Raddrizziamoci con la nostra lingua / XI – Rubrica mensile di Dario Pasero

Parliamo di etimologia, procedendo con la dovuta cautela per non cadere nella trappola dell’etimologia fatta “ad orecchio”.

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Raddrizziamoci con la nostra lingua  / XI

(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)

di Dario Pasero

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Uno scrittore minore del nostro Ottocento, cioè Tommaso Vallauri (alzi la mano chi lo conosce come studioso di antichità romane, le alzi tutt’e due chi sa che ha anche scritto una raccolta di novelle italiane), tra le sue Novelle ne inserì una dal titolo L’etimologista (e precisamente la XIII della raccolta, edita nel 1873).

Il nostro Autore, dando esempio di notevole coerenza intellettuale, per tutta la vita difese una visione antiquaria e miopemente “umanistica” degli studi classici, opponendosi strenuamente a quella che egli riteneva essere una indebita intrusione della filologia scientifica tedesca in un campo di esclusiva pertinenza dell’umanesimo italico. Egli mantenne con orgoglio per tutto il tempo della sua carriera universitaria (che fu molto lunga: dagli anni ’30 del secolo fino a poco prima della sua morte, avvenuta nel 1895) la dicitura, per la materia del suo insegnamento, di “Eloquenza latina” invece che di “Letteratura latina”, come volevano i tempi nuovi. Nel testo di cui sopra – come d’altra parte in quasi tutte le sue novelle, scritte con intento chiaramente moralistico-polemico – egli attacca la moda tedesca di “imporre” l’analisi scientifica e glottologica (ma non sempre la modernità è perniciosa…) anche agli studi di etimologia. Per fare ciò egli ci presenta, elogiandola, una figura inventata – abbastanza scialba, per la verità – di erudito noto nella sua città (Firenze) per i suoi studi etimologici, basati però sull’intuizione e sull’impressionismo fonetico (le cosiddette “para-etimologie”) e non sullo studio dell’evoluzione storica delle lingue, in questo caso quelle classiche.

Di etimologisti come quello presentatoci dal Vallauri, che – detto per inciso – era pure mio compatriota, essendo nato vicino a Cuneo, è pieno (o quasi) ancora oggi il mondo: proprio per questo motivo in un campo come quello della storia della lingua e, conseguentemente, dell’etimologia bisogna procedere con la dovuta cautela e con tutta la prudenza che la situazione richiede.

Dobbiamo comunque ammettere che nella trappola delle etimologie caserecce, “de noantri” e fatte “a naso”, sono caduti, nel corso dei secoli, fior di intellettuali, a cominciare da Marco Terenzio Varrone (età di Cesare, I secolo a. C.), il quale in un passo del suo De lingua latina (a noi giunto, purtroppo, frammentario) ci dice che il lucus (da cui anche la regione della Lucania), cioè il bosco sacro, deriva il suo nome a non lucendo, cioè perché “non ha luce al suo interno”. Questa etimologia, che fa parte di quelle definite e contrariis, secondo cui cioè una parola nascerebbe dalla mancanza di un elemento, è errata (a tal punto che tutta la frase lucus a non lucendo ha assunto un valore proverbiale per indicare “un’ipotesi completamente sbagliata”), anche se, paradossalmente, essa ha in sé qualcosa di giusto. Infatti la parola lucus deriverebbe proprio da lucem, ma non certamente e contrario (la luce nel bosco non c’è o è comunque molto fioca), bensì perché in realtà essa indicherebbe la radura centrale di un bosco, l’area prescelta per i sacrifici perché l’unica in cui, appunto, penetra la luce, simbolo della divinità.

