Riflessioni su due straordinari avvenimenti che precedettero la nascita di Gesù – di Carla D’Agostino Ungaretti

“Ecce ancilla Domini: fiat mihi secundum verbum tuum” (Lc 1, 38).

Magnificat anima mea Dominum / et exsultavit spiritus meus in Deo salvatore meo” (Lc 1, 47 – 48).

“Benedictus Dominus, Deus Israel / quia visitavit e fecit redemptionem plebi suae” (Lc 1, 68).

di Carla D’Agostino Ungaretti

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Mentre scrivo queste riflessioni di cattolica “bambina”, sta per iniziare l’Avvento, tempo di grazia propizio alla conversione dei cuori perché ci induce a riflettere sul significato dell’evento chiave della storia del mondo, ritenuto tale da tutti i popoli della terra tanto che da esso, fin dall’alto Medioevo, si è deciso di far decorrere la numerazione degli anni. Quell’evento che nessun filosofo, veggente, maestro o fondatore di religioni fino a quel momento si era mai spinto a ipotizzare e, tanto meno, a ritenere realizzabile: l’Incarnazione di Dio, di quell’Ente Supremo la cui esistenza era sempre stata percepita dal genere umano fin dalla notte dei tempi, ma ritenuto troppo lontano dall’uomo perché se ne volesse o potesse interessare.

Invece Dio si è incarnato, “si è spogliato … si è umiliato facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 7 – 8), è diventato un uomo come noi, soggetto come noi alla fame, alla sete, al dolore fisico, alla commozione del cuore, alla pietà per gli infelici ma anche talvolta ad arrabbiarsi (Mt 23, 29 – 32) come succede a tutte le persone di onesto sentire quando assistono al verificarsi di un’ingiustizia o addirittura del Male. Ma quell’uomo aveva qualcosa in più, qualcosa di indefinibile in termini umani che i suoi amici e seguaci percepivano nebulosamente ma non erano capaci di descrivere, qualcosa che li induceva a riconoscere che “Lui solo aveva parole di vita eterna” (Gv 6,68). Quel Qualcosa, strettamente attinente alla Sua identità, Egli lo veniva rivelando ai suoi discepoli gradatamente, per non forzare la loro umana capacità di comprensione, fino a manifestarlo pienamente tre giorni dopo la Sua morte, con un evento ancora più sconvolgente e percepibile solo a coloro che avevano il cuore aperto alle indefettibili promesse di Dio e all’accettazione del Mistero: la Resurrezione.

Alla nascita quell’Uomo non aveva niente di diverso da tutti gli altri bambini: perfino il nome che Gli era stato imposto, Jehoshu’a –  cioè Gesù, che significa “Dio aiuta”, ovvero “Dio salva” – era un nome molto comune nel mondo ebraico di quel tempo[1]. Ma prima della sua nascita alcuni avvenimenti avevano fatto capire a coloro che erano maggiormente attenti alla Parola di Dio annunciata dai Profeti che i tempi avevano raggiunto il “pléroma”, ossia erano diventati maturi per l’avvento del Messia.

Nell’incipit del suo Vangelo Luca dichiara di voler fare una “dièghesis”, ossia un “resoconto ordinato”, un’attenta narrazione ,  un’esposizione di fatti accaduti realmente, perché così gli sono stati riferiti dai testimoni oculari, affinché il primo destinatario del suo lavoro, l’ “illustre Teofilo”, possa ben rendersi conto dell’“asphàleia”, ossia della “solidità” degli insegnamenti ricevuti. In questo modo egli intende fare un lavoro storiografico, ma anche teologico, perché accredita e consolida la Parola che lui stesso aveva ricevuto quando è venuto alla fede.

Luca ci presenta anzitutto un uomo di nome Zaccaria, personaggio importante perché sacerdote nel Tempio e discendente da Aronne – l’uomo il cui bastone Dio aveva fatto fiorire (Nm 17, 16 – 23) – sposato a una donna, anch’essa di nobile stirpe sacerdotale di nome Elisabetta[2]. “Essi erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni” (Lc 1, 6 – 7).  Dall’Arcangelo Gabriele, apparsogli nel Tempio “ritto alla destra dell’altare dell’incenso” (Lc 1, 11),  Zaccaria riceve  un“annunciazione” un po’ particolare, molto diversa da quella che lo stesso Gabriele rivolgerà tra poco a una sconosciuta ragazza galilea, ma anch’essa importante: l’annuncio che da lui e da sua moglie nascerà l’ultimo dei grandi profeti prima della venuta del Messia

