Raddrizziamoci con la nostra lingua / VI – Rubrica mensile di Dario Pasero

Caratteristica dei linguaggi settoriali è sia quella di utilizzare parole esclusive del proprio ambiente che quella di dare un valore specifico (appunto settoriale) a parole di uso comune. Alcuni ritengono – e non del tutto a torto – che parecchi linguaggi settoriali (se non tutti) si possano collocare a stretto contatto dei “gerghi”, perché con essi hanno in comune un aspetto, quello della esclusione dei non adepti dalla comprensione, e quindi dalla comunicazione. Una differenza tuttavia si può ravvisare nel fatto che i gerghi (specialmente quelli della malavita e quelli, un tempo, dei mestieri che ambivano alla segretezza) intendono escludere “volontariamente” gli estranei, mentre i linguaggi settoriali spesso raggiungono questo risultato de facto, senza averne inizialmente l’intenzione cosciente e volontaria.

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Raddrizziamoci con la nostra lingua  / VI

(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)

di Dario Pasero

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seconda parte

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Sui libri sacri (anzi, sul Libro, per antonomasia) si fonda la Fede cristiana, anche per ciò che riguarda l’aldilà. Ecco allora venirci incontro il Paradiso, dal greco parádeisos, cioè letteralmente “giardino” (termine di origine persiana) o l’Inferno, inizialmente aggettivo poi sostantivato, dal latino (locus) Infernus, cioè “luogo sotterraneo” (dall’avverbio infra, “al di sotto”). Ricordo, per completezza di informazione, che nella cultura pagana greco-latina il mondo dei morti era tutto sotterraneo (Inferi), ed in esso si trovavano – seppur in luoghi separati – sia i buoni (nei Campi Elisi) sia i malvagi, nel Tartaro o Ade (letteralmente “Invisibile” dal greco A-ídes, “che non si vede”: la radice id- appartiene al verbo horáo, “vedere”, da cui anche la parola “idea”, lett. “immagine”) o ancora Acheronzia (per metonimia: l’Acheronte era uno dei fiumi infernali).

Ancora a proposito dei libri biblici, questa volta dell’AT, mi corre obbligo sottolineare come i loro titoli, a cui siamo abituati e che citiamo normalmente, ci derivino dalla loro traduzione greca (quella ellenistica, cosiddetta “dei 70”), mentre nell’originale ebraico essi sono del tutto differenti. Per esempio il primo libro è da noi conosciuto come Genesi (greco ghénesis, “nascita, origine”), mentre nell’originale ebraico esso ha nome Bereshit, “In principio”: sono le parole con cui inizia il testo (in greco en arché).

Ricordando ora come gli scismatici ed eretici protestanti affermino, come unico ed assoluto, il richiamo alla Bibbia, negando così ogni valore alla tradizione successiva, notiamo come essi si definiscano appunto Evangelici (per sottolineare questa loro scelta) o anche Protestanti, termine che però non deve essere inteso solamente nella accezione più comune di “coloro che protestano” (evidentemente contro la Chiesa di Roma), ma anche nel suo significato etimologico latino (pro testor, “affermo, dichiaro pubblicamente”), in quanto esso nacque in seguito alla lettera di protesta dei principi luterani contro la proclamazione della dieta di Spira (1529), in cui la Chiesa cattolica riaffermò il valore dell’editto della dieta di Worms (1521), condannando come eretici gli insegnamenti di Martin Lutero; in questa lettera si ribadiva ancora una volta l’adesione aperta dei principi tedeschi alle dottrine luterane. Il protestantesimo, a sua volta, essendo una “confessione” del cristianesimo, si suddivide in varie “denominazioni” (battisti, valdesi, metodisti ecc.).

Similmente, le chiese orientali si auto-definiscono “ortodosse” in quanto, dopo la questione del Filioque nel Credo ed il grande scisma d’Oriente (1054), convinte di essere nella “giusta opinione”, rispetto alla Chiesa di Roma, a sua volta auto-definita “cattolica”, cioè “universale”, dal greco kath’holen ten ghen, cioè “(diffusa) su tutta la terra”, da cui l’aggettivo katholiké.

Passando ora ai Sacramenti vediamo quali riflessioni linguistiche possiamo ricavare.

L’Eucaristia è, letteralmente, il “rendimento di grazie”, dal verbo greco eu kharízo, “rendo grazie, ringrazio” (notiamo che in neo-greco efkharistò significa semplicemente “grazie”). En passant ricordiamo che invece il termine “carestia” non ha alcun nesso con Eucaristia, in quanto esso deriva (come anche “carenza”) dal verbo latino carére (“mancare, non avere”): mentre la carenza è una mancanza generica, la carestia è una mancanza ben precisa, quella del cibo. Il Battesimo (nella sua forma greca Báptisma) trae il suo nome dal verbo greco baptízo, che significa “immergo, bagno”; infatti nella chiesa primitiva il battesimo avveniva per immersione e non per aspersione. Infine la Cresima è il Sacramento che si impone con il “crisma”, cioè l’olio benedetto, e quindi chrismare, cioè “segnare col crisma”, la sua forma antica. Anche qui ricordiamo che tradizionalmente l’ungere di olio sacro (in greco khrío, donde khrísma, olio) era il gesto con cui si segnava ufficialmente il re di Israele (che era dunque Khristós, cioè “unto”; in ebraico il Mashīa cioè il Messia). Tale tradizione venne ripresa nel medioevo cristiano coi re di Francia, che venivano “unti” dal vescovo di Reims.