Da lucem (equivalente in greco al tema leuk-, donde leukós, “bianco”, mentre la parola indicante la luce è phos) abbiamo una serie lunghissima di derivati in italiano: lucore, lucerna, lume, il piemontese lòsna (“fulmine”, dal tardo latino lucina), così come da un’altra radice indoeuropea relativa alla “luce”, ma più propriamente “luce del giorno”, cioè di₣(j)- (si legga div(j)-), abbiamo la forma greca: Di₣ós (genitivo di Zeus, da cui deriva il nome dei Dioscuri, Divós kouroi, Castore e Polluce, letteralmente “figli di Zeus”) e le latine dies, dives (lett. “splendente”, poi “ricco”), deus, divus, e di qui le forme italiane: di (giorno), divizioso, Dio, divo…

Nella trappola dell’etimologia fatta “ad orecchio” cadde comunque anche un intellettuale insospettabile del calibro di Dante Alighieri: grandissimo sì, sono il primo ad ammetterlo, ma tuttavia umano e quindi fallibile.

Infatti nel paragrafo 2° del capitolo XVII del primo libro del De vulgari eloquentia Dante, trattando di quell’idioma che egli definisce “volgare illustre”, così scrive:

«[…] Quando si usa la parola “illustre”, si intende un qualcosa che illumina o che, se è colpito da luce, risplende […]» (trad. dal latino di C. Marazzini e C. Del Popolo)

In realtà la parola italiana “illustre” (e la sua origine latina illustrem) non deriva affatto, come sembrerebbe ad una analisi superficiale, da lucem, come intende anche l’Alighieri, ma dal verbo latino illustro, a sua volta composto di lustro, che significa “visito, vado a trovare”. Pertanto l’uomo, o il luogo, “illustre” è quello che è famoso (l’aggettivo italiano “illustre”, appunto) in quanto molto visitato (lo stesso ragionamento vale per “celebre” < lat. celebro, “visito”).

Chi poi ha parecchie primavere – come me – sulle spalle e quindi (come affermava Seneca) il numero dei suoi ricordi è inversamente proporzionale a quello delle speranze, ricorderà che nella tarda primavera nelle nostre campagne era in uso la pratica delle “rogazioni” campestri: il curato, di mattina presto, accompagnato dai fedeli visitava le cappelle rustiche del territorio per pregare e chiedere la protezione di Maria e dei Santi sulle campagne (da noi si pregava in particolare San Grato, il santo che protegge i raccolti da grandine e temporali). Ebbene, queste rogazioni rimandavano alla tradizione romana delle “lustrationes”, le “visite” alle are delle divinità da parte della popolazione, di cui ci restano come (seppur minima) testimonianza alcuni frammenti poetici di carmina lustralia, uno dei più antichi testi della lingua latina. Parlare di carmen (plur. carmina) mi fa sovvenire del fatto che questo termine, prima che “poesia”, valeva “formula magica, incantesimo in versi” (cfr. Virgilio, ecl. VIII, nota come Le incantatrici), valore conservato nel vocabolo francese charme, che significa appunto “fascino, malia, incanto”.

In italiano abbiamo – è cosa nota – due lingue da cui si può ricavare la storia della maggior parte dei nostri vocaboli, cioè il latino (specie quello popolare, ma non solo) ed il greco (classico e bizantino). Possiamo poi ancora aggiungere che una buona parte delle parole di etimo greco ci vengono in realtà attraverso il latino, che recepì queste parole, le adattò alla sua fonetica ed alla sua grafia e quindi le lasciò in eredità alle lingue romanze. In genere, ma non è regola matematica, i termini dotti ci vengono direttamente dal greco (grecismi diretti), mentre quelli popolari attraverso la mediazione del latino (grecismi indiretti). In realtà siamo subito smentiti dalla parola “filosofia”, termine dotto, ma grecismo indiretto dal latino philosóphia, parola in cui l’italiano ha però ripristinato la pronuncia originaria greca philosophìa.

Possiamo poi notare come l’italiano possieda, più che non le altre lingua romanze, proprio in virtù della sua origine dal latino volgare, cioè parlato, senza il frapporsi di sostrati alloglotti (fenomeno di cui parleremo comunque altra volta), ma mescidato tuttavia con parole greche, una ricchezza di lessico datagli dalla possibilità di usare in alcuni casi due parole (una assolutamente latina, l’altra greco-latina o greca tout court) per indicare lo stesso oggetto o concetto, mantenendo invariato il significato, oppure, talora, dandogli sfumature diverse.