Gabriele, l’ “ànghelos” di Dio ossia il Suo “Messaggero” il cui nome significa “Dio è prode” , non si rivolge alla futura madre, ma al padre al quale cita tutte le profezie riguardanti il nascituro. La notizia che proprio lui diventerà padre di un Profeta, che dovrà essere chiamato Giovanni (cioè “Dio si è mostrato forte”), è sconvolgente per il vecchio Zaccaria il quale  – “turbato e preso da timore”, pur conoscendo bene da sacerdote quale erano le profezie riguardanti il messaggio di salvezza – ha un cedimento di fede, non riesce a credere a quanto l’angelo gli rivela e accampa come motivo della sua incredulità l’età avanzata sia sua che di sua moglie. Per questa sua rigidità spirituale sarà punito con la perdita della favella fino alla nascita di suo figlio. Invece Elisabetta si dimostrerà molto più disponibile di suo marito all’accettazione del Mistero: “Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini” (Lc 1, 25), a dimostrazione del fatto che nei Vangeli, soprattutto in quello secondo Luca e nella Sacra Scrittura in genere, le donne sono spesso molto più pronte degli uomini ad accogliere la Parola di Dio, forse perché sono più “piccole”, meno acculturate, meno superbe di loro, come riconobbe lo stesso Gesù benedicendo per questo il Padre (Mt 11, 25). Questo non significa che i Vangeli ritengano le donne inferiori agli uomini, come ho sentito affermare da un certo stupido femminismo politicamente corretto, ma che i “piccoli”, i “poveri”, i cuori semplici sono molto più graditi a Dio dei superbi e dei colti boriosi.

Sei mesi dopo il “Messaggero di Dio” si reca in un semi sconosciuto villaggio della Galilea, entra in un’umile casa e si presenta a una ragazza di nome Maria, anch’essa ignota al mondo dei potenti e qui si verifica un’altra Annunciazione, quella riguardante la venuta del Cristo. Gabriele saluta la giovinetta invitandola alla gioia “perché ha trovato grazia presso Dio”,  A differenza di Zaccaria, Maria non è  sconvolta, non è presa da timore, ma solo “turbata”, per lo sconcerto che le persone veramente umili provano udendo le lodi indirizzate loro, e riflette tra sé e sé sul significato di quel saluto, rivelandoci subito un suo tratto caratteristico: il suo costante confronto interiore con la Parola di Dio[3]. Ma Gabriele le dice: “Non temere, Maria” e così l’aiuta a superare il timore iniziale che normalmente è presente in ogni vocazione. Il fatto che a intimorirsi sia la Santa Vergine dimostra che il timore non è una manchevolezza morale, ma solo un’umanissima reazione quando si avverte la grandezza del soprannaturale.  Poi Gabriele le annuncia che avrà un figlio che chiamerà Gesù, le cita (sia pure indirettamente) la profezia messianica di Isaia (7, 14) dicendole che il nascituro sarà Figlio dell’Altissimo, regnerà sulla casa di Davide e il Suo regno non avrà fine.

La risposta di Maria è lucida e sensata, non muove un’obiezione come aveva fatto Zaccaria, non risponde: “E’ impossibile perché io sono vergine!” ma capisce, sia pure ancora un po’ nebulosamente, che Dio può far nascere un figlio anche da una vergine o da una donna anziana come sua cugina Elisabetta, che Gabriele le porta come esempio perché “nulla è impossibile a Dio”. Perciò domanda solo come avverrà questo fatto straordinario; infatti Maria, come tutte le donne ebree del suo tempo, ha bisogno di un mediatore di sesso maschile, un padre o un marito, invece lei ha solo una promessa di matrimonio con Giuseppe, con il quale non era ancora andata a vivere (Mt 1, 18).

La risposta di Gabriele è, ad un tempo, poetica e teologica: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”. L’ “ombra” è il simbolo della potenza di Dio: quando Israele vagava nel deserto, la gloria di Dio riempiva il tabernacolo e una nube copriva l’Arca dell’Alleanza (Es 40, 34 – 36), quando Dio consegnò a Mosè le tavole della legge, una nube coprì il monte Sinai (Es 24, 15 – 16), quando Gesù si trasfigurò sul monte, la voce del Padre fu udita attraverso una nube (Lc 9, 35). Al momento del concepimento lo Spirito Santo – Dio avvolge Maria con la Sua ombra: è il Mistero che ogni giorno ricordiamo recitando l’Angelus. “Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis”.

