Raddrizziamoci con la nostra lingua / VIII – Rubrica mensile di Dario Pasero

In italiano, come in altre lingue, ci sono “coppie strambe”, o meglio coppie di parole molto simili tra loro nella grafia, ma comunque diverse, e per altro diversissime nel significato.

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Raddrizziamoci con la nostra lingua  / VIII

(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)

di Dario Pasero

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Un fantasma, anzi più d’uno, si aggirano per l’Europa e per il mondo.

Nei manuali di linguistica compaiono sotto la voce odd pairs and false friends.

Sono quelle parole che, pur appartenendo a lingue diverse, si assomigliano a tal punto da costituire, come da definizione, coppie “strambe” di “falsi amici”, poiché, se il loro aspetto esterno è molto simile, i loro significati sono invece differenti da una lingua all’altra. A volte anche molto differenti.

Prendiamo, ovviamente, l’italiano e vediamo alcuni di questi casi in relazione con due lingue ampiamente, non dico conosciute, ma quantomeno diffuse: il francese e l’inglese.

In francese sacrer è bestemmiare, mentre in alcuni casi può avere il valore del “consacrare” italiano; così jurer significa sia “giurare” che “imprecare” (in Piemonte abbiamo il modo di dire giuré ’ma ’n catalan, “bestemmiare come un catalano”) e fermer significa “chiudere” e non “fermare”, che si dice arrêter. In inglese engineer non sempre è l’ingegnere, ma vale quasi sempre “tecnico” (sound engineer, “tecnico del suono”) o addirittura “meccanico” o ancora “macchinista” ferroviario (negli USA); officer solo in alcuni casi è “ufficiale”, mentre spesso vale “agente” (police officer, “agente di polizia”); per rimanere ancora nell’inglese, canteen non è tanto la “cantina” quanto la “mensa”.

Questa breve premessa serve ad introdurre l’oggetto di questo intervento: anche in italiano ci sono “coppie strambe”, o meglio coppie di parole molto simili tra loro nella grafia, ma comunque diverse, e per altro diversissime nel significato. Parole che, purtroppo, a causa dell’ignoranza galoppante – tra l’altro anche nella categoria dei giornalisti, che fa (come si dice) “tendenza” – vengono ormai tranquillamente confuse e scambiate le une con le altre.

Ecco le più diffuse, in rigoroso, anzi – per adeguarci all’argomento – rigorista (sic), direbbe qualcuno, ordine alfabetico.

Un tempo, coloro che subivano un avvelenamento non troppo grave potevano essere curati ingerendo una robusta dose di un farmaco “emetico”, tale cioè che favorisse il vomito (in greco il verbo eméo significa appunto “vomitare”) così da espellere il veleno insieme al vomito stesso. Ben diversa cosa un recipiente che sia “ermetico” o ancora – se vogliamo salire di livello – la poesia ermetica. “Emetico”, che favorisce il vomito, “ermetico”, a chiusura perfetta oppure una poesia appartenente ad una corrente letteraria del nostro Novecento. Voi capite quanto, specie nel caso della poesia, lo scambio tra i due aggettivi sia decisamente imbarazzante.

Troppe volte – soprattutto sui giornali o nei notiziari televisivi, radiofonici o in rete – troviamo (ahimè) anche penne discretamente valide sostenere che, faccio un esempio, “all’imputato sono stati erogati 10 anni di carcere…”. Ohibò, ma non è l’azienda del gas o quella dell’acquedotto che “eroga” il suo servizio, mentre il Codice e, quindi l’autorità giudiziaria, irroga una sanzione o una pena? Che pena…

Anni or sono, su di un giornale di cui taccio il titolo (fondato comunque, con la testata attuale, a Torino da Alfredo Frassati nel 1895), lessi un articolo di costume in cui si parlava dei sepolti “eccellenti” nel cimitero della città in cui vivo (in primis, ovviamente, Adriano Olivetti…): ebbene, ebbi la sensazionale notizia che in questo cimitero, oltre al campo dei cattolici esistevano anche quello degli ebrei e quello degli “evangelisti”. D’accordo, sapevo che in esso fossero sepolti dei grandi personaggi, ma che tra questi ci fossero anche San Marco, San Matteo, San Luca e San Giovanni era una notizia che mi giungeva assolutamente nuova.