Alcuni esempi. Una raccolta di testi, in genere letterari, o comunque una raccolta di frammenti di vario tipo, anche musicale, è – lo sappiamo tutti – una “antologia” (dal greco ánthe, fiori, e légo, raccolgo), una raccolta di fiori, dunque, e allora perché non “florilegio”, che, usando l’etimo latino, vuol dire esattamente la stessa cosa (flores, fiori, lego, raccolgo)? Delle due forme la seconda è da noi ormai sentita come antiquata, e per questo scarsamente usata, ma ha legale cittadinanza linguistica con (mi si passi la metafora ardita) tutti i timbri e i sigilli di ceralacca validi e regolari. Possiamo ancora aggiungere che la nostra lingua ha un terzo vocabolo, sinonimo dei due precedenti, cioè “crestomazia”, con una sfumatura tuttavia leggermente diversa. Trattasi infatti, sì, di una raccolta di testi, ma con finalità esclusivamente didattica e scolastica, come ci spiega il suo etimo greco: chrestós, “utile”, e mátheia, “apprendimento” (dal verbo mantháno, “imparo”, da cui il tema math- presente in altri termini italiani, come “matematica”, che è “l’arte dell’imparare”). Quindi “utile apprendimento” o meglio “apprendimento per mezzo di cose utili”. Famose le due Crestomazie italiane approntate da Giacomo Leopardi: quella della prosa (1827) e quella della poesia (1828), pubblicate dall’editore Stella di Milano.

In ambito quotidiano, con qualche approdo ricercato o tecnico, ricordiamo le coppie (il primo termine è greco, il secondo latino): perifrasi/ circonlocuzione (figura retorica che indica il “giro di parole”), aposiopesi/ reticenza (altra figura retorica, che significa la non volontà dello scrittore di dire di più di quanto dica), periplo/ circumnavigazione; in ambito medico-farmaceutico possiamo usare farmaci antiflogistici o antinfiammatori (< flox e flamma), antipiretici o febbrifughi (< puretós e febrem), analgesici o antidolorifici (álgos, “dolore”). Ancora, in ambito ecclesiastico, abbiamo la possibilità di usare forme diverse (e da etimi diversi) per indicare comunque non veri e proprî sinonimi, quali chiesa (dal greco, attraverso il latino, ecclesìa, cioè “assemblea”), pieve (dal latino plebem, col valore specifico di “gente di campagna”, e quindi, per traslato, “chiesa di campagna”), duomo (dal latino domus, cioè “casa”, nel senso pregnante di “casa di Dio”), duomo che diventa cattedrale, cioè sede vescovile, se contiene in sé la cathedram, cioè il trono del Vescovo. Quest’ultima parola produce poi, nel linguaggio quotidiano, un termine che troviamo in molti dialetti gallo-italici del nord-Italia, cioè la cadrega (Piemonte) e carrega (Liguria), vale a dire la comunissima “sedia”.

Ma anche i nomi proprî di persona ci permettono esempi di doppio etimo. Domenico equivale a Ciriaco, perché entrambi rimandano al nome del Signore: Dominus in latino (e quindi Dominicus), Kyrios in greco (ed ecco Kyriakós); oppure Augusto e Sebastiano, in quanto Sebastés (dal verbo sébomai, “venero, rispetto”) era la forma greca per Augusto, da cui anche i toponimi Sebastea, Sebastopoli, di contro ad Augusta., oppure ancora Benedetto (< bene dicere) ed Eufemio (eu phemì), Pio ed Eusebio, Amedeo (amare Deum) e Teofilo (Theòn philéin), Mario (dal latino marem, “maschio”, forma da cui, forse, deriverebbe anche il termine Mavors, antico nome del dio Marte) e Arsenio (dal greco àrsen, “maschio”), Libero (< liber) ed Eleuterio (< eléutheros), Macario e Felice.