La risposta di Maria è perfetta: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. Le sue parole sono commoventi perché fanno di lei un esempio perfetto di purezza (“non conosco uomo”), di candore e semplicità (“come è possibile?”), di umiltà (“eccomi, sono la serva del Signore”), di obbedienza e di fede (“avvenga di me quello che hai detto”). Da queste parole ci viene un grande insegnamento: l’obbedienza a Dio non è servilismo, non umilia la nostra coscienza, ma ci muove nel nostro intimo a scoprire “la libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 21). Maria non si comporta come le vergini stolte (Mt 25), che obbediscono senza ragionare; ella ascolta attentamente quello che Dio le chiede, riflette su ciò che non comprende, domanda quello che non sa, poi si abbandona completamente alla volontà di Dio. E’ il comportamento perfetto del cristiano.

Ma il suo comportamento non si esaurisce qui. Avuta la notizia dell’avanzata  gravidanza di Elisabetta, Maria non rimane inerte ma corre da lei per esserle accanto in uno splendido esempio di vicinanza femminile. Se Zaccaria si era dimostrato fragile e inconcludente, allora entrano spiritualmente in azione le donne, accogliendo senza riserve lo Spirito Santo che riempie entrambe. Maria ed Elisabetta hanno creduto all’ “ànghelos” di Dio, mentre Zaccaria non ne è stato capace; Elisabetta sente suo figlio, il “Precursore del Cristo”, “esultare di gioia nel suo grembo” e, per impulso dello Spirito Santo, precede il coro di tutte le generazioni future, proclamando “beata” Maria perché “ha creduto all’adempimento delle parole del Signore” e ne loda la fede.

L’azione vivificante dello Spirito opera in entrambe le donne: le ultime parole di Elisabetta provocano in Maria un grido di gioia incontenibile e di infinita gratitudine verso il Signore perché mai l’onnipotenza del Creatore si è manifestata in modo così totale: l’umile e sconosciuta fanciulla di Nazareth è diventata la Madre di Dio e dopo tanti secoli, e per tutta l’eternità, “tutte le generazioni la chiameranno “beata” ogni volta che qualcuno pronuncerà le parole dell’AVEMARIA. Il “Magnificat” (Lc 1, 46 – 55) è un inno ricchissimo di poesia e di significato teologico nel quale possiamo distinguere tre strofe: nella prima (vv. 45 – 50) Maria glorifica Dio per averla resa Madre del Salvatore; nella seconda (vv. 51 – 53) ella ci insegna come in ogni tempo il Signore abbia prediletto gli umili anziché i superbi e i  presuntuosi; nella terza (vv. 54 – 55) ella proclama che Dio, secondo la Sua promessa, ha sempre avuto una cura particolare per il popolo eletto, al quale sta per conferire il più grande titolo di gloria: l’Incarnazione di Gesù Cristo, ebreo secondo la carne (Rm 1, 3).

Ma intanto che ne è stato del povero Zaccaria? Povero davvero, perché nonostante la sua grande cultura di sacerdote del Tempio e la sua posizione sociale altolocata, non è stato capace di cogliere l’ispirazione dello Spirito e la sua fede, impastata di routine e di abitudine quotidiana, si è rivelata molto fragile in confronto di quella, granitica, di sua moglie Elisabetta e della loro giovane parente Maria. Lui è uno di quei “poveri” che più di tutti hanno bisogno di ricevere la “Buona Novella”. Perciò Dio gli ha dato una strigliatina rendendolo muto, ma non lo ha abbandonato perché anche lui è “uomo giusto”. Zaccaria ha avuto bisogno di un aiuto in più: veder nascere quel figlio nel quale non credeva e allora anche lui riceverà la grazia della profezia e intonerà il “Benedictus”, cantico così pieno di fede, devozione e riconoscenza per il Signore che la Chiesa ne ha prescritto la recita quotidiana nella liturgia delle Ore. Infatti profetizzare non significa solo predire eventi futuri, ma anche lodare Dio sotto l’azione dello Spirito Santo ed entrambi questi aspetti si rinvengono nel cantico del “Benedictus”. In un’ottica di fede, quale è quella che ispira la mia riflessione, io credo che gli sposi cui Dio non ha ancora concesso la gioia dei figli abbiano in Zaccaria ed Elisabetta un buon esempio e dei validi intercessori in cielo ai quali ricorrere senza rivolgersi alle tecniche di procreazione assistita. A volte Dio non manda figli perché “vuole di più da noi”: è quanto spiega chiaramente S. Giovanni Paolo II nell’Enciclica “Familiaris Consortio”, n. 14.