Sempre a proposito di giornalisti (o presunti tali…), ho recentemente letto il titolo di un articolo in cui si stigmatizzava il modo di comportarsi di una coppia di genitori “degeneri”. Ora, se le parole hanno un senso, “de-generi”, cioè che escono (de-) dalla strada retta del genus (cioè della famiglia), possono essere i discendenti, e non gli ascendenti, che saranno, tutt’al più, “snaturati”, cioè non rispettosi della natura del loro ruolo di genitori, a meno che si voglia sottolineare che i genitori siano “degeneri” in quanto a loro volta figli, ma mi sembra che così si scivoli nel cervellotico e, soprattutto, nell’ottimismo a riguardo della conoscenza del lessico italiano.

Un tempo, quando cominciarono a viaggiare gli omnibus nelle nostre città (io non lo ricordo, ma me lo raccontava mia nonna), chi viaggiasse sulla parte superiore del mezzo si diceva che viaggiava sull’“imperiale”, aggettivo ora poco usato ma che comunque si riferisce – direi con buona probabilità di esattezza – a qualsiasi cosa riguardi un imperatore o un impero, così come l’Imperial-Regio Governo (I. R o K. K. se citato nella lingua ufficiale) dei nostri antenati sudditi di Francesco Giuseppe. Sentir dire dunque da un cronista sportivo televisivo che l’azione che aveva permesso al corridore XY di vincere la tappa odierna del Giro d’Italia era stata favorita da uno “scatto imperiale”… invece che “imperioso” mi ha fatto dubitare della sanità mentale non soltanto del cronista ma anche di chi lo aveva assunto.

E che dire, poi, di chi confonde “innescare” con “innestare”, per cui veniamo a sapere che “si innesta” una rissa, mentre una strada si “innesca” in una più grande oppure che viaggiando in auto in un tratto particolarmente impervio si debba “innescare” una marcia più bassa. Nella stessa categoria aggiungiamo anche che secondo taluni “i soldati procedevano con la baionetta innestata” (invece che inastata).

Oppure cosa pensare di chi fa diventare “virtuale” un atteggiamento “virtuoso”: potenza dell’informatica; o ancora di chi si sorprende di quanto i giovani d’oggi siano “viziosi” dai loro genitori a tal punto da vivere una vita assolutamente “viziata”. Oppure ancora la coppia “accentuare/accentare”, per cui “il senso di insicurezza in questi ultimi tempi si sta accentando”. Infatti: diventa sempre più acuto e più grave… Oppure “schernire/schermire”: quanti ragazzi ho letto essere stati “schermiti” da bulli e bulletti a scuola o per la strada, mentre i più riottosi alla pubblicità si “schernivano” non volendo finire sotto la luce dei riflettori… O ancora “chiosco (dal turco kyösk, “villa”)/chiostro (dal latino claustrum, “chiuso”)”: quanti di noi non hanno letto che “il personaggio Tale” ha scelto il silenzio del “chiosco”? Meno male che spesso si usa il diminutivo “chioschetto”, che se non altro ci evita di dover leggere o sentire che “è stato aperto un nuovo ‘chiostretto’ all’angolo della piazza”.

A questo elenco aggiungiamo poi che molti confondono (ma qui rasentiamo addirittura la raffinatezza: ebbene sì, anche nell’ignoranza abbiamo varie gradazioni di stile, ma tuttavia sempre di ignoranza si tratta) “coreutico” con “corale”, ignorando evidentemente che coreutico significa ciò che concerne la danza (dal verbo greco choréuo, danzo) e non la musica eseguita da un coro.

Letta ultimamente su di una testata virtuale. “La persona XY è stata condannata ad una pena peculiare…”, per indicare una multa. Ora, è vero che “peculiare” e “pecuniario” hanno, ab antiqua origine, lo stesso etimo (cioè pecus, bestiame: è un po’ lunga da spiegare e quindi, per ora, tralascio, ma fidatevi…), ma è altrettanto vero che la loro storia si è poi svolta su binari completamente diversi. Oppure (altra ipotesi) l’articolista voleva davvero intendere che la pena comminata era assolutamente personale e strettamente connessa al condannato, a tal punto che a nessun altro mai potrà essere inflitta. Troppo cervellotico e, soprattutto, troppo ottimistico rispetto alla cultura di certi pennivendoli (“giunta l’ora di ‘vender parolette’ […] e farsi baratto o gazzettiere”, come dice il nostro Guido Gozzano in Totò Merùmeni, vv. 21sg.).