Passando poi dalla storia sacra a quella della Chiesa, essa ci propone tutta una serie di termini che riguardano le gerarchie ed i luoghi di culto. Da “sacerdote” (< lat. sacerdotem, “colui che tratta le cose sacre”) alla forma dotta “presbitero” (forma popolare “prete”), dal greco presbýteron, attraverso il latino presbýterum, comparativo di présbys, cioè “più anziano”. Dal “vescovo”, pronuncia popolare, con aferesi della e- e passaggio p/v, del termine epískopum (dal greco epískopon, proveniente dal verbo episkopéo, “guardare dall’alto, vigilare”), che ha prodotto sia il francese évêque, evidentemente forma derivata dal latino volgare evescovum, sia il germanico bish- (tedesco bischof, inglese bishop) al Cardinale, cioè colui che è figura “cardine” (cardinalem) della chiesa. Nelle chiese di rito greco (anche cattolico) abbiamo poi, equivalente all’abate, l’archimandrita, letteralmente “colui che guida il monastero” (árkho, comando, mandra, “recinto” e poi “monastero”), mentre il diacono è colui che (altro etimo di origine greca) “si prende cura”, dal verbo diaconéo, appunto “servo, curo, accudisco”.

Nel lessico architettonico-artistico religioso abbiamo poi una serie di parole di uso abbastanza comune, anche se talora da chiarire: “chiesa”, ovviamente, dal greco ekklesìa (latino ecclesia), cioè “adunanza, assemblea”; “duomo”, dal latino domus (casa), cioè la casa per antonomasia, quella di Dio; “cattedrale”, il duomo in cui, essendo sede vescovile, si trova la cathedram, cioè il trono, appunto, del vescovo. A proposito degli ordini monastici abbiamo l’abate (dall’aramaico ab, “padre,” greco ecclesiastico abba; e così poi abbazia, ed anche “badia” e “badessa”, con aferesi della prima sillaba); il priore (dal latino priorem, “colui che sta più avanti”, compativo di prae, “davanti”), il padre guardiano, che non è colui che sta di guardia alla porta, ma il monaco che controlla, guarda (cioè dirige) i suoi confratelli. E poi il monastero, dal greco monastérion, derivato a sua volta da mónos (solo, unico), cioè “luogo dove si vive solitari”, il cenobio invece è dove si vive “in comune” (dal greco koinós bíos, “vita comune”) e ugualmente il convento, dove si vive insieme (< cum venio, “riunirsi”). Il “tempio”, dal latino templum, a sua volta connesso col greco témenos, indica propriamente lo spazio sacro “tagliato” (la radice indoeuropea *tem-/tam- vale “tagliare”), cioè isolato dal resto, e poi recintato. In realtà, almeno nel paganesimo, lo spazio “tagliato” era quello indicato, in cielo e con la sua verga, dal sacerdote: tale spazio di cielo veniva poi, per così dire, “riportato”, nelle sue dimensioni, sulla terra ed andava a costituire lo spazio da recintare e consacrare: esso era il témenos, il recinto sacro, appunto. Da templum abbiamo poi, in latino e quindi in italiano, “contemplare”, che inizialmente indicava appunto il guardare e segnare lo spazio aereo corrispondente a quello su cui sarebbe sorto il sacro recinto. I cavalieri templari, su cui tanto si loquia e si sproloquia, erano per l’appunto i cavalieri del Tempio, quello di Gerusalemme: nei vaniloqui massonici il “tempio” massonico dovrebbe riprodurre (almeno in scala) le misure del tempio di re Salomone.

Al capo opposto della scala troviamo invece l’Avversario, il Nemico, o il Maligno, chiamato così secondo un processo di “censura eufemistica”, o se preferite di “eufemismo censorio”, cioè quel modo di pensare tipicamente popolare per cui non si nominano esplicitamente le cose negative (diavolo, malattia, morte…) per timore di evocarle, se le si chiama col loro nome. Teste Dante Alighieri, che nel canto XIV del Purgatorio, a proposito del fiume Arno, fa dire ad un’anima (quella dell’invidioso Rinieri da Calboli) “[…] Perché nascose/ questi il vocabol di quella riviera/ pur com’om fa de l’orribili cose?” (vv. 25-27).