Al termine di questa mia umile riflessione, condotta avendo davanti agli occhi il grande Mistero che sta per realizzarsi, devo confessare che una volta di più mi rendo conto  che parlare di Gesù e di Sua Madre fa bene sia all’anima che al corpo. La nostra vita quotidiana è intessuta di problemi che, al momento in cui si presentano, sembrano grandi e fastidiosi, a volte addirittura insormontabili: la nostra salute, la cura della casa, il costo della vita, le tasse da pagare, il traffico, i problemi dei figli, gli impegni di lavoro.  Ma se ci fermiamo un momento e rientriamo in noi stessi, comprendiamo che gli eventi quotidiani non possono e non devono sopraffarci. La nascita di Gesù ci fa capire che la salvezza che Lui ci porta ci è sempre vicina e dipende solo da noi accoglierla nel nostro cuore. Se seguiamo l’esempio di Maria e di Elisabetta, abbandonandoci completamente alla volontà di Dio e al progetto che Egli ha stabilito per ciascuno di noi, i problemi non scompaiono (come non scomparvero per loro) ma si ridimensionano enormemente, le contrarietà familiari e sociali si attenuano, lo spirito si consola e si sente più forte, gli acciacchi fisici sembrano più lievi, perché una grande consolazione ci invade: non siamo soli e la grande Pace del S. Natale ci riempirà l’anima.

“Certo,” dirà qualcuno “però è necessario avere la Fede!”. E’ vero, ma io penso che anche per chi non ha la fortuna di averla, valga la pena fare razionalmente uno sforzo per ricercarla, abbandonando la superbia, la presunzione e la fallace sensazione di autosufficienza. Non rimarrà deluso.

Questo è il sincero augurio che io, da sorella in Cristo, porgo a tutti gli amici di Riscossa Cristiana.

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[1] Anche S. Paolo nella Lettera ai Colossesi (4, 11) nomina un suo seguace di nome Gesù, “chiamato Giusto”, che insieme a lui manda i suoi saluti ai destinatari della lettera.

[2] I nomi dei due coniugi sono molto importanti perché riassumono il significato teologico dell’alleanza di Israele con Dio. Infatti Zaccaria significa “Il Signore ricorda” ed Elisabetta, “Dio ha giurato”.

[3] Fa notare Benedetto XVI: Maria è coraggiosa e mantiene l’autocontrollo, ella è l’immagine della Chiesa che riflette sulla Parola di Dio e ne custodisce la memoria (L’Infanzia di Gesù, pag. 43- 44)

4 commenti su “Riflessioni su due straordinari avvenimenti che precedettero la nascita di Gesù – di Carla D’Agostino Ungaretti”

  1. Grazie, carissima Signora Carla, per queste sue belle riflessioni e per l’incoraggiamento che vuole offrirci per guardare sempre più verso l’Alto e superare col cuore più leggero le difficoltà che col passare degli anni dobbiamo affrontare, specialmente se in questi giorni prenatalizi siamo costretti a frequentare gli ospedali dove davvero la consolazione è nell’abbandonarsi alla volontà del Signore; il Quale ci è Padre e non può volere che il nostro bene.
    Dunque, sursum corda, e un caro augurio anche a lei.

  2. Grazie carissima, anche questo piccolo gioiello è un dono. Elogio sincero della “Donna” più nobile e santa, nostro punto di riferimento, ancora di salvezza, la Vergine Madre di Dio e nostra, amata e prefigurata già nell’Antico Testamento. E’ Lei la guida costante che intercede presso il Figlio. Affidiamoci e saremo salvi.

  3. Alberto Giovanardi

    Articolo meraviglioso e prezioso, specie in questi tempi oscuri per la nostra Santa Chiesa, incredibilmente calpestata e tormentata dal suo stesso pastore supremo !

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