Meno perspicua la coppia “correttamente/correntemente”: la loro confusione non è propriamente un errore, dato che l’uso corretto vuole che si dica che “Tizio parla correntemente il francese”, ma è pur vero che chi parla “correntemente” (cioè in modo fluido, scorrevole) in genere – ma non sempre – parla anche “correttamente” (cioè senza errori).

Altri esempi in rapida successione: so di non esaurire l’elenco, ma chiunque tra i miei lettori lo potrà certamente arricchire (e per favore non chiedetemi di usare il contemporaneo “implementare”, che dovrebbe essere proibito per legge…). I più abili dovrebbero conoscere che differenza passi (notare il congiuntivo con valore, viste le premesse, di dubbio ed incertezza) tra il far “prillare” e non “brillare” una trottola piuttosto che una carica esplosiva. Altra coppia diabolica, ancora più subdola perché realizzabile e percepibile solo nello scritto: “centrare/c’entrare”. “Cosa centra questo con noi?” Mah… Per fortuna non ho ancora visto (ma temo mancarci poco): “L’arciere ha c’entrato il bersaglio…” oppure congratularsi con qualcuno per “aver c’entrato il problema”. E così avallare, “consentire, dare il proprio beneplacito” (e l’avallo è la firma di garanzia su di una cambiale o su di un contratto), spesso scritto con la doppia –vv- (avvallare), in realtà di uso molto raro col significato di “mettere a valle, abbassare”. Recentemente ho avuto l’onore (e l’onere, mentale) di sentire “paludato” (ornato, agghindato) confuso con “paludoso”, all’interno di una discettazione politico-filosofica (!) nella quale un interlocutore sosteneva che addentrarsi in quell’argomento era un rischio perché “terreno paludato” (e non credo che volesse usare una metafora, dato che poi ha rincarato la dose con “scivoloso” per far capire bene a tutti che era proprio convinto del significato di “paludato”). Sempre tra i politici (o presunti tali) quante volte sentiamo confondere (e con la prosopopea loro tipica…) la “legislatura”, cioè il periodo di tempo in cui il parlamento è in carica (“L’attuale legislatura sta producendo solo leggi inique”), con la “legislazione”, l’insieme delle leggi relative ad un determinato argomento (“La legislazione relativa alla scuola è obsoleta”, altro termine, quest’ultimo, da vietare per legge: ricordiamocene nella prossima legislatura).

Variante leggermente più antica e, in parte alquanto demodée, ma forse anche meno arrogante, del “Lei non sa chi sono io” era la formula “Io ho delle aderenze in…” (poi a scelta: giornali, comune, questura, parlamento, ecc.), termine (aderenza) che aveva (ed ha) anche un suo bravo valore nel lessico settoriale della chirurgia, ma che esso venga usato con pervicacia degna di miglior causa per indicare, al posto del corretto “adesione”, l’aderire ad un partito, ad una associazione ecc. va al di là di ogni ragionevole ammissibilità: “Ho comunicato la mia aderenza all’associazione che si occupa di aiutare gli scimpanzé operati di adenoidi…”

Quando avevo meno primavere sulle spalle vedere una bella ragazza con la minigonna poteva essere una vista “provocante”, mentre il militante studentesco-operaista che ti sbeffeggiava perché all’università ci andavi per seguire le lezioni, e non per essere indottrinato su qualche affronto borghese al proletariato, era spesso “provocatorio” nei tuoi confronti. Ora invece, finite le minigonne (indumenti ormai per educande, visti certi capi di vestiario che vanno per la maggiore) e spariti i militanti in favore di più concreti (e maneschi) frequentatori di “centri sociali” ed equivalenti parafernalia, i sorrisi delle belle ragazze sono spesso “provocatori”, mentre le parole di qualche sparuto contestatore al “concertone” del 1° maggio sono davvero “provocanti”. Come cambia il senso estetico nel giro di circa mezzo secolo…

Non parliamo poi di altre ambiguità che, seppur accettabili dal punto di vista strettamente semantico, denotano tuttavia come e quanto la nostra civiltà sia cambiata e continui a cambiare anche attraverso l’uso lessicale.