Abbiamo accennato alle origini dotte o popolari delle parole: ciò avviene non solo con etimi da lingue diverse (greco e latino), ma anche dalla medesima lingua (il latino). Ecco dunque gli esiti fievole (pop.) e flebile (dotto) dal latino flebilem, coppia in cui si rimarca anche una piccola differenza di significato, in quanto il primo vale “poco udibile, a bassa voce”, nel secondo prevale l’idea del pianto (flere, lat. “piangere”) e dunque “lacrimevole, piagnucoloso”. “Pieve”, di cui abbiamo detto poco sopra, cioè la chiesa di campagna, è esito popolare del latino plebem, il cui esito dotto è invece “plebe”, cioè “gente, popolo”. Dal latino clavem (ricordiamo che l’esito volgare italiano proviene dall’accusativo e non dal nominativo latino) abbiamo l’esito popolare e di uso comune “chiave”, ma abbiamo il termine dotto (e di uso limitato al lessico politico medievale) “clavario”; esiste tuttavia il termine popolare (dal diminutivo clavicula, cioè “piccola chiave”, esattamente come auricula, in italiano “orecchia”, è diminutivo del latino classico auris) “clavicola”, l’osso della spalla che, essendo una sorta di “piccola chiave”, dovrebbe a rigor di logica essere la “chiavicola”… Ma tant’è: le lingue obbediscono a regole non scritte dettate (proprio perché non scritte) dai parlanti, e non dai libri.

Esse a volte invece si beffano delle regole dei parlanti, obbedendo alla scrittura e quindi ai libri.

Chi conosce il francese saprà che la parola cléf (chiave, pronunciato clé) mantiene (o meglio manteneva fino a qualche anno fa) nella grafia la –f etimologica (esito del latino -v-), assolutamente ininfluente (ed assente) nella pronuncia. Allo stesso modo, nella mia lingua materna, cioè il piemontese, scriviamo pcit (piccolo, forma arcaica pëcit, forse dal tardo latino picca, nel senso di “punta”, da cui il diminutivo piccolum, cfr. francese pétit, in provenzale pechot), ma pronunciamo cit, poiché la p- è esclusivamente etimologica.

Altro errore degli etimologisti “da dozzina” (ne ho conosciuti parecchi, ed è per questo che raccomando, in primis a me stesso, cautela e prudenza) è quello di confondere la “orizzontalità” con la “verticalità” nei rapporti tra le lingue.

Andiamo con ordine. Le lingue si raggruppano in famiglie, dette appunto “famiglie linguistiche”, ed una, che ci riguarda, è quella delle lingue neo-latine o romanze che, a sua volta, appartiene a quella più ampia delle lingue indo-europee. Queste famiglie (loro sì…) non hanno bisogno di due genitori; a loro ne basta uno solo: la lingua “progenitrice” (non la lingua “madre” che è, in linguistica, altra cosa), la quale “genera” e fa sviluppare un certo numero di lingue che, avendo una genitrice comune, tra loro si somigliano essendo appunto”sorelle”. Capita dunque ciò che succede nella realtà quotidiana delle famiglie: genitori, figli, che hanno altri figli, che sono quindi tra loro cugini e via così. Orbene, facendo un esempio concreto, nel campo delle lingue a noi più note (quelle appunto romanze o neolatine) la lingua progenitrice è il latino, mentre le lingue da essa generate sono “sorelle”. Quindi, in linea di principio, ma ci sono poi, come in ogni cosa, le eccezioni, molte parole consimili tra due lingue ci sono perché esse le hanno ricavate entrambe, in genere, dal latino e non l’una dall’altra sorella. La parola italiana “magione”, per esempio, assomiglia, sì, al francese maison, ma non deriva certo da essa, poiché entrambe provengono dal tardo latino mansionem. Questa spiegazione, che mi pare essere di ogni evidenza e perspicuità, spesso non è tenuta in conto – o addirittura neppure conosciuta – dagli etimologisti “da mercato del bestiame”, i quali, quando sentono due termini tra loro simili anche in lingue tra loro lontane, ne deducono illico et immediate che una delle due derivi dall’altra. Si scende così a volte a situazioni talmente grottesche da sfiorare il ridicolo, quale quella del buontempone (spero tale, e non seriamente convinto) che asseriva che il saluto quotidiano piemontese, tuttora in uso, “cerea” (buongiorno, in realtà derivato dal più formale “bondisserea”, a sua volta da “bondì dzorìa o dzoréa”, cioè “buongiorno, signoria”) derivasse dal greco cháire, cioè “salve, stai bene” (imperativo dal verbo cháiro, “sto bene, sono in buona salute”).

