonialista.

L’oltraggio alla nazione venne poi esteso dalla idiozia sessantottarda che si proclamava di sinistra mentre lavorava alla demolizione dei fondamenti etici della società, anche all’idea di patria. I giovanotti illuminati che non avevano fatto la guerra e godevano del boom economico facendo finta di leggere Marx e anche di capirlo per poter debuttare in società, tra un tiro e l’altro di hashish on the road mettevano i fiori sui loro cannoni e chiedevano, insieme al voto politico, che venisse abolito il vilipendio alla bandiera. In anticipo di mezzo secolo sulla Cirinnà, che per converso si trova ora in simmetrico ritardo rispetto a quelle avanguardie.

Oggi la nazione viene messa ancora una volta insieme al fascismo nel pacchetto dell’antifascismo elettorale con cui l’odierno totalitarismo europeista, mediaticamente dominante, riempie il vuoto del proprio pensiero politico. Operazione in fondo superflua, poiché la nazione segue la sorte dello Stato che impallidisce insieme alla propria sovranità, reso incapace di decisioni politiche di rilievo, e il cittadino non abita più la città ma il non luogo del mondo, senza frontiere. Il non luogo dei poteri sovranazionali che dettano l’agenda politica, etica, economica e culturale.

Se la nazione non ha più lo Stato perché questo non ha più confini propri, va da sé che cittadini senza nazione non avvertano più il suono dell’invasione e tanto meno l’urgenza di difendersi da essa. Ecco che l’invasione non ha trovato per tempo il più naturale e indiscutibile degli ostacoli.

Intanto il borghese fatuo e salottiero che ha trovato elegante affiliarsi alla epocale degenerazione della sinistra si è fasciato anche della bandiera tricolore insieme a quella pluristellata della Unione Europea, tutto intento, attraverso la demolizione controllata della stato nazione, a ridurre l’Italia a parco pubblico disneyano e multicolore per le greggi turistiche low cost.

D’altra parte, in Italia la perdita della nazione e della patria è andata di pari passo con la perdita di quell’identità culturale che segnava una identità di popolo.A margine della discussione sulla unificazione dell’Italia, anche Giacomo Biffi, il grande papa mancato alla storia recente della Chiesa, ebbe a scrivere da vero italiano diventato cardinale che, al di là degli eventi storici e politici, la vera e forte unità dell’Italia risiedeva in una identità storica e culturale, unica in sé, di gran lunga preesistente e indipendente dalla unificazione politica.

L’innesto del cristianesimo sulla eredità greco romana ha avuto come centro l’Italia, ove la chiesa romanica poggia sulle fondamenta del tempio pagano, che ha elargito al mondo gli splendori inarrivabili del Rinascimento e aperto gli orizzonti dell’umanesimo. Eppure, anche questa identità ha cominciato da tempo, tra urti e stravolgimenti, a sbiadirsi nella stessa coscienza collettiva.

La perdita culturale in senso stretto, come perdita di una maturazione estetica, di un patrimonio e di una sensibilità diventate tradizione e storia comune, avviene in genere più lentamente di quanto avvengano i mutamenti delle idee, politiche o filosofiche. Perché del patrimonio culturale parlano le vestigia, l’arte, le architetture, le biblioteche. La cultura di un popolo è il suo bagaglio identitario, il patrimonio comune, sedimentazione etica, sapienziale ed estetica, che si proietta all’esterno, in opere concrete, visibili. Le città si sono arricchite col tempo nel segno della bellezza, come le chiese erano gli splendidi libri sacri a cielo aperto che illustravano la bellezza di Dio e della fede in Lui.

Del resto per molto tempo, e a parte certi furori rivoluzionari, questo patrimonio di bellezza è stato preservato perché le battaglie erano combattute in campo aperto lontano dalla città.

Ma ci voleva la guerra aerea per portare un colpo decisivo alla memoria culturale di un popolo. A quella memoria visiva che trasmetteva anche agli umili non scolarizzati il senso del bello, della storia e delle proprie radici, tutto quello senza cui l’uomo è simile all’animale errante nella savana o nella foresta.

L’oscenità della guerra aerea condotta contro i centri abitati era volta ad annichilire una storia prima ancora che un regime politico, la cui morte sarebbe seguita per forza di cose. Le distruzioni materiali dovevano fiaccare la stessa coscienza identitaria di un popolo, perché sono proprio le pietre, della chiesa, del palazzo, del monastero, che parlano alle generazioni della continuità col passato che pone il futuro. La guerra aerea condotta contro la popolazione civile si è accanita, come sulle città d’arte tedesche, anche sull’Italia, “il più grande deposito archeologico del mondo”, mutilandola di molta memoria. Dal cuore storico di Napoli a Montecassino, da Treviso a Palestrina, dove con parossismo ossessivo ha cancellato tanto in profondità secoli di storia da scoprire grottescamente la immensa planimetria del tempio della Fortuna primigenia che era rimasta seppellita nella collina. E di tanta fortuna sembrano compiacersi ancora, con stranita soddisfazione i fortunati prenestini.

Ma alla distruzione fisica da bombardamento “a tappeto” ovunque è seguito l’oltraggio della belluina ricostruzione speculativa, che ha rimosso con le macerie anche ogni decoro estetico. Comincia l’era della bruttezza inamovibile in cemento armato, ovvero la inarrestabile distruzione postbellica d’Italia.

Così si è fatta largo anche l’ignoranza d’artista, insediata sui piani alti della nuova cultura ufficiale, impegnata a confondere l’occhio e il cervello. Così, spettatori che si muovono come in banchi di pesci possono assistere impavidi ad una pensosa pornografia omosex, a una Walkiria in tailleur, o ad Agamennone in divisa nazista, e applaudire se altri applaudono, per non sprecare il prezzo del biglietto e “per rispetto del lavoro altrui”.