Alcuni esempi. Un tempo il “cellulare” era quel furgone su cui i questurini caricavano i “fermati” (o le “fermate”, nel caso della “Buoncostume” di mai sufficientemente onorata memoria) durante le retate che un tempo avvenivano, e con una certa frequenza, nelle grandi città. Ai giorni nostri, in cui di retate non se ne fanno più e durante i quali dobbiamo ringraziare quando un delinquente non viene rimesso in libertà entro le 4/8 ore successive all’arresto, il “cellulare” è oramai per tutti (lippis et tonsoribus) il telefono portatile. Bene fanno i nostri vicini francesi a chiamarlo, in modo più empirico e più legato (volevo dire “connesso”, ma poi mi sono reso conto che oramai questo verbo viene usato in tutt’altro senso) alla sua natura, “portable”, così come chiamano ordinateur il computer, che da noi si è tentato, ma con scarso successo, di definire “calcolatore (elettronico)”.

Un tempo si conferiva un’onorificenza, ma ora, dato che le onorificenze sono decisamente in ribasso (anche perché latitano sempre più le persone che ne siano degne), ci stiamo piegando a “conferire” i rifiuti nelle discariche. E così possiamo citare termini come “palmare”, un tempo solamente aggettivo col significato di “ovvio, evidente”, ora invece un tipo di congegno elettronico. Ma già anche in fasi più antiche della nostra lingua troviamo termini che assumono significati diversi col passare del tempo: parenti, un tempo (latinamente) i genitori, poi i famigliari ed affini; ergastolo, inizialmente casa di correzione, e di lavoro per minori (ergázomai greco vale “lavorare”): il tristo (e non “triste”) Franti, bullo ante litteram del deamicisiano libro Cuore, viene appunto mandato “all’ergastolo”, poi luogo di detenzione e (metaforicamente) pena detentiva che dura tutta la vita del condannato.

Sono, tutti questi, casi di polisemia (molti significati di una sola parola), che diventano talora anche anfibologie, cioè significati doppi e dubbi di uno stesso termine. Quando quel grande attor comico (peraltro autodidatta) che fu Ettore Petrolini (1884-1936) diceva, nella sua macchietta forse più famosa (Gastone), di essere molto “ricercato”, aggiungeva poi “ricercato nel parlare, ricercato nel vestire, ricercato dalla Questura…”, giocando così sulla polisemia anfibologica del participio passato del verbo “ricercare”: ora “raffinato, squisito”, ora invece “oggetto di ricerca da parte dell’autorità”.

5 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua / VIII – Rubrica mensile di Dario Pasero”

  1. Luciano Pranzetti

    Gustosa gallerìa degli ‘sfondoni’ che, per la disinvolta ignoranza, appannaggio anche del ceto “medio-riflessivo” – scriveva, ironicamente, Paolo Granzotto – lascia un gusto amaro. Racconta mia sorella, ex infermiera di studio medico, di un tale, così detto acculturato, che alla domanda del dottore rispose che, sì, avvertiva un leggero “pleurito” nel padiglione auricolare. Evidente, si tratava di un prurito. Una bella puntata, caro Dario.

  2. Computer significa “colui che fa i conti”. Nei giornali inglesi di fine ‘800 è frequente trovare qualcuno che cerca un computer da assumere. La sua traduzione corretta in italiano sarebbe dunque (macchina) calcolatrice ma un computer elettronico fa molto di più che fare i conti per cui in italiano andrebbe tradotto non come “calcolatore elettronico” bensì come “elaboratore elettronico” come si fece per qualche tempo molti anni fa.
    Per altro noi italiani siamo anche gli unici ad aver lasciata immutata la parola “mouse” (per il computer) che in realtà significa “topo”. Gli altri popoli lo hanno tradotto ed in francese si dice “souris” ed in spagnolo “raton”. Ciò portò ad una buffa storiella basata su di un traduttore che pensava che anche in italiano fosse stato tradotto in “topo” e a delle istruzioni, allegate ad un mouse (di quelli di una volta con una pallina sotto), su “Come cambiare le palle al vostro topo”.

  3. Alessandro Raucci

    Complimenti! Gustoso ed istruttivo. Però… …però nel mio piccolo avrei detto che una baionetta si innesta e non si inasta. Ed infatti è una appendice del fucile e non è posta sopra un’asta. Ed anche in passato gli unici noti ad aver messo baionette sulle aste, in mancanza di fucili, furono i Garibaldini a Mentana (vi è una fotografia eloquente di un trofeo d’armi catturate dai Papalini in quella circostanza) e la territoriale britannica nel ’41, per paura dello sbarco tedesco… Un po’ poco per fare letteratura. O no?

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