Che poi esistano delle “contaminazioni” orizzontali tra le lingue è certamente vero. Poiché alcune di esse, nel procedere della loro storia, essendo tra loro in contatto, si influenzano vicendevolmente: ecco allora la presenza, ad esempio nell’italiano, di anglismi, francesismi, ispanismi, germanismi, arabismi… ma di questi fenomeni parleremo una prossima volta.

Ecco ora un esempio di quanto detto poco innanzi. Il fatto che in inglese si usi il termine stable per significare “stalla” e che questa parola italiana in piemontese suoni stabi non vuol affatto dire che il piemontese derivi dall’inglese (almeno per quanto riguarda questo termine) o che l’inglese dal piemontese, ma che entrambi traggono la loro origine dal latino stabulum, da cui anche l’italiano “stalla” (rectius: dal plurale stabula); è pur vero che in inglese dovrebbe trattarsi di latinismo indiretto giunto alla lingua di Albione, che non è ovviamente romanza, attraverso il francese étable.

Concludiamo, per sorridere ancora una volta (in realtà per non piangere) della situazione linguistica in cui è scivolata la categoria dei giornalisti, con tre “perle” ricavate dai titoli tratti dall’edizione on-line del più diffuso quotidiano torinese:

«Dal fondale di un lago turco è emersa una fortezza epica di tremila anni fa» (3/12/2017): l’aggettivo “epico” si usa per le opere letterarie e, per estensione, per i loro protagonisti e le loro imprese; potrò dire “poema epico” o “gesta epiche”, ma non certo riferirlo ad un oggetto quale una “fortezza”.

«Quasi una resa, dopo una lunga serie di gravi episodi di violenza, che mettono a pregiudizio la sicurezza dei lavoratori» (8/12/2017): presumo che si volesse dire “pregiudicano”, ma il giornalista ha compiuto una crasi (cioè, mescolanza) tra il verbo “pregiudicare” (appunto) e “mettere a rischio”.

«Ha iniziato a dare in escandescenza» (10/1/2018): magari una ripassatina ai pluralia tantum

3 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua / XI – Rubrica mensile di Dario Pasero”

  1. Luciano Pranzetti

    Bellissima pagina, ricca di novità e stimolante assai per chi desidera avventurarsi nel mare magnum dell’etimologìa, scienza che io considero ‘sacra’. Il tuo intervento mi ha fatto ricordare che, ne LE SERATE DI SAN PIETROBURGO, di Joseph de Maistre, al II colloquio c’è una bellissima etimologìa – giusta, forzata, errata che sia non importa – di un vocabolo latino,costruito come acronimo sillabico di tre parole, e cioè: CADAVER (cadavere) che, secondo de Maistre è così composto: CA (ro) – DA (ta) – VER (mibus) = carne data ai vermi.
    Complimenti ancora per sì efficace ed istruttivo insegnamento.

    1. L’etimologia di CADAVER = caro data vermibus non è corretta, ma poco importa.
      Le serate di San Pietroburgo, invece, sono ASSOLUTAMENTE da leggere…..

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