Tutt’altro rispetto meritavano gli inflessibili loggionisti di Parma o Reggio, ultimi pedagoghi nati da un popolo che ha inventato anche il teatro in musica. Ora il popolo tace intimorito, e non azzarda dissenso, se è su commissione dell’autorità accademica di Padova che un Kounellis ha ricoperto la parete di un bel porticato classicheggiante con tavole di vecchio legno tarlato, indicate come commosso “monumento alla resistenza”.

Cicerone riteneva che fosse stato il gusto raffinato degli ateniesi a fornire agli autori tragici la guida per forgiare la propria produzione artistica. Questione non proprio pacifica, come quella dell’uovo e della gallina, ma riproponibile in termini rovesciati ai tempi nostri dove l’imbarbarimento consente alla volgarità ideologizzata di spadroneggiare su tutto lo spazio pubblico. Insomma, i “creativi” da cui siamo afflitti al di là della decenza hanno trovato il terreno molle di una perduta sensibilità culturale identitaria che non ha risparmiato gli spazi intoccabili del sacro, dove anche il silenzio o la musica hanno ceduto al rumore, o alle parole in libertà. 

Va da sé che un posto d’onore per la deculturazione vada riservato alla scuola, dove quest’opera è stata condotta quasi metodicamente di ministero in ministero della fu pubblica istruzione, fino all’epifanica invenzione della Buona Scuola renziana e alla apparizione illuminante della Fedeli Valeria. Qui il discorso si apre a ventaglio su tutti i fattori di deculturazione perché è a partire dalla scuola che questo processo ha assunto la forma di un programma ben deliberato.

Non c’è ora lo spazio per addentrarci in queste acque perigliosissime e penosissime. Basti annotare che, se l’antica paideia mirava a formare il cittadino nel senso di colui che avrebbe dovuto contribuire con l’edificazione morale, l’affinamento intellettuale e culturale al bene della città di cui era orgoglioso abitatore e difensore, oggi l’obiettivo formativo della scuola è indicato nella “cittadinanza”. Che lì per lì sembrerebbe indicare la stessa cosa, mentre ne è l’esatto contrario. Perché la città è stata sostituita a nostra insaputa dalla cosmopoli, in cui nessuno è nato e che nessuno conosce, ma in cui ognuno deve essere disperso, e dunque la cittadinanza segna il non luogo delle idee, della morale, della cultura e della religione, dell’indistinto in cui si forma per tempo una nuova massa di individui omogenei globalizzati, senza sesso, senza patria, senza storia e senza pensiero, e con l’unica certezza del supermercato. Una umanità perfettamente sostituibile e per questo già in via di sostituzione.

3 commenti su “Presupposti di una fine annunciata”

  1. D’accordo. Ma la massa, sebbene inconsciamente, sente ancora di avere un’identità nazionale e denuncia un malessere dovuto alla cultura impostale. Lingua, tradizioni, storia, vecchia cultura, per quanto avvilite, formano un sostrato non eliminabile. Lo dimostra abbastanza il fatto che quasi il 50% degli elettori non voti, e che la maggioranza votante scelga il cosiddetto sovranismo.

  2. Ha toccato i temi centrali del nostro esistere con un pathos che rende l’articolo avvincente. Il suo impegno e l’amore per la Cultura ci sono di aiuto e conforto. Avvilisce infatti un panorama come quello che lei ha tratteggiato con tanta maestria. Sgomenta la visione – sia pure solo televisiva – di una Violetta stravolta e irriconoscibile, in vestaglia, che muore sulla sedia. Sì, una sedia. Era tale il personaggio immaginato dal Maestro? O non era piuttosto giovane, bella ed elegante anche nell’agonia che precedeva il trapasso? Sarebbe sufficiente pescare a caso nel baule degli abiti storici del Teatro oppure vestire gli artisti con abiti da sera, sobri, e lasciare spazio alla musica (divina) e all’interpretazione. E l’architettura? Ha ancora qualcosa da condividere con la Storia e il contesto urbano, con il restauro, con il fascino e i profumi di un giardino antico? Quanto poi agli edifici di pregio è proprio indispensabile classificarli secondo schemi di ordine ideologico, piuttosto che considerarli in base al valore e sulla base di parametri obiettivi al fine di promuoverne la tutela e la valorizzazione? E l’istruzione? Possibile che debba essere anche solo indirettamente assoggettata a programmi “ufo”, non identificati né identificabili che nulla hanno a che spartire con le materie curricolari che sono alla base della vera Scienza? Ha detto benissimo, ci si sente assaliti dal frastuono di parole vuote. Quella più in voga da mesi sembra essere sovranismo. Uno stereotipo per evitare di dire chiaro e tondo quanto anche le pietre hanno compreso perfettamente : vogliamo distruggere tutto quanto esiste di più sacro e nobile. Tutto quello che è passato, presente e futuro dell’umanità. Impossibile : tante generazioni di barbari si sono avvicendate, ma ciò che conta è rimasto. Non è nelle loro mani l’origine né il destino dell’uomo.

  3. Tutto vero. D’altra parte il degrado culturale e sociale, l’affermazione di malsane ideologie gender, l’attacco violento alla famiglia, l’immigrazione selvaggia e imposta al popolo e tanti altri esempi sono sotto gli occhi di tutti. Tutto rientra in un piano stabilito da tempo: la creazione di un’umanità senza valori, senza radici, senza identità, sradicata, e pertanto facilmente manipolabile.
    Presa coscienza di tutto questo la domanda urgente è: come possiamo opporci noi a questa deriva, come possiamo contribuire a contrastarla. In altre parole, come può essere utile ogni persona che voglia opporsi a questi piani distruttivi?

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