Di costui i nomi sono molti, come si addice a chi divide, o anche che calunnia, il diavolo (< greco diábolos, dal verbo diabállo, “divido”, ma anche “discredito, calunnio”) e notiamo come il termine latino, nella sua pronuncia dotta diabolum, abbia lasciato in italiano moderno l’aggettivo “diabolico”, mentre la pronuncia popolare porta “diavolo”. Demonio ha anch’esso un’origine greca, dal termine dáimon, (latino daemon), utilizzato da Platone in alcuni suoi dialoghi per indicare il “demone” socratico, cioè quella sorta di spirito, di custode interiore che consigliava ed aiutava Socrate – a sentire appunto Platone – nel prendere decisioni importanti. Da Platone deriva tutta una corrente filosofica (il cosiddetto “medio-platonismo”) che elaborerà la teoria dei “demoni”, esseri positivi simili agli angeli della tradizione giudeo-cristiana. Polemizzando col medio-platonismo il cristianesimo stabilirà quindi che i “demoni”, essendo pagani, non possono essere buoni, ma diabolici. Abbiamo poi ancora Avversario, colui che sta di fronte, che ci fronteggia, che sta nella direzione a noi opposta (ad versus), e infine Satana, termine ebraico che troviamo anche nell’AT, e Lucifero, nome usato in conseguenza alla ribellione degli angeli. Lucifero, il più bello degli angeli (il suo nome vale appunto “portatore di luce”, cioè di bellezza), dopo la ribellione, pur divenuto diavolo, mantenne il suo nome, come testimoniato anche da Dante nell’Inferno.

Concludiamo con una nota di simpatia nei confronti dei nostri Antenati, che, pur masticando poco o nulla il latino, seguivano la Messa e pregavano rigorosamente nella lingua liturgica per eccellenza. È pur vero che, talvolta, la pronuncia vacillava alquanto, in base, ovviamente, alla cultura dell’orante. Abbiamo così una serie di errori che fanno persino tenerezza se pensiamo che nascono dal coniugare la devozione e la semplicità nella Fede dei nostri vecchi con la loro – purtroppo – scarsa dimestichezza con la lingua di Cicerone.

Uno per tanti. Dalle mie parti si segnalò una Santa tutta particolare: Santa Bisòdia, il cui nome, che non compare su alcun calendario, nasce dalla pronuncia frettolosa del versetto del Pater noster che suona “da nobis hodie…”, pronunciato appunto “dano bisodie”; da qui il passo è breve al pensare ad un nome proprio Bisòdia, che, trovandosi all’interno di una preghiera, doveva per forza essere il nome di una qualche Santa, magari poco conosciuta, ma Santa. Non solo, ma da questa pronuncia erronea si generò poi anche il verbo bisodié, che significa “biascicare preghiere a mezza voce”.

A questo proposito, per approfondire l’argomento consiglio la lettura di Sicuterat (sottotitolo: Il latino di chi non lo sa) di Gian Luigi Beccaria (Milano, 1999), grandissimo linguista, uno dei primi a dare autonomia di disciplina alla storia della lingua italiana rispetto ad altre discipline linguistiche, quali la linguistica romanza e la glottologia, ma anche corifeo del “prendattismo”, cioè quell’atteggiamento mentale, che tanto bene ha fatto soprattutto nella scuola dell’obbligo, per cui: «sì , è vero, questa forma è errata, oppure così non si dovrebbe dire, ma dobbiamo “prendere atto” che la lingua va in quella direzione e noi non la possiamo fermare con la matita rosso-blu…»

(2. fine)

2 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua / VI – Rubrica mensile di Dario Pasero”

  1. Luciano Pranzetti

    E’ sempre un immenso piacere – grazie Dario – navigare sul ‘mare magnum’ della genesi delle parole. Specialmente in quest’epoca che si connota di un vergognoso sfoggio di anglomanìa e di pressappochismo. “Tornare allo Statuto!” così come tornare alla fonte greco/latina in cui è depositata l’identità dell’italiano. Perché, se i cronisti tv-giornali sapessero che, ad esempio, il verbo “evacuare” è un tardo latinismo E-VACUO, cioè ‘vuoto da – svuoto’, categoria transitivo di uso prettamente clinico laddove, nella fattispecie indica l’operazione di svuotamento intestinale – vulgo = clistere – e che al passivo fa “essere svuotato”, si guarderebbero dal dire, e dallo scrivere “evacuate 200 persone” poiché a una calamità – ad esempio – un incendio in un rione, si aggiungerebbe un esito indecoroso e sgradevole di 200 persone a cui è stato praticato quel drenaggio di cui sopra, tanto caro al malato di Molière, Argante e al suo dottor Purgon.

  2. Carla D'Agostino Ungaretti

    Grazie, Professore, di questi suoi splendidi articoli! Quest’ultimo specialmente mi ha fatto fare un tuffo nella mie lontane infanzia e adolescenza, quando mio fratello ed io avevamo una tata, donna incolta ma di fede granitica e di una straordinaria sapientia cordis, che recitava il Rosario nel suo latinorum. Noi ragazzi la prendevamo in giro, ma crescendo abbiamo capito quanto le eravamo debitori e quanto la Madonna gradiva quell’umile preghiera, molto più sincera di quella di tanti sapienti.

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